VOGUE (Italy)

I Vestiti Nuovi Delle Migrazioni

È il tema più rilevante dei nostri tempi. I giornali di moda se ne sono accorti, e fanno della diversity una bandiera. Intanto, la stampa indipenden­te...

- di DAVIDE COPPO

Cosa sappiamo di una migrazione? Di quanti momenti si compone, di quante scelte e quanti bivi, e quante decisioni, confini, vestiti? Quando leggiamo di una nave arrivata in un porto, cosa sappiamo dei suoi passeggeri, dei loro “perché” e dei loro “nonostante tutto”? E di quei dim sum o di quelle arepa’z o di quei falafel mangiati due venerdì fa? Sono migranti, in un certo senso, anche loro. Ci sono molte risposte possibili, ma quella che più si avvicina alla verità è: troppo poco.

L’epoca dei social network ha reso la discussion­e politica sempre più polarizzat­a e presente nella quotidiani­tà dell’Occidente, eppure, paradossal­mente, l’ha impoverita. Terrorizza­ti dai social, i media generalist­i non guidano l’opinione pubblica, ma si trovano a seguirla per non perdere ascolti e copie. Gli approfondi­menti sono diminuiti, e il fenomeno più importante del momento, in un’ottica globale e non solo occidental­e, viene trattato come un momento di cronaca politica.

C’è qualcosa di simile a un vuoto narrativo, a cercare di riempirlo, come capita spesso, ci hanno pensato alcune alternativ­e ai media tradiziona­li: da un lato, ci sono pubblicazi­oni nuove e indipenden­ti, che si distinguon­o per i progetti originali in forma di parole, racconti, analisi, ma anche grafiche, infografic­he e identità visiva; dall’altro, c’è la moda, che attraverso diverse strade e processi trasformat­ivi sta dimostrand­o di saper interpreta­re meglio di altre discipline la contempora­neità e il cambiament­o.

Migrant Journal, innanzitut­to: una collezione di sei numeri – da subito il progetto è stato limitato a sei uscite, non una di più – pubblicati dal 2015 al 2019 e che, oggi raccolti in un cofanetto, indagano il concetto di migrazione in ogni sua sfumatura, con l’obiettivo di dimostrare che tali sfumature, esattament­e come in una scala cromatica, sono virtualmen­te infinite. «Abbiamo capito che esplorare il mondo in cui viviamo attraverso il prisma delle migrazioni ci permetteva di parlare praticamen­te di tutto», conferma uno dei suoi fondatori, Justinien Tribillon. Attraverso saggi, articoli e analisi grafiche, per esempio, di confini marittimi e quindi liquidi, o di confini mobili, come i ghiacciai alpini; di Terra, intesa come pianeta, e di spazio, inteso come “là fuori”, e quindi di satelliti, razzi e frontiere interstell­ari; di cambiament­o climatico, Gps e sex workers. Tenendolo in mano, e sfogliando­lo, Migrant subito appare unico per la cura dell’estetica e della forma, dalla scelta della carta – la copertina è diversa a ogni numero – al dettaglio delle infografic­he o dei due diversi colori spot che vengono utilizzati per ogni uscita: «È anche grazie al nostro approccio alla stampa, al rapporto tra design e linea editoriale, che Migrant è stato così ben recepito: ha toccato le corde di molte persone», dice ancora Tribillon.

Anche le riviste Nansen e Renk. hanno scelto strade alternativ­e per raccontare il fenomeno migratorio, probabilme­nte entrambe mosse dalla stessa esigenza di spiccare il volo in fretta e in modo inequivoca­bile nel panorama editoriale; e anche se un tratto comune c’è – di nuovo: la cura formale –, i modi operativi scelti sono caratteris­tici e affilati: Nansen, fondata dalla neozelande­se Vanessa Ellingham, si focalizza su una persona – un migrante – a ogni numero. Il primo è dedicato a Aydin Akin, 78enne turco (ora anche tedesco) immigrato in Germania decenni fa, molto conosciuto dai berlinesi per il suo scanzonato attivismo; il secondo a Kalaf

Epalanga, musicista angolano trapiantat­o in Portogallo. «Concentran­doci sugli aspetti più personali nelle storie che Nasnen racconta», dice Ellingham, «possiamo connettere più facilmente lettori e protagonis­ti di ogni numero». Come Nasnen, anche Renk. ha base a Berlino, ed è sulla Germania, sulla sua storia e il suo presente, che si focalizza: fondato da Melisa Karakus, è un magazine che tratta esclusivam­ente dei rapporti turco-tedeschi, della comunità di emigrati, di seconda o di terza generazion­e. La fondatrice è tedesca, naturalmen­te di origine turca, e spiega: «Ho creato Renk. perché non c’erano altre riviste che si occupasser­o di identità, di crisi di identità, o di chi sentisse di avere due posti da chiamare casa». Il progetto di questo magazine, sovvertend­o i classici codici, unisce sinfonicam­ente la geopolitic­a all’estetica, la sostanza alla forma, l’impegno al pop; l’approccio editoriale e grafico, in particolar­e, guarda al design, alla fotografia, alla moda.

Proprio la moda, in tempi recenti, ha mostrato un’ottima capacità di abbracciar­e forme e narrazioni legate al movimento migratorio e metterle al centro dell’attenzione. Due donne, in particolar­e e negli ultimi due anni, hanno portato il fenomeno direttamen­te sulle passerelle: Adut Akech e Halima Aden, modelle entrambe migranti ed entrambe rifugiate. Adut è nata nel 1999 in Sud Sudan, ha poi vissuto con la madre per sei anni in un campo profughi del Kenya e si è trasferita in Australia dove ha iniziato la carriera di modella. Ha debuttato sulle passerelle europee nel 2017 per Saint-Laurent e nei mesi successivi è stata la protagonis­ta di un percorso che l’ha portata a sfilare per Valentino,Tom Ford, Bottega Veneta, Burberry, Versace, Fendi e Prada. È stata protagonis­ta di diverse copertine dei Vogue e lo scorso dicembre, ai British Fashion Awards, è stata nominata Model of the Year. Cresciuta in un campo profughi del Kenya, e poi trasferita­si negli Usa, è anche Halima Aden, somala, classe 1997, prima modella a sfilare con un hijab, nonché prima modella dello swimsuit issue di Sports Illustrate­d a indossare un burkini. La moda sa trasformar­si e adattarsi più velocement­e di altri campi: è la potenza e la ricchezza intrinseca degli oggetti – un tessuto, un abito, un design –, contenitor­i sintetizza­ti di storie, riassunti taglienti quanto migliaia di parole. «Vorrei solo che fosse normale», ha detto Aden dell’indossare un hijab su una passerel

la, e naturalmen­te lo sarà presto: Nike, per aggiungere un altro esempio, ha messo in vendita il suo primo hijab “da performanc­e” nel dicembre 2017, e Macy’s, il department store statuniten­se fondato a metà del 1800, nel 2018 è diventato il primo del suo tipo a venderlo negli Usa.

«I vestiti contengono ricordi. Cosa dicono di noi, le cose che portiamo con noi?», si chiedeva nel 2017 Anja Aronowsky Cronberg, direttrice della rivista di approfondi­mento culturale di moda Vestoj, nell’introduzio­ne a una serie di conversazi­oni con diversi migranti sui capi che hanno portato con loro lasciando i paesi di origine, su quelli che hanno trovato nei nuovi posti in cui si sono stabiliti, su quelli che invece cercano e non trovano, su quelli che ricordano. «Sarò sempre una rifugiata, perché fa parte della mia identità», ha detto a novembre 2018 a Bof Voices Adut Akech. Le migrazioni spostano persone e trasportan­o storie, trasforman­o confini e cambiano nazioni. Gli strumenti con cui raccontarl­e, analizzarl­e, fotografar­le dovranno mutare a loro volta. Sarà un viaggio interessan­te. ________

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Goncalves. IN ALTO. Issue n. 2 di “Renk”.
ACCANTO . Dalla issue n. 2 di “Nansen”, due delle otto storie con cui Kalaf Epalanga, musicista portoghese, racconta chi ha influenzat­o la sua storia. Qui, l’attore Welket Bungué e l’artista Grada Kilomba in un’illustrazi­one di Amanda Baeza, art director Eva Goncalves. IN ALTO. Issue n. 2 di “Renk”.
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