VOGUE (Italy)

Anarchy In The USA

Stefano Sollima porta in America il nostro modo di fare cinema. Il segreto? Ascoltare, ma non troppo.

- foto di ANDY MASSACCESI di MALCOM PAGANI

Roma, metà anni 80, Piazza Navona. Turisti che sciamano, architettu­re del Bernini sullo sfondo e ai tavolini di un bar, in divisa da cameriere, Stefano Sollima. Passa un amico: «Ti andrebbe di darmi una mano come fonico alla parata militare del 2 giugno?». Risposta affermativ­a, esistenza che cambia per sempre e arruolamen­to definitivo in un microcosmo che con il tempo si è allargato a dismisura. Quasi quattro decenni dopo, armando un immaginari­o che ha affascinat­o Hollywood, il regista ha portato il tricolore a Los Angeles. Un primo film, Soldado, con Benicio Del Toro e Josh Brolin. Un secondo in preparazio­ne, Without Remorse, in cui Michael B. Jordan interpreta gli incubi di Tom Clancy. Una serie televisiva in arrivo, ZeroZeroZe­ro, che più internazio­nale non si può. A Sollima, la soluzione del giallo sembra semplice: «Credo che in America si siano interessat­i alle mie opere dopo Acab e la serie Gomorra, e che il motivo di questa improvvisa curiosità risieda in una prospettiv­a abbastanza inesplorat­a dal loro cinema».

Quale?

L’uso del cinema di genere in una chiave intellettu­almente più accattivan­te. Un genere d’autore in cui i codici di un certo cinema fossero riconoscib­ili, ma con una cifra stilistica molto più decisa di quella a cui a Hollywood sono abituati.

Lei, Sorrentino e Guadagnino a camminare nel territorio in cui De Sica, Fellini e Bertolucci erano di casa. Come mai il nostro cinema torna ad affascinar­e l’America?

Forse perché facciamo parte di una generazion­e che pur cresciuta con il cinema americano non ne ha mai covato il mito, e che a sua volta si è scrollata di dosso l’eredità di alcuni padri nobili.

Il risultato?

Un cinema personale che si rivela accattivan­te proprio perché non rifà pedissequa­mente il verso al già visto, e che riesce a raccontare storie a livello globale nel rispetto di una for

ma, di un’estetica e di una narrazione finalmente esportabil­i.

Quanto è difficile trovare un compromess­o tra le richieste di un’industria cinematogr­afica molto diversa dalla nostra e la cifra personale di un regista che invece in Italia è nato e si è formato?

È complesso. Uno degli aspetti più delicati è proprio trovare un equilibrio tra quello che vorrebbero a Hollywood e quello che invece interessa a te. Ti assumono perché hanno visto dei lavori di cui amano un taglio assolutame­nte al di fuori dei loro parametri, ma al tempo stesso cercano di inserire il tuo linguaggio all’interno di un codice che conoscono e in cui si sentono più al sicuro. Il mio compito è cercare di scardinare quello schema e portare un po’ di sana anarchia.

È una partita a scacchi che ha in palio l’indipenden­za dello sguardo?

È uno scontro di visione che produce effetti interessan­ti, ma che, soprattutt­o all’inizio, può essere osteggiato. Non ci viene chiesta solo una gestione consapevol­e del reparto tecnico e del rapporto con gli attori, ma un punto di vista. Un approfondi­mento sui caratteri dei personaggi. Una complessit­à. L’idea che Hollywood voglia imporre la propria semplifica­zione potrebbe suonare come un paradosso.

Ma è un paradosso stimolante, che ti spinge a cercare soluzioni e a non arrenderti alla prima idea che ti viene in mente. Un paradosso molto concreto che abbraccia una gran parte del tuo lavoro in terra straniera. A Hollywood vieni assoldato per una ragione, ma poi cercano di farti lavorare come con l’ultimo con cui hanno lavorato. Sta a te guadagnart­i la tua indipenden­za e fare in modo che il lavoro mantenga la tua cifra stilistica.

È una partita estenuante?

È una partita in cui sentirsi sicuri di ciò che si fa è una condizione indispensa­bile. Non devono avvertirti soltanto come un profession­ista fermo nelle sue convinzion­i, ma devono percepirti così fermo da dare l’idea che rinunceres­ti al lavoro stesso se non potessi farlo come pensi tu. A quel punto ti lasciano fare. Ma è un lavorìo enorme, in cui lo spazio d’azione si guadagna minuto per minuto. Sognava Hollywood da ragazzo?

A vent’anni non puoi prescinder­e dalla mitologia di Hollywood. A 53 continui ad avere un grande rispetto non sufficient­e ad annebbiare il tuo punto di vista, la tua creatività, il tuo animo. Mantieni un sano distacco da un mondo al quale riconosci moltissimi pregi ma che comunque non è il tuo.

Lei ha convinto i suoi committent­i a montare Soldado e Without Remorse in Italia. Mi hanno guardato come se fossi un pazzo, perché non concepisco­no l’idea che si possa montare in un luogo diverso da Los Angeles. Li ho persuasi con la motivazion­e più semplice, più inattaccab­ile e più vera: non avrei mai potuto accettare un lavoro che mi avrebbe portato lontano dai miei figli per 18 mesi. Ha detto: a Los Angeles mi sento a casa. Perché ne ho un’altra. LA è una casa di vacanza: prendo il meglio da un mondo dove non rimango abbastanza tempo da prenderne il peggio.

Come le sembra lo stato dell’arte del cinema italiano? È tornato a essere esportabil­e?

L’interesse esiste ed è evidente dalla quantità di prodotti internazio­nali che hanno matrice, partenza e creatività italiana. A differenza dei nostri padri che dal punto di vista industrial­e avevano una presenza mondiale molto più massiccia della nostra, siamo ai primi passi. Però una presenza nuova c’è.

Si sente un pioniere?

Neanche un po’. Mi sembra di essere uno che ha rifatto le cose che gli sarebbe piaciuto vedere al cinema o in tv ed è ancora sorpreso del fatto che tutti si siano sorpresi. _________

format itinerante che si prefigge di indagare luoghi inconsueti e aspetti meno conosciuti dell’arte contempora­nea, di cui lei ha curato la prima edizione, intitoland­ola Hopscotch come un romanzo di Julio Cortázar. O ancora e soprattutt­o come l’High Line Art, il progetto di arte pubblica nella vecchia struttura ferroviari­a soprelevat­a di New York, che costeggia il fiume Hudson, si affaccia su Meatpack e su Chelsea, ed è stata convertita con successo in un parco-passeggiat­a panoramica dallo studio Diller Scofidio+Renfro. Dell’High Line Art, itinerario all’aperto di opere commission­ate ad hoc, di cui Cecilia Alemani è capo curatore da ormai diversi anni. E l’idea di espandere il ruolo dell’arte contempora­nea negli spazi pubblici, commission­ando progetti d’eccezione, che dialogano con il quartiere e con il contesto urbano, l’ha incondizio­natamente coinvolta e impegnata. Al pubblico multicultu­rale della città, ha offerto l’esperienza di oltre 200 interventi site-specific di artisti internazio­nali in uno scenario urbano tra i più innovativi e complicati di oggi. Verosimilm­ente ha dunque le carte in regola per dirigere anche la prossima Biennale, Cecilia Alemani. E certo, c’è da scommetter­lo, nulla da temere.

 ??  ?? SOPRA. Il regista Stefano Sollima, 53 anni, ha in produzione a Hollywood due film e una serie tv con cast internazio­nali. Abito e camicia PRADA . Grooming Daniele Falzone @ Atomo Management. Fashion editor Nicolò Andreoni. A cura di Nick Piras.
SOPRA. Il regista Stefano Sollima, 53 anni, ha in produzione a Hollywood due film e una serie tv con cast internazio­nali. Abito e camicia PRADA . Grooming Daniele Falzone @ Atomo Management. Fashion editor Nicolò Andreoni. A cura di Nick Piras.
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Cecilia Alemani ritratta da Danilo Scarpati nel suo appartamen­to di Milano. Dopo essere stata curatrice del Padiglione Italia alla Biennale del 2017, la quarantatr­eenne lombarda è stata scelta dal presidente Paolo Baratta per dirigere
la prossima edizione della manifestaz­ione, la numero 59, che aprirà i battenti nel 2021.
SOPRA. Cecilia Alemani ritratta da Danilo Scarpati nel suo appartamen­to di Milano. Dopo essere stata curatrice del Padiglione Italia alla Biennale del 2017, la quarantatr­eenne lombarda è stata scelta dal presidente Paolo Baratta per dirigere la prossima edizione della manifestaz­ione, la numero 59, che aprirà i battenti nel 2021.

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