Niente Di Disfunzionale
Cinema e letteratura hanno raccontato innumerevoli famiglie fuori norma. Dice lo scrittore: nulla, in confronto alla vita reale. Con buona pace del legislatore.
Nella storia della mia vita e della mia formazione, le famiglie degli altri hanno sempre esercitato un grandissimo fascino e, quando ero solo un bambino curioso e poi un adolescente ancora più curioso, mi sembravano tutte più interessanti e vive e libere di quella in cui vivevo. Le famiglie altre che vedevo al cinema o di cui leggevo nei libri con curiosità e divertimento. Famiglie che con le loro avventure, in scenari sempre diversi dai miei, o meglio da quelli della mia famiglia napoletana del quartiere Pendino-Mercato, aprivano porte su mondi sconosciuti in cui mi sarei voluto immediatamente trasferire. A mia memoria la prima alla quale avrei volentieri chiesto asilo è la famiglia Durrell, immersa nella Grecia del romanzo La mia famiglia e altri animali, in cui il piccolo Gerald si muove in un mondo libero, dove fisime, ossessioni e idiosincrasie dei congiunti costituiscono il tessuto narrativo della storia. E si permette la libertà di associare i parenti ad animali domestici o, vista in altro modo, di allargare la parentela alla natura che li circonda, flora e fauna compresa, il che portava con sé l’idea che il vincolo di sangue non è tutto.
Mentre diventavo adulto, letteratura e cinema, tassello dopo tassello, hanno costruito per me, e credo per moltissimi, un’idea della famiglia come di una comunità singolarmente strutturata di affetti, che sfugge a leggi e convenzioni, e che – per esempio – fa della partecipazione a un concorso di bellezza come in Little Miss Sunshine l’avventura di una vita e l’occasione per includere ogni differenza. Nella famiglia monogenitoriale di Paper Moon, Ryan e Tatum O’Neal sono, prima che padre e figlia, abilissimi compari di truffe; in quella di Turista per caso, prima libro di Anne Tyler e poi film di Lawrence Kasdan, ciascuno vive immerso nel proprio mondo di interessi e ricerche scientifiche e lascia squillare il telefono senza mai rispondere per giorni.
Ci sono poi le famiglie di Wes Anderson, che già solo nel manifesto de I Tenenbaum è riuscito a rendere l’idea di varietà e di libertà che una famiglia può offrire. O ancora quella de La vita davanti a sé di Romain Gary, dove un gruppo di ragazzini figli di prostitute viene tirato su da un’anziana ex prostituta in una comunità che è (sicuramente, come altro definirla?) una famiglia. E a mano a mano che crescevo e che le mie idee di famiglia si moltiplicavano e superavano tutti i confini (i ragazzi de Il signore delle mosche sono una famiglia o la dimostrazione di quello che accade quando una famiglia non c’è? E il mancato rapporto del protagonista con il padre ne L’isola di Arturo è esso stesso desiderio di famiglia?), ho capito che si poteva certamente considerare famiglia anche il gruppo di amici di The Breakfast Club, cinque ragazzi diversissimi che si conoscono in un pomerig
gio di punizione nella biblioteca della scuola e chiaramente non si lasceranno mai più. Il cinema italiano ha fornito il suo contributo a questa idea di famiglia allargata e per me i mondi de Le fate ignoranti, o de La guerra
di Mario, o di C’eravamo tanto amati hanno dato significati contrastanti eppure complementari a quello stesso sostantivo.
È stato solo dopo un po’ che ho capito che la mia famiglia napoletana, così sovrabbondante, composta da sei fratelli da parte di padre e sei da parte di madre, entrava di diritto nella stessa categoria di famiglie “altre”. Solo tardi ho capito che i miei zii che negli anni Settanta mi portavano a feste dove si fumava hashish e si stava “diciamo un po’ nudi”, e i loro amici, e il quartiere tutto, appartenevano all’insieme larghissimo di quelle famiglie particolari di cui mi piaceva tanto leggere. E così ho compreso di avere cercato inconsciamente nelle famiglie degli altri quello che avevo già a portata di mano, cioè un’idea pratica, non sviluppata intellettualmente, ma proprio vissuta, un’idea che mi porta a pensare che di fatto l’aggettivo “disfunzionale” se legato a una famiglia vada applicato con molta cautela. Ci sono famiglie che sono considerate disfunzionali, nel cinema e nella letteratura così come nella vita, e che invece funzionano benissimo. Famiglie in cui magari non vengono rispettate le regole o i ruoli di genere comunemente intesi, ma che costituiscono una rete di affetti e di dipendenze reciproche così forte che si autoproclamano famiglia da sé, prima che ci pensi il legislatore. Ogni volta che un politico o un pensatore o in effetti chiunque afferma che una famiglia non esiste, dimostra al contrario che ha già incontrato quella famiglia nella società, e quindi sta compiendo un atto non solo di rimozione, ma di violenza e di delegittimazione.
Cinema e letteratura stanno lì a ricordarci che dare etichette significa sempre generalizzare o lasciare fuori qualcuno. E qui vale la lezione di un altro film, che magari non è nella storia dei capolavori del cinema ma che dice una verità e fortunatamente la dice, poiché è un cartone animato per famiglie, con forza e chiarezza alle nuove generazioni. «Ohana significa famiglia. Famiglia significa che nessuno viene abbandonato. O dimenticato». Lilo & Stitch, 2002. E la famiglia qui è composta da una sorella, una bambina e un cane che in realtà è un alieno in cerca di protezione. Non c’è altro da aggiungere, credo. __