Naomi Klein
Due interviste “politiche” per interrogarci, senza sconti e con onestà intellettuale, su valori e contraddizioni della moda di oggi. Si comincia con Naomi Klein, già simbolo della campagna No logo, e con la sua domanda scomoda: può la fashion industry diventare davvero sostenibile, senza rinnegare l’edonismo che l’ha sempre animata? Soprattutto: ha ancora senso l’idea che dobbiamo possedere sempre qualcosa di nuovo?
Sono passati vent’anni da quando il suo No logo ha accusato il capitalismo di ogni malefatta, di rovinare l’ambiente e l’umanità mettendoci sopra un marchio, e oggi Naomi Klein – dopo aver ispirato i movimenti no global attorno al globo – ritorna, forte anche dei successi della sua “nipotina” Greta Thunberg, con un nuovo libro: Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima (Feltrinelli). «In questa raccolta di saggi», dice a Vogue Italia l’attivista canadese, «spiego come abbiamo procrastinato l’azione sul clima per venticinque anni, perché i sistemi che i paesi hanno messo in atto, soprattutto i meccanismi di mercato, chiaramente non hanno funzionato, e oggi abbiamo bisogno di un nuovo sistema, un Green New Deal; perché la sfida del futuro è diventata la sfida del presente, e dobbiamo capire che la nuova rivoluzione verde funzionerà solo se la leghiamo a una rivoluzione sulle disuguaglianze. Non se ne verrà fuori se non si risolvono insieme».
Un vasto programma. Ma veniamo a noi: visto che vent’anni fa i marchi erano considerati i responsabili delle peggiori malefatte, viene da chiederle se il mondo del fashion oggi abbia qualche possibilità in più di redimersi, o si è destinati inevitabilmente alle fiamme dell’inferno, come quelle che compaiono sulla copertina del suo nuovo libro. «In realtà è molto cambiato», dice lei al telefono da New York. «C’è molta più consapevolezza e un numero crescente di protagonisti del settore si rende conto che il mondo della moda, così com’è, risulta insostenibile». E continua: «C’è qualche designer, come Vivienne Westwood, che si è seriamente preoccupato del problema. E molte persone che si sono seriamente occupate del tema. Tanto è stato fatto per migliorare i materiali usati, per ridurre gli inquinanti, per trattare meglio le persone che lavorano nell’industria». Ma allora Klein ha cambiato idea? Mica tanto. «“Sostenibilità” sta diventando una parola vuota che troviamo ovunque, specialmente nella moda. Una formuletta che sta bene su tutto. Spesso è solo marketing per portare avanti un greenwashing, un imbellettamento verde. Il punto vero», dice, «il cuore del problema, ciò che è veramente insostenibile, è l’idea che dobbiamo sempre possedere qualcosa di nuovo, l’idea di comprare in continuazione qualcosa che sostituisce qualcosa di meno nuovo. Questo è il centro del problema». Poi ride, quasi imbarazzata. «Capisco che per un giornale come il vostro sia abbastanza… insostenibile, ma io credo sul serio che ci si debba chiedere: ho davvero bisogno di questo vestito? Perché comprare qualcosa mi rende felice? Per quale motivo ho bisogno di fare shopping?». Ecco, appunto. «Qualcuno nel settore che capisce la questione, che sta pensando a come cambiare il paradigma, che comprende l’assurdità dello spreco, c’è».
«Bisogna però cambiare la mentalità», continua Klein, «perché la gente compra fondamentalmente per insicurezza. L’idea che devi cambiare senza sosta, possedere continuamente cose nuove, rende le persone ansiose e le proietta in un circolo vizioso. Ho fatto tante interviste in questi anni sul legame tra fashion e sostenibilità, e si discute molto di ecologia e di processi, ma non di cambiare la mentalità delle persone:
bisognerebbe parlare di sistemi nuovi, come uno scambio di vestiti tra le persone, o un sistema di noleggio o prestito, ecco, questo sarebbe una novità. Questa secondo me sarebbe una discussione molto più interessante, uscire dall’idea della crescita infinita, e del consumo infinito, che è una favola. E il mondo del fashion alimenta questa favola». Ma è sicura? Scambiarsi i vestiti, tornare al baratto? Funzionerebbe? «Oh sì, scambio, prestito, riciclo, riutilizzo. È una bella sfida non solo per l’industria, ma per la creatività nel mondo della moda in generale, e dunque anche per chi ne scrive, come voi».
Alla favola poi vogliono partecipare sempre di più nuovi attori. «Nei vent’anni che ci separano dall’uscita di No logo il mondo è molto cambiato. Adesso ci sono nuovi protagonisti, come la Cina. La globalizzazione del nostro stile di vita assolutamente insostenibile si è guadagnata ulteriori, agguerriti protagonisti. Così abbiamo nuovi paesi a loro volta superconsumatori e superinquinatori. Ma non possiamo certo a questo punto prendercela con i cinesi: noi abbiamo esportato questo sistema insostenibile, e ora eccoci qua». Il fast fashion, la filiera della moda economica e popolare, poi, ha accelerato il fenomeno. «La sostenibilità non può essere un tema solo per ricchi che possono permettersi di spendere cinquemila dollari per un vestito. Io mi compro poche cose l’anno, di qualità, ma non tutti lo possono fare. Sarebbe ugualmente ipocrita che i marchi di lusso addossassero la colpa ai produttori popolari, perché chi fa moda a prezzi bassi ha copiato e si ispira al lusso, e cioè all’ideologia del consumo infinito». Lei cosa si compra? «Mah, adesso non starò qua a dirle che tipo di vestiti compro o di quale stilista, non l’ho mai fatto, non credo sarebbe corretto. Più che altro mi chiedo perché sento questo bisogno di comprare. Perché devo avere un nuovo vestito? Perché sono insicura? Alla fine è soprattutto paura. Lo sa che una delle categorie che fanno più shopping in assoluto sono le neomamme?». E perché? «Certo, perché sono ansiose, non sanno come gestire il loro ruolo, e dunque comprano. Viviamo in una cultura che non dà alle donne una sicurezza in se stesse, o che crea legami umani che facciano sentire le donne in grado di essere a posto con la società, dunque ecco che tutta questa insicurezza si traduce in shopping, uno shopping la cui promessa implicita è: “compra e sarai ok”. Dunque bisogna lavorare anche e soprattutto sulle cause di questa ansia: da dove arriva? Come posso fare a placarla? Davvero ho bisogno di comprare tutte queste cose?».
“Compra meno, compra meglio”: è questo lo slogan? «Aspetti, ne ho uno migliore. “Save what you love”, dove “save” vuol dire sia “salva” che “risparmia” ciò che ami. Qualcosa che si applica sia alle persone, sia alle cose». Quasi non si ha il coraggio, a questo punto, di chiederle cosa pensa di Instagram, del suo ruolo sempre più preponderante nell’orientamento dei gusti. «Io non ce l’ho Instagram», risponde Naomi Klein, «ho solo Twitter, che cerco di usare il meno possibile. E Instagram può certo essere uno strumento di creatività, nel vostro settore. Quello che è sicuro è che si sta portando via una parte della nostra esistenza. È infatti l’ultimo tassello del grande processo di privatizzazione delle nostre vite. L’amicizia, le relazioni, l’espressione umana sono diventate proprietà di chi controlla queste piattaforme. E non dico solo che Mark Zuckerberg ha troppo potere. La cosa più grave è che alla fine questi strumenti prevedono un premio per chi ha più amici o più follower degli altri. L’amicizia viene così monetizzata e finanziarizzata, perché in fin dei conti, più amici avrai e più soldi
potrai fare vendendo questo tuo stato, promuovendo marchi, influenzando chi ti segue. Un giorno ripenseremo a questa fase storica come a qualcosa di devastante nello sviluppo umano».
Klein traccia una specie di genealogia dell’influenza: «Io insegno storia dei brand all’università, e se guardiamo agli albori, all’inizio si comprava da persone conosciute – come il sarto, il droghiere, il macellaio, il contadino. Erano relazioni in cui avevamo genuina fiducia. Con la rivoluzione industriale, i prodotti che abbiamo cominciato a usare per sfamare il nostro corpo e coprirlo sono stati fabbricati da macchine molto lontane da noi, così le aziende hanno avuto bisogno di celare questa profonda spersonalizzazione del rapporto tra produttore e consumatore creando una falsa intimità. Hai facce familiari, personaggi di famiglia come Uncle Ben per il riso, l’omino di Kentucky Fried Chicken: prodotti di massa che sembrano fatti da amici. Poi è arrivata la seconda fase, quella del divismo: per invogliarci a consumare ci hanno propinato star che bevono un certo drink o mangiano un certo cibo, agendo così sul fatto che conosciamo queste persone perché le abbiamo viste al cinema o su una rivista. Ora siamo alla fase finale: con Instagram la celebrità è un tuo vero amico, perché condivide i suoi momenti più intimi con te, e tu hai bisogno di essere sempre più vicino a lui. Quando lo sarai davvero, intimo, ti venderà qualcosa. “Manufacturing intimacy”, fabbricare l’intimità, è questo il fenomeno a cui stiamo assistendo oggi. I giovani stanno imparando a mettere in scena l’intimità con i loro amici, già a scuola, a recitare l’intimità come vedono fare su Instagram. Poi per carità, ripeto, Instagram può essere molto interessante per il mondo del fashion». Ma insomma, che ricetta suggerisce? «Per esempio guardare al caso di Teen Vogue» (il magazine, che fa parte dell’universo Condé Nast, da un anno è solo online e ha triplicato il suo traffico dedicandosi a temi sociali e politici). «È diventato protagonista di un vero cambiamento. Si occupa di temi che i magazine per ragazzi non hanno mai affrontato. E oggi ha un ruolo partecipativo nel nuovo movimento dei giovani», dice Klein entusiasta. Insomma, anche Vogue dovrebbe diventare più politico? «Tutti dovrebbero diventare più politici». ________________________
English version available on #VOGUEITALIAPODCAST