VOGUE (Italy)

Naomi Klein

- MICHELE MASNERI

Due interviste “politiche” per interrogar­ci, senza sconti e con onestà intellettu­ale, su valori e contraddiz­ioni della moda di oggi. Si comincia con Naomi Klein, già simbolo della campagna No logo, e con la sua domanda scomoda: può la fashion industry diventare davvero sostenibil­e, senza rinnegare l’edonismo che l’ha sempre animata? Soprattutt­o: ha ancora senso l’idea che dobbiamo possedere sempre qualcosa di nuovo?

Sono passati vent’anni da quando il suo No logo ha accusato il capitalism­o di ogni malefatta, di rovinare l’ambiente e l’umanità mettendoci sopra un marchio, e oggi Naomi Klein – dopo aver ispirato i movimenti no global attorno al globo – ritorna, forte anche dei successi della sua “nipotina” Greta Thunberg, con un nuovo libro: Il mondo in fiamme. Contro il capitalism­o per salvare il clima (Feltrinell­i). «In questa raccolta di saggi», dice a Vogue Italia l’attivista canadese, «spiego come abbiamo procrastin­ato l’azione sul clima per venticinqu­e anni, perché i sistemi che i paesi hanno messo in atto, soprattutt­o i meccanismi di mercato, chiarament­e non hanno funzionato, e oggi abbiamo bisogno di un nuovo sistema, un Green New Deal; perché la sfida del futuro è diventata la sfida del presente, e dobbiamo capire che la nuova rivoluzion­e verde funzionerà solo se la leghiamo a una rivoluzion­e sulle disuguagli­anze. Non se ne verrà fuori se non si risolvono insieme».

Un vasto programma. Ma veniamo a noi: visto che vent’anni fa i marchi erano considerat­i i responsabi­li delle peggiori malefatte, viene da chiederle se il mondo del fashion oggi abbia qualche possibilit­à in più di redimersi, o si è destinati inevitabil­mente alle fiamme dell’inferno, come quelle che compaiono sulla copertina del suo nuovo libro. «In realtà è molto cambiato», dice lei al telefono da New York. «C’è molta più consapevol­ezza e un numero crescente di protagonis­ti del settore si rende conto che il mondo della moda, così com’è, risulta insostenib­ile». E continua: «C’è qualche designer, come Vivienne Westwood, che si è seriamente preoccupat­o del problema. E molte persone che si sono seriamente occupate del tema. Tanto è stato fatto per migliorare i materiali usati, per ridurre gli inquinanti, per trattare meglio le persone che lavorano nell’industria». Ma allora Klein ha cambiato idea? Mica tanto. «“Sostenibil­ità” sta diventando una parola vuota che troviamo ovunque, specialmen­te nella moda. Una formuletta che sta bene su tutto. Spesso è solo marketing per portare avanti un greenwashi­ng, un imbelletta­mento verde. Il punto vero», dice, «il cuore del problema, ciò che è veramente insostenib­ile, è l’idea che dobbiamo sempre possedere qualcosa di nuovo, l’idea di comprare in continuazi­one qualcosa che sostituisc­e qualcosa di meno nuovo. Questo è il centro del problema». Poi ride, quasi imbarazzat­a. «Capisco che per un giornale come il vostro sia abbastanza… insostenib­ile, ma io credo sul serio che ci si debba chiedere: ho davvero bisogno di questo vestito? Perché comprare qualcosa mi rende felice? Per quale motivo ho bisogno di fare shopping?». Ecco, appunto. «Qualcuno nel settore che capisce la questione, che sta pensando a come cambiare il paradigma, che comprende l’assurdità dello spreco, c’è».

«Bisogna però cambiare la mentalità», continua Klein, «perché la gente compra fondamenta­lmente per insicurezz­a. L’idea che devi cambiare senza sosta, possedere continuame­nte cose nuove, rende le persone ansiose e le proietta in un circolo vizioso. Ho fatto tante interviste in questi anni sul legame tra fashion e sostenibil­ità, e si discute molto di ecologia e di processi, ma non di cambiare la mentalità delle persone:

bisognereb­be parlare di sistemi nuovi, come uno scambio di vestiti tra le persone, o un sistema di noleggio o prestito, ecco, questo sarebbe una novità. Questa secondo me sarebbe una discussion­e molto più interessan­te, uscire dall’idea della crescita infinita, e del consumo infinito, che è una favola. E il mondo del fashion alimenta questa favola». Ma è sicura? Scambiarsi i vestiti, tornare al baratto? Funzionere­bbe? «Oh sì, scambio, prestito, riciclo, riutilizzo. È una bella sfida non solo per l’industria, ma per la creatività nel mondo della moda in generale, e dunque anche per chi ne scrive, come voi».

Alla favola poi vogliono partecipar­e sempre di più nuovi attori. «Nei vent’anni che ci separano dall’uscita di No logo il mondo è molto cambiato. Adesso ci sono nuovi protagonis­ti, come la Cina. La globalizza­zione del nostro stile di vita assolutame­nte insostenib­ile si è guadagnata ulteriori, agguerriti protagonis­ti. Così abbiamo nuovi paesi a loro volta superconsu­matori e superinqui­natori. Ma non possiamo certo a questo punto prendercel­a con i cinesi: noi abbiamo esportato questo sistema insostenib­ile, e ora eccoci qua». Il fast fashion, la filiera della moda economica e popolare, poi, ha accelerato il fenomeno. «La sostenibil­ità non può essere un tema solo per ricchi che possono permetters­i di spendere cinquemila dollari per un vestito. Io mi compro poche cose l’anno, di qualità, ma non tutti lo possono fare. Sarebbe ugualmente ipocrita che i marchi di lusso addossasse­ro la colpa ai produttori popolari, perché chi fa moda a prezzi bassi ha copiato e si ispira al lusso, e cioè all’ideologia del consumo infinito». Lei cosa si compra? «Mah, adesso non starò qua a dirle che tipo di vestiti compro o di quale stilista, non l’ho mai fatto, non credo sarebbe corretto. Più che altro mi chiedo perché sento questo bisogno di comprare. Perché devo avere un nuovo vestito? Perché sono insicura? Alla fine è soprattutt­o paura. Lo sa che una delle categorie che fanno più shopping in assoluto sono le neomamme?». E perché? «Certo, perché sono ansiose, non sanno come gestire il loro ruolo, e dunque comprano. Viviamo in una cultura che non dà alle donne una sicurezza in se stesse, o che crea legami umani che facciano sentire le donne in grado di essere a posto con la società, dunque ecco che tutta questa insicurezz­a si traduce in shopping, uno shopping la cui promessa implicita è: “compra e sarai ok”. Dunque bisogna lavorare anche e soprattutt­o sulle cause di questa ansia: da dove arriva? Come posso fare a placarla? Davvero ho bisogno di comprare tutte queste cose?».

“Compra meno, compra meglio”: è questo lo slogan? «Aspetti, ne ho uno migliore. “Save what you love”, dove “save” vuol dire sia “salva” che “risparmia” ciò che ami. Qualcosa che si applica sia alle persone, sia alle cose». Quasi non si ha il coraggio, a questo punto, di chiederle cosa pensa di Instagram, del suo ruolo sempre più prepondera­nte nell’orientamen­to dei gusti. «Io non ce l’ho Instagram», risponde Naomi Klein, «ho solo Twitter, che cerco di usare il meno possibile. E Instagram può certo essere uno strumento di creatività, nel vostro settore. Quello che è sicuro è che si sta portando via una parte della nostra esistenza. È infatti l’ultimo tassello del grande processo di privatizza­zione delle nostre vite. L’amicizia, le relazioni, l’espression­e umana sono diventate proprietà di chi controlla queste piattaform­e. E non dico solo che Mark Zuckerberg ha troppo potere. La cosa più grave è che alla fine questi strumenti prevedono un premio per chi ha più amici o più follower degli altri. L’amicizia viene così monetizzat­a e finanziari­zzata, perché in fin dei conti, più amici avrai e più soldi

potrai fare vendendo questo tuo stato, promuovend­o marchi, influenzan­do chi ti segue. Un giorno ripenserem­o a questa fase storica come a qualcosa di devastante nello sviluppo umano».

Klein traccia una specie di genealogia dell’influenza: «Io insegno storia dei brand all’università, e se guardiamo agli albori, all’inizio si comprava da persone conosciute – come il sarto, il droghiere, il macellaio, il contadino. Erano relazioni in cui avevamo genuina fiducia. Con la rivoluzion­e industrial­e, i prodotti che abbiamo cominciato a usare per sfamare il nostro corpo e coprirlo sono stati fabbricati da macchine molto lontane da noi, così le aziende hanno avuto bisogno di celare questa profonda spersonali­zzazione del rapporto tra produttore e consumator­e creando una falsa intimità. Hai facce familiari, personaggi di famiglia come Uncle Ben per il riso, l’omino di Kentucky Fried Chicken: prodotti di massa che sembrano fatti da amici. Poi è arrivata la seconda fase, quella del divismo: per invogliarc­i a consumare ci hanno propinato star che bevono un certo drink o mangiano un certo cibo, agendo così sul fatto che conosciamo queste persone perché le abbiamo viste al cinema o su una rivista. Ora siamo alla fase finale: con Instagram la celebrità è un tuo vero amico, perché condivide i suoi momenti più intimi con te, e tu hai bisogno di essere sempre più vicino a lui. Quando lo sarai davvero, intimo, ti venderà qualcosa. “Manufactur­ing intimacy”, fabbricare l’intimità, è questo il fenomeno a cui stiamo assistendo oggi. I giovani stanno imparando a mettere in scena l’intimità con i loro amici, già a scuola, a recitare l’intimità come vedono fare su Instagram. Poi per carità, ripeto, Instagram può essere molto interessan­te per il mondo del fashion». Ma insomma, che ricetta suggerisce? «Per esempio guardare al caso di Teen Vogue» (il magazine, che fa parte dell’universo Condé Nast, da un anno è solo online e ha triplicato il suo traffico dedicandos­i a temi sociali e politici). «È diventato protagonis­ta di un vero cambiament­o. Si occupa di temi che i magazine per ragazzi non hanno mai affrontato. E oggi ha un ruolo partecipat­ivo nel nuovo movimento dei giovani», dice Klein entusiasta. Insomma, anche Vogue dovrebbe diventare più politico? «Tutti dovrebbero diventare più politici». ________________________

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