I Vestiti Nuovi Delle Migrazioni
È il tema più rilevante dei nostri tempi. I giornali di moda se ne sono accorti, e fanno della diversity una bandiera. Intanto, la stampa indipendente...
Cosa sappiamo di una migrazione? Di quanti momenti si compone, di quante scelte e quanti bivi, e quante decisioni, confini, vestiti? Quando leggiamo di una nave arrivata in un porto, cosa sappiamo dei suoi passeggeri, dei loro “perché” e dei loro “nonostante tutto”? E di quei dim sum o di quelle arepa’z o di quei falafel mangiati due venerdì fa? Sono migranti, in un certo senso, anche loro. Ci sono molte risposte possibili, ma quella che più si avvicina alla verità è: troppo poco.
L’epoca dei social network ha reso la discussione politica sempre più polarizzata e presente nella quotidianità dell’Occidente, eppure, paradossalmente, l’ha impoverita. Terrorizzati dai social, i media generalisti non guidano l’opinione pubblica, ma si trovano a seguirla per non perdere ascolti e copie. Gli approfondimenti sono diminuiti, e il fenomeno più importante del momento, in un’ottica globale e non solo occidentale, viene trattato come un momento di cronaca politica.
C’è qualcosa di simile a un vuoto narrativo, a cercare di riempirlo, come capita spesso, ci hanno pensato alcune alternative ai media tradizionali: da un lato, ci sono pubblicazioni nuove e indipendenti, che si distinguono per i progetti originali in forma di parole, racconti, analisi, ma anche grafiche, infografiche e identità visiva; dall’altro, c’è la moda, che attraverso diverse strade e processi trasformativi sta dimostrando di saper interpretare meglio di altre discipline la contemporaneità e il cambiamento.
Migrant Journal, innanzitutto: una collezione di sei numeri – da subito il progetto è stato limitato a sei uscite, non una di più – pubblicati dal 2015 al 2019 e che, oggi raccolti in un cofanetto, indagano il concetto di migrazione in ogni sua sfumatura, con l’obiettivo di dimostrare che tali sfumature, esattamente come in una scala cromatica, sono virtualmente infinite. «Abbiamo capito che esplorare il mondo in cui viviamo attraverso il prisma delle migrazioni ci permetteva di parlare praticamente di tutto», conferma uno dei suoi fondatori, Justinien Tribillon. Attraverso saggi, articoli e analisi grafiche, per esempio, di confini marittimi e quindi liquidi, o di confini mobili, come i ghiacciai alpini; di Terra, intesa come pianeta, e di spazio, inteso come “là fuori”, e quindi di satelliti, razzi e frontiere interstellari; di cambiamento climatico, Gps e sex workers. Tenendolo in mano, e sfogliandolo, Migrant subito appare unico per la cura dell’estetica e della forma, dalla scelta della carta – la copertina è diversa a ogni numero – al dettaglio delle infografiche o dei due diversi colori spot che vengono utilizzati per ogni uscita: «È anche grazie al nostro approccio alla stampa, al rapporto tra design e linea editoriale, che Migrant è stato così ben recepito: ha toccato le corde di molte persone», dice ancora Tribillon.
Anche le riviste Nansen e Renk. hanno scelto strade alternative per raccontare il fenomeno migratorio, probabilmente entrambe mosse dalla stessa esigenza di spiccare il volo in fretta e in modo inequivocabile nel panorama editoriale; e anche se un tratto comune c’è – di nuovo: la cura formale –, i modi operativi scelti sono caratteristici e affilati: Nansen, fondata dalla neozelandese Vanessa Ellingham, si focalizza su una persona – un migrante – a ogni numero. Il primo è dedicato a Aydin Akin, 78enne turco (ora anche tedesco) immigrato in Germania decenni fa, molto conosciuto dai berlinesi per il suo scanzonato attivismo; il secondo a Kalaf
Epalanga, musicista angolano trapiantato in Portogallo. «Concentrandoci sugli aspetti più personali nelle storie che Nasnen racconta», dice Ellingham, «possiamo connettere più facilmente lettori e protagonisti di ogni numero». Come Nasnen, anche Renk. ha base a Berlino, ed è sulla Germania, sulla sua storia e il suo presente, che si focalizza: fondato da Melisa Karakus, è un magazine che tratta esclusivamente dei rapporti turco-tedeschi, della comunità di emigrati, di seconda o di terza generazione. La fondatrice è tedesca, naturalmente di origine turca, e spiega: «Ho creato Renk. perché non c’erano altre riviste che si occupassero di identità, di crisi di identità, o di chi sentisse di avere due posti da chiamare casa». Il progetto di questo magazine, sovvertendo i classici codici, unisce sinfonicamente la geopolitica all’estetica, la sostanza alla forma, l’impegno al pop; l’approccio editoriale e grafico, in particolare, guarda al design, alla fotografia, alla moda.
Proprio la moda, in tempi recenti, ha mostrato un’ottima capacità di abbracciare forme e narrazioni legate al movimento migratorio e metterle al centro dell’attenzione. Due donne, in particolare e negli ultimi due anni, hanno portato il fenomeno direttamente sulle passerelle: Adut Akech e Halima Aden, modelle entrambe migranti ed entrambe rifugiate. Adut è nata nel 1999 in Sud Sudan, ha poi vissuto con la madre per sei anni in un campo profughi del Kenya e si è trasferita in Australia dove ha iniziato la carriera di modella. Ha debuttato sulle passerelle europee nel 2017 per Saint-Laurent e nei mesi successivi è stata la protagonista di un percorso che l’ha portata a sfilare per Valentino,Tom Ford, Bottega Veneta, Burberry, Versace, Fendi e Prada. È stata protagonista di diverse copertine dei Vogue e lo scorso dicembre, ai British Fashion Awards, è stata nominata Model of the Year. Cresciuta in un campo profughi del Kenya, e poi trasferitasi negli Usa, è anche Halima Aden, somala, classe 1997, prima modella a sfilare con un hijab, nonché prima modella dello swimsuit issue di Sports Illustrated a indossare un burkini. La moda sa trasformarsi e adattarsi più velocemente di altri campi: è la potenza e la ricchezza intrinseca degli oggetti – un tessuto, un abito, un design –, contenitori sintetizzati di storie, riassunti taglienti quanto migliaia di parole. «Vorrei solo che fosse normale», ha detto Aden dell’indossare un hijab su una passerel
la, e naturalmente lo sarà presto: Nike, per aggiungere un altro esempio, ha messo in vendita il suo primo hijab “da performance” nel dicembre 2017, e Macy’s, il department store statunitense fondato a metà del 1800, nel 2018 è diventato il primo del suo tipo a venderlo negli Usa.
«I vestiti contengono ricordi. Cosa dicono di noi, le cose che portiamo con noi?», si chiedeva nel 2017 Anja Aronowsky Cronberg, direttrice della rivista di approfondimento culturale di moda Vestoj, nell’introduzione a una serie di conversazioni con diversi migranti sui capi che hanno portato con loro lasciando i paesi di origine, su quelli che hanno trovato nei nuovi posti in cui si sono stabiliti, su quelli che invece cercano e non trovano, su quelli che ricordano. «Sarò sempre una rifugiata, perché fa parte della mia identità», ha detto a novembre 2018 a Bof Voices Adut Akech. Le migrazioni spostano persone e trasportano storie, trasformano confini e cambiano nazioni. Gli strumenti con cui raccontarle, analizzarle, fotografarle dovranno mutare a loro volta. Sarà un viaggio interessante. ________