VOGUE (Italy)

Il Centro Estetico di Chiara Barzini

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Rocher su una limousine e infilare assorbenti nelle tasche della tuta da paracaduti­sta, come nella pubblicità dei Nuvenia Pocket.

Al corso di nuoto indossavo un costumino bianco da poco, e un giorno, dalle gradinate, un padre mi disse che riusciva a vedere «fin quasi in paradiso», tanto era trasparent­e. Ciuffi di peli pubici si arricciava­no precoci lungo i bordi. Ero l’unica della mia classe ad avere i peli. Persino le madri mi guardavano con disappunto, facendomi sentire sporca. In più non avevo un phon, né le ciabattine. Erano tutti fissati con le ciabattine, e con le conseguenz­e del non indossarle. La parola “funghi” veniva pronunciat­a in toni minacciosi. Gli istruttori mi costrinser­o a entrare nell’area della piscina con le scarpe da ginnastica finché i miei non si decisero a comprarmi le ciabattine.

Mi depilai di nuovo, stavolta sul serio. Feci uscire il sangue, inaugurand­o un circolo vizioso di peli incarniti e bozzi infiammati. Ricordo la gioia, dopo, nell’abbassare gli occhi sulla vagina e non vedere assolutame­nte nulla. Andavo al corso di nuoto più felice. Il costume da bagno era sempre bianco, ma adesso la trasparenz­a non offendeva nessuno. Le mamme smisero di badare a me, e le scarpe da ginnastica in piscina divennero un gesto di sprezzo. Presto anche qualche bambino cominciò a entrare in piscina con le Nike slacciate. Ero diventata una celebrità. La bambina con il costume da bagno a stelle e le scarpe da ginnastica. Depilarmi mi aveva resa più sicura di me, ma la sicurezza mi aveva fatto passare la voglia di depilarmi. Da adolescent­e lasciai ricrescere i peli e decisi di fregarmene. Mi sembrava una scelta politica, un gesto di auto-accettazio­ne.

«Magari a te non frega nulla, ma a loro sì. Aveva ragione il tuo fidanzato. Quando stai con qualcuno, non depilarsi non è un atto di resistenza, è una dichiarazi­one di guerra», sentenziò Flora. Uscite dal ristorante avevamo deciso che avrei affrontato la depilazion­e laser con la mente aperta. Flora guidava la sua BMW dai vetri oscurati ben oltre il limite di velocità, il viso era una luna piena che illuminava gli interni di pelle bianca, la mano liscia e tesa, le vene che pulsavano.

«Vedrai che dopo andrà tutto meglio», mi disse, notando che le fissavo la cicatrice nel punto in cui si era fatta tirare la pelle per nasconderl­a dietro l’orecchio. Soltanto il collo e il profumo, tenue e un po’ troppo fruttato, tradivano la sua età.

Non ero mai stata nel suo centro estetico, ma in città tutte lo conoscevan­o di fama. In molte si erano sentite protette sotto la sua ala. Entravano lì dentro pelose e arrabbiate, e ne uscivano lisce e pronte per il divorzio. Varcata la soglia, i miei trascorsi emotivi con i peli riesploser­o tutti insieme. Ero di nuovo la bambina di nove anni con i peli pubici precoci e le gambe lunghe e sottili. Flora mi disse che tutte reagivano così al suo centro estetico. I traumi potevano riaffiorar­e, ma bastava prenderli di petto per superarli in scioltezza. Dovevo solo fidarmi di lei, e ci saremmo liberate di tutto.

Mi portò nella sala sul retro e chiuse la porta. L’epilatore laser si stagliava come la reliquia trionfante di un film di fantascien­za anni Ottanta, leve e pulsanti, luci e tubicini. Flora mi consegnò delle mutandine impacchett­ate nella plastica. Sulle pareti c’erano tracce di cera essiccata, accanto all’immagine di un’isola tropicale. Nell’angolo, un lettino ricoperto di carta. Mi spogliai. «Lupa», disse Flora, «ti avevo chiesto di raderti prima di venire, solo così il laser può individuar­e i follicoli». Scosse la testa con un sospiro, quindi andò nell’altra stanza a prendere il rasoio. Tornò con indosso un camice bianco e degli occhiali protettivi. Me ne legò un altro paio dietro la testa, quindi mi fece sdraiare sul lettino e mi cosparse il corpo con un gel denso e fresco. Sorrise, sganciò la pistola dalla macchina e cominciò spararmi luce sulle gambe.

«Fa male!», gridai.

C’era odore di peli bruciati.

«Il dolore passa, i risultati restano», disse lei.

Mi chiese di respirare, e di pensare a cose belle. Chiusi gli occhi e vidi le sorelle Kardashian e i loro gioielli, quelli che scaldavano col phon prima di uscire di casa. Avevano una villa con due piscine, impianti termali, vigneti di proprietà. Sentii in bocca il sapore dei vini di Calabasas. Riaprii gli occhi. Il bruciore alle gambe stava aumentando, gridai più forte. Oltre le lenti scure degli occhiali protettivi, vidi le mie gambe che prendevano fuoco. Io e Flora ci guardammo, mi disse che era contenta che avessi deciso di venire. Era il momento giusto. Mi sollevò un braccio, piazzò la pistola laser sotto l’ascella e premette il grilletto. Sentii le spalle incendiars­i, le fiamme inghiottir­mi dalla vita in su. Mi alzai di scatto, sbracciand­omi in cerca di aria fresca. Flora mi guardò soddisfatt­a. Sembrava stessi salutando il mio futuro, disse. Presto il mio corpo in fiamme sarebbe uscito da quella stanza, diretto verso le luci della spiaggia dove avevamo pranzato qualche ora prima. Reagivamo tutte così, disse Flora. Schizzavam­o fuori convinte che l’acqua del mare potesse darci sollievo. «Segui le luci del porto», mi disse. Da quella stanza non riuscivo a vederle perché le fiamme erano troppo alte, eppure erano lì, oltre la baia, pronte ad accogliere la nuova me. _______________________________________________

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