Gli Abiti Senza Gli Abiti
Può sembrare un paradosso, ma la moda digitale conquista il pubblico. Ha senso comprare un vestito che non esiste nel mondo reale (e quindi non inquina)? Forse sì. Ecco perché.
Visto il tema, tanto vale stare al gioco. Per prima cosa, individuare e analizzare un territorio: Pechino, Shanghai e dintorni, dove in media si spendono cinque ore al giorno sullo smartphone per consumare intrattenimento digitale. Subito dopo, ampliare la prospettiva: scoprire che, nel 2019, il 63 per cento degli utenti mondiali dei videogame per telefonino sono donne, e che il 79 per cento di loro non disdegna di fare acquisti virtuali (i cosiddetti in-app purchases). Infine, porsi il quesito: «Cos’è più semplice? Trovare una persona che possa spendere mille dollari per una camicia di Valentino o mille persone che vogliano pagare un dollaro per la stessa camicia, ma in formato digitale?». L’identica domanda se la sono fatta Andy Ku, curioso ibrido tra uno startupper tecnologico e un architetto, assieme a due conoscitrici di lungo corso dell’industria della moda: Elizabeth von Guttman e Alexia Niedzielski, anime del magazine System. Per loro vince l’opzione b, tanto da puntarci seriamente: lo scorso ottobre, in Cina, hanno lanciato Ada, una app in arrivo anche in Occidente nel corso del 2020. Permette di comprare e far indossare a un avatar tridimensionale i capi di Dior, Prada, Armani, Miu Miu e vari colossi del fashion. Non gli abiti fisici, ma i loro equivalenti di pixel. Così credibili e curati, da avere persuaso i principali nomi del settore a imbarcarsi nell’impresa.
I meccanismi di Ada sono un lampante ossequio a quelli di un videogioco di strategia: si può costruire un clone di sé stessi o chiedere in prestito la silhouette di una celebrità per improvvisarsi stylist; abitare e rifinire uno showroom, andare a curiosare in quelli degli amici oppure, è inevitabile, pubblicare il frutto delle fatiche creative sui social network. E se un abito o una scarpa vengono rilasciati in edizione limitata da una maison, il medesimo numero di pezzi sarà disponibile nel software. L’intrigo è battere tutti sul tempo e arrivare ad accaparrarsene uno, sfoggiare il bottino
in quest’elegante universo parallelo o, è un’ipotesi, affittarlo ad altri utenti ricevendo un compenso in moneta virtuale. Una valuta di fantasia che si cambia con una soddisfazione reale: collezionare frammenti di vari brand senza mettere piede in nessuna boutique tradizionale o commettere un attentato alle proprie tasche. È il vecchio refrain di democratizzare il lusso dalla porta di servizio, spalancando fonti di fatturato inedite per chi quel lusso lo fabbrica (o almeno lo disegna in digitale).
Di segnali di contaminazioni ce ne sono tantissimi. Troppi, ravvicinati e nella stessa direzione per considerarli soltanto un ingorgo di casualità. C’è Moschino che collabora con
The Sims, videogame storico per sperimentare una second life, da qualche mese a questa parte griffato dalla maison italiana. Un’eroina di League of Legends, titolo online per pc con numeri da primato, sfoggia uno dei look di Nicolas Ghesquière per Louis Vuitton, mentre gli scalmanati protagonisti di Fortnite, epidemia su smartphone con 250 milioni di malati da display, hanno licenza di furoreggiare da un’avventura all’altra calzando scarpe della Nike.
Il fattore comune è che questi outfit (il nome tecnico è skin, non strati di pelli, ma di bit) si pagano. Poco, in media una decina di dollari per un set completo: si stima che la loro massa, assieme a tutti i contenuti digitali dei giodiano chi, varrà circa 20 miliardi complessivi a fine 2020. Una cifra che l’industria del fashion, la più accreditata a sgranchire i canoni dello stile, non può non corteggiare. Colonizzando l’ortodossia videoludica, oppure muovendosi in terreni autonomi che la richiamino. Come Drest che, disponibile su larga scala nel 2020, già dichiara con chiarezza le sue intenzioni: presentarsi come uno “styling game interattivo”, il cui scopo è costruire look e raccogliere sfide creative, pardon “challenge”, sposando il lessico dell’iper competitiva – e target ideale del progetto – Generazione Z. La più eccitata dal fascino aggressivo di una belligeranza perenne su arene invisibili. Drest ha siglato una partnership con Gucci e avrà nel suo fitto guardaroba le proposte di Burberry, due brand che hanno da poco lanciato una serie di videogame popolati dai loro simboli e capi icona: la maison fiorentina con una sezione della sua app chiamata Arcade, quella britannica con un gioco online in cui un cervo ascende alla luna intabarrato in un piumino.
Questa massiccia corsa al virtuale sembra la risposta a un’urgenza, a una presa di coscienza progressiva nel settore: l’industria di abbigliamento e calzature è responsabile per l’8 per cento delle emissioni globali di gas serra, quasi quanto l’intera Unione europea. Senza adeguati interventi, la situazione è destinata a peggiorare. Sono i dati ricordati dal quotiThe New York Times, in un articolo che suona come un atto d’accusa: «Indossi abiti? Allora sei parte del problema».
Ecco, se il grande tema è disancorare i contenuti della moda dalla materialità, non lasciandoli però appesi in un vuoto digitale privo di scopo (oltre che di sostanza), la soluzione diventa agganciarli a un contesto videoludico. Trasformarli cioè negli elementi costitutivi, o solo accessori, di un videogame. Dove il consumo è a impatto zero e il lusso non si scioglie nello stanco teorema della provvisorietà, nel cronometro a ritroso dell’eclissi di una storia Instagram. Rimane, in quanto espressione creativa incorniciata in uno schermo, senza tradursi necessariamente in un tessuto. O se lo fa, lo fa per un motivo: le nuove app-games possono aiutare gli stilisti a carpire i gusti del pubblico, a scrutare cosa piace di più, cosa comprano volentieri sullo smartphone, per pilotare i canoni delle collezioni a venire. O persino incoraggiare a osare con quelle correnti: sperimentare un outfit su un avatar che ci assomiglia significa misurare il feedback che ci sa trasmettere. Raccontarci se ci sentiamo a nostro agio, più forti o indeboliti da un determinato look. Spingendoci, in caso di sensazioni rassicuranti, a passare dal digitale all’acquisto reale: in Drest, per ogni capo è presente un link diretto al sito di e-commerce Farfetch. Certo, portare la moda ad addentrarsi nel suo contrario ontologico, stiparne il guardaroba in un download, genera resistenze. Per vincerle, si può ricorrere anche a vecchie strade. In senso letterale: a fine novembre, per tre giorni, è stato aperto a Londra un pop-up store frutto di una collaborazione tra il designer britannico Christopher Raeburn e la “digital fashion house” The Fabricant, che disegna e sfila soltanto online. L’idea era far interagire (giocare) i clienti con un sarto e uno specchio virtuali, per indossare abiti di bit e farsi poi spedire un file con addosso questi look intangibili. Un’astuzia per solleticare la voglia di replicare l’esperienza in autonomia, per non farla risultare chissà quale stravaganza.
Bisognerà vedere se una progressiva confidenza con tali dinamiche riuscirà a consolidarle, a renderle abitudini di massa come l’approdo in un videogame tradizionale in cui ci sono nemici da sconfiggere, traguardi da tagliare, livelli da superare. In quelli centrati sullo stile si trova nulla o poco di ciò, ma per Alexia Niedzielski il problema non si pone. L’ha spiegato in un’intervista con il Financial Times: «La moda», ha detto, «è il divertimento». È l’oggetto e lo scopo del gioco._