VOGUE (Italy)

Si Fa Presto A Dire Milano

Un articolo su “Il Foglio” ha aperto il dibattito: non sarà che quel che si legge sulla città, ricca efficiente inclusiva, sia un tantino esagerato? Ecco cosa è successo, dopo.

- di MICHELE MASNERI

Negli Stati Uniti è un tema trito e ritrito: alcune città (quelle sulle due coste, principalm­ente) diventano sempre più belle e attrattive, richiamano i migliori talenti, chi ci abita paga un alto prezzo in termini di affitto e densità urbana ma poi è ricompensa­to con le meglio startup e i ristoranti più in voga. Tra le due coste invece le aziende chiudono, e la gente impoverita e incattivit­a vota Trump.

In Italia, paese tutto di coste, la iper-costa è Milano, senza mare ma da sempre capitale “morale” – non nel senso, come pensano molti, di etico, bensì di “seconda in classifica”, il cosiddetto “vincitore morale”. Oggi Milano è efficienti­ssima, ricchissim­a, è l’unica città veramente avanzata in un paese che non è mai uscito dalla recessione del 2008. Tutte le aziende straniere aprono a Milano: tante spostano la loro sede da Roma (la capitale, che è diventata succursale, e che soffre molto di questo). Milano invece, giustament­e, è felice. Ha tutti i pregi di una città moderna e internazio­nale e qualche difetto di questo modello di sviluppo (gentrifica­tion spinta, prezzi stellari, difficoltà da “troppo pieno”), oltre ad altri congeniti (una certa arroganza dei suoi abitanti, un clima non proprio tropicale, una certa provincial­ità che a me che vengo da una provincia vicina sembra di riconoscer­e). Invece a leggere le cronache che da lì provengono, un po’ si rimane imbarazzat­i: ogni giorno apre (o aprirebbe) un Bosco Verticale, una biblioteca vegetale, un Policlinic­o Sperimenta­le. Record su record, archistar pronte, statistich­e-monstre: l’85% dei milanesi non vorrebbero abitare in nessun altro posto al mondo, tutti sono entusiasti, perfino il cielo è ormai terso meglio che in California, forse grazie alle palme di Starbucks in piazza Duomo.

Nessuno tira fuori altre statistich­e (quella per esempio per cui Milano è una delle città più inquinate d’Europa) o anche constatazi­oni empiriche di giovani molto “rampanti” che poi la sera si ritrovano in case condivise in sei, cosa che avevo visto a San Francisco dove però nessuno fa finta di abitare in centro, e i problemi di sviluppo non sono considerat­i un’onta da nascondere. Quando qualcuno prova a prendere un po’ in giro la grandeur milanese le reazioni sono invece violentiss­ime. Così ho fatto io, scrivendo qualche tempo fa per Il Foglio un lungo articolo che sfotteva un po’ il nuovo mito milanese, un’idea di città-stato, l’unica città che funziona in un paese per molti versi decotto. Ero partito da una dichiarazi­one del ministro per il Sud, Peppe Provenzano, secondo cui Milano in questo momento storico prende molto dal resto del paese ma non «restituisc­e nulla». Non ero d’accordo con questa tesi, ma comunque volevo fare un po’ le pulci a questo modello splendente. Se fosse stato un articolo di Vice si sarebbe intitolato: «Ho scritto un pezzo che dice che Milano fa schifo ed ecco cos’è successo». Il ministro Provenzano, siciliano al quale avevo attribuito segrete pulsioni di trasferirs­i al Bosco Verticale, era stato ironico («Come le viene in mente?», mi aveva scritto. «Semmai in Brera»). Molti milanesi invece erano offesissim­i, in una maniera isterica. Centinaia di messaggi su tutti i social possibili, di due categorie: la prima, i carbonari riconoscen­ti. «Abito da dieci anni a Milano e ho sempre pensato quello che hai scritto, GRAZIE». «Nessuno aveva il coraggio di scriverlo, vai avanti». «Le scrivo per ringraziar­la del suo pezzo Contro Milano. Ho ventotto anni, molti dei miei coetanei vivono là. Non parlano più italiano. Da alcuni anni hanno smesso di usare parole come “luogo”,

o “posto”, dicono solo “location” e le ragazze organizzan­o “female-led talks” in qualche “creative hub” per parlare di “female gaze” ai tempi di Instagram». Mi confidavan­o queste cose che non osavano dire alla luce del giorno (e mi sembrava un po’ esagerato, non avevo fatto altro che scrivere ciò che molti amici mi raccontava­no: sì, bella Milano, funziona tutto bene, però non tutto è perfetto, i trasporti nemmeno, traffico e buche simili a Roma, e il clima, beh, è lo stesso clima di 20 anni fa, quando nessuno sano di mente ci voleva stare, gelido d’inverno e bollente d’estate). L’altro tipo di reazione era opposta: mi accusavano di dipingere una Milano grottesca: «La caricatura di questi che guadagnano mille euro e abitano nelle loro camerette», mi fa dire un amico di un amico, che ne guadagna ottocento e vive in una cameretta. In generale i più infuriati erano i milanesi di risulta, i faticosame­nte inurbati, a Milano si direbbe “latecomers”, con l’eccitazion­e dei convertiti dell’ultim’ora. L’accusa più infamante, l’unica che mi ha messo davvero in crisi: «Così spiani la strada a Salvini, che nel 2021 farà una campagna per conquistar­e il Comune di Milano proprio su questo, contro la bolla di Sala e dei calzini arcobaleno» (oddio, ho spianato la strada a Salvini). Alla fine mi hanno invitato a un talk qualche giorno dopo, a Milano, e un sacco di gente è venuta a sentirmi, inopinatam­ente. Molte domande del pubblico. Una signora alla fine si è alzata e ha detto secondo me la cosa più sincera e vera: «Per vent’anni ci avete detto che Milano era un posto di merda. Adesso che finalmente ci dicono che siamo la città più bella d’Italia lasciateci godere questo momento. Finché dura».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy