COME UNA NAVE SULLA COLLINA
Una storia come questa, che parla d’affetto e di amicizia, è giusto che cominci con l’incipit più classico. C’era dunque una volta (1964), in un borgo appena fuori Urbino, una vigna che andava salvata dall’abbandono e dalla macchia – le migliori uve della zona, abbarbicate sul colle di Romanino. È Egidio Mascioli, lo storico sindaco della città umbra, a convincere all’impresa una coppia di amici, i coniugi Sichirollo – Livio (1928-2002), docente di filosofia, e Sonia Morra (1930), professoressa di lettere –, che di viticoltura non sanno molto, ma amano il buon vino e quei paesaggi raffaelleschi. «Di costruire case ancora non se ne parlava», ricorda Sonia Morra, ma già nel ’67 è l’amico di sempre Giancarlo De Carlo (1919-2005) a tracciare i primi progetti per un edificio che sostituisca la malandata casa colonica in cima al colle. «A ripensarci siamo stati dei ben strani committenti», ricorda Sonia Morra. «In fase di progettazione nessuna richiesta, solo il desiderio di avere una casa costruita da Giancarlo dove andare con gli amici nel tempo libero».
Urbanista affermato, De Carlo (di cui a dicembre si celebra il centenario e molte sono le iniziative in “cantiere” a Milano, Venezia, Urbino) è di casa nell’allora capoluogo marchigiano; a chiamarlo, era il 1958, per redigerne il piano urbanistico è Carlo Bo, scrittore e rettore dell’università, che ha raccolto intorno a sé un gruppo di amici di lunga data – Sichirollo e De Carlo, dunque, poi Albe Steiner, Vittorio Sereni, Antonio e Camilla Cederna – che firmano una fioritura di pensieri e progetti fondamentali per la città. «Urbino me la sono trovata, me l’hanno offerta, me la sono inventata», scriverà De Carlo. «Era una città vera, con tutte le sue regole, di dimensione minuta e allo stesso tempo era una grande architettura. Lì era il segreto: architettura grande in un centro storico minuto ed equilibrato voleva dire urbanistica».
Ca’ Romanino è pensata per essere una “machine à relation” indispensabile per una vita condivisa con passione dai suoi frequentatori. «Per un architetto», è sempre De Carlo, «il problema di progettare e costruire gli involucri dei suoi spazi è a breve termine. Ma invece è a lungo termine realizzare la trasformazione degli spazi in luoghi… Se hanno valore, gli spazi diventano entità, dove la gente vive e si riconosce, attraverso le quali ci si può raccontare». Fautore di un progettare in dialogo con l’ambiente circostante, l’architetto “sfida” il paesaggio marchigiano e per il nuovo edificio studia un gioco di vetrate, lucernari e percorsi sorprendenti che facciano godere appieno le forme, le luci e i colori delle diverse ore del giorno e del volgere delle stagioni. L’architettura che De Carlo appoggia sulla collina è quasi una nave, che solo all’apparenza si sviluppa su un piano orizzontale: nella realtà gli spazi sono come inghiottiti nella profondità del rilievo collinare. All’interno dei due piani dell’edificio è un succedersi di stretti corridoi, percorsi angusti, scale a pioli, scalette inserite nelle pareti di cemento, meandri uscendo dai quali ci si trova d’improvviso di fronte a spazi inondati dalla luce e dal verde della vigna e degli alberi circostanti. Il cemento e i tipici mattoni di cotto delle case urbinati ancorano a terra questo vascello e il suo equipaggio di amici, pensieri, idee, passioni comuni.
Al piano superiore, la grande camera, un’altra accanto; poi, scese le scale a pioli, la zona conviviale – pranzo, cucina e soggiorno su due livelli. Protagonisti sono qui la vigna che “irrompe” dai finestroni e il grande cilindro rosso del camino, la cui canna fumaria, sempre rossa, svetta all’esterno come un faro oltre la vegetazione, archetipo del focolare domestico rivisitato in una nuova dimensione.
Le misure e il colore del camino sono il segno con cui De Carlo rimarca l’importanza della piazza-salone, nodo centrale della casa. Percorsi anche fuori: una scala in calcestruzzo pare gettarsi nel nulla, ma seguendo il camminamento immerso nel verde, si giunge al terrazzo che copre le quattro stanze degli ospiti. Ogni parte dell’edificio è autonoma, ma da ogni ambiente si raggiungono tutti gli altri. È un labirinto al contrario: senza vie chiuse, ogni spazio è in relazione con il tutto, ma indipendente e separato. La sensazione che qui appassiona è proprio il cambio repentino di spazio e forma. Dal soggiorno si apre per esempio una porta di ferro a ghigliottina che immette su una ripida scala per raggiungere l’ala ovest: uno stretto corridoio con le stanze per gli ospiti affacciate sulla vigna, un bagno e una cucina.
«Districarsi in questo labirinto è sempre un’esperienza straordinaria», ammette Sonia Morra, oggi presidente della Fondazione Ca’ Romanino, creata nel 2013 per sostenere una serie di iniziative che vanno dalla salvaguardia della casa nella sua realtà originaria (dopo 50 anni qualche restauro è pur comprensibile), al sostegno di studi e ricerche sull’opera di De Carlo. Fra le iniziative della Fondazione le “24 ore”: la possibilità di essere per una giornata ospiti a Ca’ Romanino, vivendo uno spazio architettonico dove la natura convive in armonia con il costruito. E la vigna da cui tutto è partito? C’è ancora, non più a giro colle stile Langhe, ma stretta sul fronte della casa. I vitigni locali danno ancora quel vinello rosso rubino cui ogni vendemmia regala profumi sempre diversi. Quella 2019? Eccellente.
CA’ ROMANINO, IL PROGETTO-MANIFESTO FIRMATO DA GIANCARLO DE CARLO, UNO DEI GRANDI ANIMATORI DEL DIBATTITO CULTURALE DEL NOVECENTO, È DA 50 ANNI UNA “MACHINE À RELATION” APERTA A VITE ED ESPERIENZE CONDIVISE CON PASSIONE.