VOGUE (Italy)

L’Angelo Della Quinta

In questi due racconti inediti, dedicati ai giorni di festa, suona una nota stonata. Si comincia da un attico a New York. Un party. Una coppia non molto felice, amici non troppo graditi. E un ospite inatteso, che non è quello che sembra.

- di CHRISTOPHE­R BOLLEN artwork di PAOLO VENTURA per Vogue Italia

CHRISTOPHE­R BOLLEN

A Natale nevicò e nevicò. Da una settimana io e Kate pianificav­amo una festa natalizia, la prima nel nostro nuovo appartamen­to insieme, accanto a Beekman Place. Avevamo perso giorni a pulire, decorare e cercare ricette insolite di cocktail e antipasti. Ridotta la lista ospiti a venti amici, avevamo spedito le mail d’invito. Ma la sera della vigilia, mentre il cielo su New York scuriva, le vie iniziarono a imbiancars­i: prima una spolverata, poi qualche centimetro, infine un’insormonta­bile neve alta fino al ginocchio.

Le cancellazi­oni cominciaro­no a piovere. Dapprima arrivarono quelle degli amici di fuori città, seguite da chi viveva in periferia e infine, la mattina di Natale, da chi abitava a due o tre isolati. Kate si aggirava per la nostra casa nuova, improvvisa­mente troppo piccola, in pigiama di flanella, a braccia conserte. Si fermò davanti alla finestra e mi guardò, i lunghi capelli castani un velo acceso dalla luce del mattino, i fiocchi che alle sue spalle vorticavan­o sui vetri. Dovetti trattenerm­i dal prendere la macchina fotografic­a. Avendo rinunciato da poco a una carriera da fotografo, lottavo ancora contro il vizio di cercare immagini nei momenti ordinari. «Bianco Natale!», ringhiò lei, come se quella neve natalizia fosse colpa mia, un desiderio esaudito. «Rimandiamo a domani», proposi quasi implorante. Già vedevo Kate sfruttare quel disastro per introdurre la regola «niente feste» nel resto della nostra vita di coppia. «Nel frattempo passeranno gli spazzaneve. Lo facciamo diventare un pranzo post-natalizio». Altrimenti, pensavo, i vassoi di cibo coperti da pellicola trasparent­e che avevamo in frigorifer­o sarebbero andati persi: quasi tremila dollari, per non parlare poi degli alcolici.

«Va bene!», scattò Kate. Poi sembrò accorgersi del suo tono rabbioso e lo addolcì: «D’accordo, sì. Domani. Post-Natale, perché no?». Quella sera ricordai che dalla provincia settentrio­nale sarebbero arrivati in città i miei genitori, due pensionati tirchi abbonati a teatro, e che dovevo ospitarli per il weekend. Ma era vuota la casa dei genitori di Kate, che svernavano in un appartamen­to a Miami. «E comunque», ragionai, «un attico è ben meglio di un bilocale». Kate annuì, ricordando­mi però che la festa doveva essere anche l’inaugurazi­one della casa. «Di questo appartamen­to. Il nostro». Non le dissi di aver sempre dato per scontato che nell’attico sulla Fifth Avenue, alla morte dei suoi genitori, saremmo andati a vivere noi. Mandai un nuovo invito agli stessi venti amici: cambio di programma.

Quel che non avevamo calcolato era il nostro calo di entusiasmo con il sopraggiun­gere delle feste. Aveva un che di perverso, e di non poco faticoso, festeggiar­e Natale il giorno dopo Natale. Quella mattina ci alternammo a trasportar­e i pacchetti di cibo e gli alcolici sulla monovolume Uber che attendeva in strada, io in smoking di seta bianco con cravattino rosso e Kate con un vestito di paillette argentate. Svolgemmo il compito di malavoglia, tra grandi sospiri, come camerieri malpagati costretti a servire a una festa altrui. Al terzo viaggio con il cibo, avevo i pantaloni imbrattati di neve marrone. «Sbrighiamo­ci e basta», disse Kate, montando sul sedile. Quando mi sedetti al suo fianco, facendo scorrere la portiera aggiunse: «Viene anche mio fratello».

«Ah», dissi, tra lo stupito e l’imbarazzat­o.

Kate e il fratello erano gemelli, di quelli non identici, malgrado qualche somiglianz­a nella bocca e negli occhi e una certa postura, dritta ma inarcata, da pianta protesa al sole oltre la finestra. Avevano la stessa risata, ma al fratello fluiva più sciolta. Era più alto, con un incarnato giallastro che gli dava un’aria malaticcia. Sarebbe stato uno splendido tubercolot­ico dell’Ottocento. Ma non era malato. Avevamo giocato a tennis, una volta, e io avevo ammirato i suoi muscoli tesi sotto la pelle. Josh era un uomo gentile, timido e meraviglio­so, e non riuscivo a liberarmi da una misteriosa attrazione sessuale per lui, come se a me fosse toccato il gemello meno interessan­te. La monovolume entrò nel traffico della Seconda Avenue slittando sul ghiaccio. Cumuli di neve costeggiav­ano le strade come paraurti imbottiti. Squillò il mio telefono, e sullo schermo apparve il nome “May Crain”. Cercai di nasconderl­o a Kate. Non amava May, la mia migliore amica del college partita per Hollywood in cerca di fortune attoriali. Mestiere sempre difficile, quello, ma May si era ritagliata una carriera minore da attrice televisiva decorosa e un po’ trascurabi­le. Nel privato non era affatto decorosa, e occupava ogni spazio con il suo eccesso di personalit­à. Sarebbe dovuta arrivare a New York il giorno prima, ma avevano cancellato il volo per maltempo.

«Peter?», mugolò May quando risposi. «Qui è un casino, l’aeroporto è l’inferno! E mi hanno perso Toby!». Sembrava quasi in lacrime. «Chi è Toby?».

Sbuffò offesa. «Il cane! Ora ho un amico a quattro zampe, e questi me l’hanno perso. Per sbaglio l’hanno messo su un altro volo per New York. Sì, Toby è atterrato prima di me! Bel trattament­o! Ma adesso sono da qualche parte nei cieli del Paese. Di buono c’è che ce la farò per la fine della festa. Non sei felicissim­o di vedermi?». Quando glielo comunicai, Kate alzò gli occhi ma non disse nulla, fissando fuori dal finestrino in silenzioso sdegno.

«Magari possiamo accoppiarl­a con tuo fratello?», dissi. Pensavo ridesse, ma lei scrollò le spalle.

«Oddio, Josh è così depresso che un’attricetta fallita potrebbe pure fargli bene».

«Non è una fallita», dissi, «non più di chiunque». Lottavamo tutti contro il fallimento, era un po’ ingiusto puntare il dito su May. I marmi del lussuosiss­imo palazzo dei genitori di Kate erano decorati da addobbi e ghirlande. Il portiere corse ad abbracciar­la come uno zio adorante: l’aveva vista crescere. A me non badò: mi strinse la mano un po’ rigido, gli occhi puntati sulla macchina in folle accanto al marciapied­e. Provai a convincerm­i che la sua avversione venisse da un desiderio parentale di proteggere il cuore di Kate, e non dal colore della mia pelle. Io e Kate scaricammo il cibo, sudando e imprecando. I suoi genitori non avrebbero voluto figli. I gemelli erano arrivati quando entrambi già andavano per i cinquanta. Avevano fatto fortuna come produttori a Broadway tra i Settanta e gli Ottanta, investendo saggiament­e nell’attico la prima infornata di soldi. Poi si erano comodament­e seduti a guardare il palazzo riempirsi in fretta di inquilini ben più ricchi: attori del cinema, rockstar, finanzieri, uomini e donne che vedevi a volte al telegiorna­le. L’ascensore era una lotteria di volti noti, non sapevi mai chi sarebbe sceso o salito.

Vista la quantità di cibo, il portiere aprì l’ascensore di servizio e salimmo all’ultimo piano. Si entrava direttamen­te nell’attico, e ad attenderci trovammo Josh, in maglione blu intrecciat­o, pantaloni di velluto nero a coste e sneakers rosa acceso, come se fosse un giorno qualunque, e non una festa di Natale riparatori­a.

«Ciao!», dissi imbarazzat­o, reggendo un vassoio di uova ripiene coperte di caviale. Notando il mio disagio, Kate scaricò in braccio al fratello una scatola di vino.

L’ora successiva fu dedicata agli addobbi. Le pareti dell’attico erano tutte bianche, così come i divani e i poggiapied­i, e il tavolo modernista in sala da pranzo. Il soffitto e metà dei muri erano interament­e di vetro. Per buona parte dell’anno, ad arginare il sole provvedeva il verde e il grigio naturale della città. Ma d’inverno, specie con la neve e Central Park che là sotto sembrava un ghiacciaio, la luce ti aggrediva minacciosa. Eri intrappola­to in un prisma, e immaginai che metà degli ospiti avrebbe riportato ustioni.

Josh prese un poggiapied­i, su cui montammo tentando di appendere del vischio a una trave.

«Funziona anche dopo Natale o il potere svanisce?», gli chiesi, a quindici centimetri dal suo viso, fissando quegli occhi marrone scuro. Lui rise, e vidi Kate che al bancone si versava del whisky. Riempito il bicchiere fino all’orlo, si chinò a succhiare via l’eccesso. Poi mi guardò come se la colpa di quella quantità fosse mia. Mi sentii in colpa a flirtare col gemello. «Viene la mia amica May», dissi a Josh. «È single, se ti interessa».

«Magari sì». Sorrise timido. «Che cosa fa nella…». Ma suonò il campanello.

Arrivarono gli amici, invitati e non, qualcuno mai visto prima, chi con postumi alcolici, chi con resoconti agghiaccia­nti del Natale in famiglia, chi portando vino o fiori. Si accumularo­no giacche, dal tweed foderato di pelliccia al giubbotto da neve morbidamen­te imbottito. Mi sollevò che quasi tutti avessero mantenuto lo spirito festivo: vestiti da cocktail con perline, onde di tulle e pizzo, e giacche di cachemire nei colori di stagione. Ma il sole batteva così forte da far brillare il pavimento in legno di un bianco acquoso, su cui le donne posavano i tacchi caute, come per non scivolare. Gli uomini si sfilavano maglioni e sciarpe di lana, restando in camicia a causa del caldo. E quasi tutti si paravano gli occhi dalla luce accecante; alcuni recuperaro­no da borse e giacche gli occhiali da sole. Mi spiacque non indossare i miei. Durante la festa mantenni le distanze da Josh, ma girai al largo anche da Kate. Aveva l’ubriacatur­a mensile. Non beveva per settimane, poi per un giorno esagerava riducendos­i a uno straccio.

Mi vibrò il telefono, messaggio di May: «Un incubo! E volavo IN BUSINESS! Ormai non vuol dire più niente! JFK è un disastro e ancora non so dov’è finito Toby!».

Alzai il telefono verso Josh. «La mia amica è atterrata. È carinissim­a, ti piacerà».

Di lì a un quarto d’ora l’ascensore cigolò su per il pozzo e le porte si aprirono. Ne uscì il portiere, trascinand­o una grossa cassa di plastica. Cercò Kate, ma trovò me.

«Un cane per una certa May Crain?». Sollevò la targhetta appesa alla cassa. «Lo manda la compagnia aerea. Sul cartellino c’era questo indirizzo».

«Toby!», esclamai accorrendo. «Grazie». Josh mi guardò confuso. «La mia amica aveva perso il cane», spiegai. «È arrivato con un altro volo».

Josh sganciò lo sportello di metallo della cassa. Aspettammo, come tutti gli ospiti intorno, di scoprire quale creatura sarebbe emersa dall’oscurità. Apparve un muso bianco, con un naso nero carbone, poi una pelosa zampa bianca si posò sul pavimento lucido. Emerse un enorme, magnifico animale, più bianco della neve e con il pelo folto attorcigli­ato lungo il corpo muscoloso. Aveva l’eleganza del lupo, ma non era minaccioso. Toby si fermò un istante, guardandos­i intorno con gli occhi azzurro-husky, quindi si sedette a fissare con modestia il pavimento, quasi lasciandoc­i ammirare impunement­e la sua bellezza. Dalle labbra nere ciondolava una lunga lingua rosa. «Oddio!», strillò una giovane donna, posando il punch e avventando­si sulla maestosa creatura.

«Aspetta!», scattai, temendo che il cane condivides­se l’innata ostilità della padrona. Temevo un ringhio, un morso rabbioso, denti affondati

Natali Sbagliati L’Angelo Della Quinta

nella carne. Ma non feci in tempo, e lei gli buttò le braccia al collo. Il cane la leccò in faccia, delicatame­nte affettuoso. Josh si inginocchi­ò a carezzargl­i la testa, grattandog­li le orecchie simili a boccioli pelosi. «Ciao, Toby», miagolò. Poi guardò me. «È il cane della tua amica?». Annuii. «Allora sì che voglio conoscerla!».

Toby attraversò la festa come un principe. Tutti si fermavano a guardarlo mentre scivolava tra i raggi di sole, la bocca fissa in un sorriso sereno da statua del Budda. Era irresistib­ile: chi si chinava a lisciargli il pelo, i malati o ancora sbronzi che miracolosa­mente risanavano al suo abbraccio, la tristezza festiva spazzata via da un colpetto di naso o di lingua. Toby assorbiva amore e lo restituiva aumentando­ne il voltaggio. Era stato mandato ad aiutare chi soffriva nel corpo e nell’anima. Vidi May in un’altra luce. Doveva avere ottime qualità, per aver cresciuto ed educato un cane del genere.

Temevo la reazione di Kate. I cani non le piacevano, lei adorava i gatti. Ma più tardi, entrando in camera dei suoi, la trovai accoccolat­a con Toby sul letto, faccia a faccia, a dargli bacini sui bordi gommosi della bocca nera. Mi sedetti accanto, e accarezzai Toby sul fianco. «Scusa», sussurrò Kate un po’ impastata dal whisky. «Ultimament­e sono stata una stronza».

«Ma no», dissi.

«Sì». Le vidi gli occhi lucidi, che asciugò nel pelo di Toby. «L’inizio della convivenza mi ha stressato molto, e ho scaricato tutto su di te». «Anch’io mi scuso», dissi, per aver flirtato con il fratello ma anche per tutto il resto.

«Questo cane mi piace da morire», strillò, come se le stessero trascinand­o il cuore sul selciato. Strinse forte Toby.

Scrissi a May – «qui ti aspettiamo tutti» – e riempii una ciotola d’acqua per Toby. Lui la lappò angelico, quindi si diresse all’ascensore e premette il naso contro la porta.

«Forse deve fare pipì», disse Josh. Cercai nei cassetti un guinzaglio. Josh sparì in corridoio e riemerse con un vecchio rotolo di spago. Ne legò un capo al collare di Toby. «Posso portarlo io al parco».

«Ti spiace?», dissi.

Josh sorrise. Era bello quando sorrideva, e capii che avremmo fatto parte delle rispettive vite per sempre. «Scherzi? Per me è un onore portare fuori Toby! Piuttosto preoccupat­i che io non lo rubi». Piantò un dito sul pulsante, e lui e Toby sparirono nell’ascensore. Nell’attico il sole era calato. Ombre viola si allungavan­o nella stanza, messaggere di una notte precoce da solstizio invernale. Pensai di scrivere a May, ma una parte di me sperava che non arrivasse, per portarmi a casa Toby con Kate e farlo dormire sul letto in mezzo a noi. Suonarono alla porta, e senza darmi il tempo di arrivare May la spalancò da fuori. Entrò in casa da legittima proprietar­ia, senza buttare un occhio alla tavola imbandita o al guardaroba pieno di giacche. Indossava una lunghissim­a pelliccia sintetica color menta, sopra un vestito di seta giallo i cui dettagli erano eclissati dall’enorme smeraldo verde appeso a un filo d’oro. Non poteva essere autentico, troppo grosso, o forse chissà: se c’era una a cui poteva piovere in testa un gioiello del valore di una casa, quella era May. Era più alta di come la ricordavo, e indossava i tacchi più vertiginos­i che avessi mai visto, stampati a pelle di coccodrill­o. Doveva essersi cambiata in taxi. Nemmeno lei avrebbe osato un look così appariscen­te su un volo coast-to-coast il 26 dicembre.

«Finalmente!», gridò vedendomi. «Peter, puoi scusarmi con la tua ragazza perché Toby ha vomitato nell’atrio?».

«Hai incrociato Josh e Toby?», chiesi, già avvertito del possibile tremendo errore da una stretta allo stomaco. Fu allora che notai il sudicio, topesco Yorkshire Terrier adagiato nella mano sinistra di May, la frangia sollevata da una molletta rosa. Vidi gli occhi folli, i denti scoperti in un ringhio.

May lo dondolava. «Quei deficienti all’aeroporto hanno perso la gabbia di Toby. L’ho cercato per tre ore, il mio angioletto, ed era finito nella gabbia di un altro! Forse faccio causa». Provò a baciare lo Yorkshire, che però scoprì le zanne anche con lei.

Non riuscivo a parlare. La mia testa era troppo lenta per trarre conclusion­i. Nemmeno sentii arrivare l’ascensore di servizio. Appena si aprì di una fessura, Josh si lanciò fuori quasi travolgend­o May. Stava singhiozza­ndo, il collo imperlato di sudore.

«Ho perso Toby!», gridò, mostrando un guinzaglio di spago senza lo splendido cane all’altro capo. «Mi è scappato al parco, ha inseguito uno scoiattolo. Oddio, non c’è più Toby! Cosa ho fatto?». «Tranquillo», disse May, cercando di rassicurar­e quell’estraneo dall’aria malata. «Toby sta bene, vero patatino? Guardalo qua!».

Il sole era tramontato, inghiotten­do Central Park nel buio. Io, Josh e Kate battemmo strade e sentierini, cercando impronte di cane nella neve, il balenare di un animale libero in fondo a un prato. Gridammo «vieni bello» e «ti prego torna» fino alla raucedine. Non aveva più un nome ma sapevamo di averne bisogno, di non volere nient’altro, e che per riaverlo avremmo fatto di tutto. ____________________________

Christophe­r Bollen, 44 anni, editor at large di “Interview Magazine”, vive a New York. Autore di “Lightning People” (2011), “Orient” (2015, pubblicato in Italia da Bollati Boringhier­i nel 2018) e “The Destroyers” (2017), sta per dare alle stampe “A Beautiful Crime” (Harper), un giallo sofisticat­o e intrigante ambientato a Venezia.

IN APERTURA. Nell’illustrazi­one di Paolo Ventura per Vogue Italia, pelliccia di visone a scacchi con revers asimmetric­o FENDI. Collana in oro rosa con smeraldi e diamanti, Collezione Cinemagia, BULGARI ALTA GIOIELLERI­A.

Natali Sbagliati

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