Nelle Puntate Precedenti
Per mesi abbiamo osservato il mondo dalla scrivania e scoperto le nuove collezioni su piattaforme digitali sempre più sofisticate. Ma cosa ci siamo persi? Che idee di stile hanno preso forma? E ancora: si possono ricordare le emozioni, senza averle vissute? Ecco un riassunto ragionato dei momenti più significativi della stagione.
«Posso considerarla collegata?». L’addetta stampa che a gennaio del 2021 spunta la lista degli invitati a una certa sfilata online della Men’s Fashion Week di Milano – trentatré, tutte sostanzialmente in digitale – non sa di avermi appena dato la chiave di lettura di quanto è accaduto alla moda e alla sua rappresentazione dopo un anno di pandemia.
Nelle undici sillabe della sua garbata locuzione verbale c’è tutto il nuovo e l’ubiquo del coinvolgimento online e tutto l’antico della selezione e dell’esclusività della moda. Insomma, l’ossimoro perfetto, racchiuso nel biglietto di invito che, quasi sempre, viene spedito ancora in forma cartacea, ultimo vestigio di un rito in cerca di nuovi sbocchi mediatici e creativi, ma stampigliato con l’indicazione del fuso nell’orario di convocazione: 4 pm CET. 6 pm CET.
Nel caso che sottende alla telefonata, il fuso è proibitivo sia per gli Stati Uniti sia per la Cina, 11 am CET, e dunque la voce all’altro capo del filo lascia trasparire un filo d’ansia. Dovessimo mancare anche noi italiani all’appuntamento, il giorno successivo all’evento i risultati potrebbero essere così deludenti da far magari decidere all’amministratore delegato di operare qualche taglio fra il personale. Dunque, la ragazza conta in una folta presenza per fare almeno “numero”, ma ovviamente spera che resteremo immobili di fronte al computer per tutta la durata dell’evento e non, chissà, in cucina a farci un caffè dopo aver inserito la modalità “no camera”. Questo, lo sa lei come lo sappiamo noi, non potrà verificarlo mai, ma solo suggerirlo con il massimo tatto possibile. La moda pandemica si basa sulla fiducia, l’apprezzamento personale e la stima come non era mai successo fino a oggi. Un tempo si diceva che alcuni stilisti, uno in particolare, sguinzagliassero in sala i propri addetti perché osservassero chi, fra i giornalisti, si distraeva durante la sfilata. Chi non ammirava adeguatamente l’ondeggiare perfetto di una gonna o il taglio nuovo della giacca, chi non apprezzava in muto rapimento il volant di un abito da sera o non appuntava freneticamente concetti e sensazioni sul blocco degli appunti, sarebbe stato sanzionato all’appuntamento successivo con un piccolo sgarbo, una battuta spiacevole in conferenza stampa, un cambio di posto, addirittura un mancato invito. Non ho mai avuto modo di verificarlo: forse si trattava davvero di una leggenda, forse sono molto diligente.
In ogni caso, con la pandemia, l’apparato di matrice religiosa, direi quasi processionale, che regola da più di un secolo la rappresentazione delle collezioni di moda e che nessuno più di Fellini seppe intuire in Roma, va dissolvendosi in una apertura ufficialmente trasversale ed ecumenica grazie all’utilizzo massiccio delle piattaforme digitali.
Essendosi diradate quasi del tutto, un lockdown dopo l’altro, le occasioni di incontro, è ovvio che il desiderio di acquisto debba essere sollecitato in molte forme diverse; tutte sono state esplorate: film, game, presentazioni ad hoc, ad personam, televisive, di gruppo, di massa, mondiali. L’inclusione si è ampliata fino a contemplare iniziative che fino a un anno fa ci sarebbero sembrate impensabili, per esempio il dialogo online fra Miuccia Prada e Raf Simons e il grande pubblico in occasione della loro prima collaborazione creativa, il 24 settembre. La stagionalità, già piuttosto difficile da mantenere per brand che vendono in entrambi gli emisferi, coprendo dunque costantemente le quattro stagioni canoniche, si è dissolta in una sorta di flusso di coscienza creativo, che porta alla ribalta mediatica le collezioni quando il direttore creativo, e l’ufficio merchandising, ritengono sia giunto il momento di presentarle (quanto poi questo stato di cose potrà durare nel momento in cui la massa dei buyer e dei giornalisti dovrà riorganizzare agende e spostamenti fisici non è dato sapere).
La sperimentazione ha toccato la regia di sfilata a distanza (Nick Knight per Valentino Haute Couture, il 21 luglio negli studi di Cinecittà: una performance talmente seducente e onirica da aver colpito anche l’immaginazione di J.Lo per il suo concerto di Capodanno a Times Square).
E poi: l’evento mondiale da un luogo fascinosamente tradizionale (Dior Cruise il 22 luglio nella piazza del Duomo di Lecce, con orchestra e ballerini di taranta e la collaborazione di gruppi sociali di artigiane e ricamatrici sull’onda della rielaborazione etnico-folklorica); la salvaguardia e la valorizzazione del talento artigianale (la due giorni fiorentina di alta moda Dolce & Gabbana a inizio settembre, con il coinvolgimento di trentotto artigiani locali selezionati specificamente da Domenico Dolce durante l’estate); la curatela espositiva a distanza a sostegno della ri-significazione del brand (sempre Valentino, Re-Signify Part One, alla Power Station of Arts di Shanghai, curato da Jacopo Bedussi e Mariuccia Casadio, oltre 20mila visitatori); la condivisione popolare dell’esperienza moda (Giorgio Armani in prima serata sulle reti generaliste e sui social, il 26 settembre, con la collezione P/E co-ed); l’ideazione di un fashion film festival, comprensivo dell’invio di pass, gadget e programma come alla Biennale Cinema, ma mirato alla promozione della propria collezione e delle proprie idee ma anche di talenti meritevoli di sostegno (GucciFest per la regia di Gus Van Sant e Alessandro Michele: Ouverture of Something That Never Ended, miniserie in sette parti, diffuse una al giorno dal 16 al 22 novembre scorso, oltre ai fashion film di quindici stilisti indipendenti e dal tratto deciso come Charles de Vilmorin, Ahluwalia, Gareth Wrighton).
È impossibile tracciare una linea di condotta, un filo comune oltre alla volontà e alla necessità di sperimentare e a un’attenzione moltiplicata sulla salvaguardia e sulla valorizzazione creativa del logo, vedi Ferragamo o, soprattutto, Prada. Sì, la stagione a venire contempla molte scarpe con i lacci alla caviglia, molte borse di paglia, molto bianco, molto tricot di cotone, molte piume, inevitabilmente molti fiori e non perché stia per arrivare la primavera, ma perché sogniamo la primavera nei nostri cuori. Il resto è una recita a soggetto. Per un Daniel Lee che decide di far chiudere gli account social di Bottega Veneta, c’è Hermès che decide di rafforzare la propria offerta online, (segue)
coinvolgendo anche i follower in attività ludiche. Per Ermanno Scervino che non rinuncia alla seduzione di tre icone di bellezza come Irina Shayk, Natasha Poly e Joan Smalls nel suo fashion film girato in Maremma, ci sono Jeremy Scott che muove i fili di graziose marionette vestite Moschino e Tod’s che lascia addirittura ai modelli il compito di darsi la staffetta nella presentazione dei nuovi capi a mezzo video, un fotogramma via l’altro. Per Burberry che mette in scena un mondo distopico, c’è Dior che rievoca la mitologia. Il punto è proprio questo, che non c’è più un punto, una linea guida, una tendenza definita oltre le solite banalità sul colore dominante di stagione, ormai peraltro molto disatteso e, volendola dire tutta, dirimente di scelta un po’ cheap. Già da anni era impossibile stabilire tendenze univoche o limitate; ora l’estetica, la sua adozione e il suo acquisto postulano la partecipazione e la condivisione delle istanze sociali e culturali proposte da quel dato brand, da quel certo stilista. Non si compra: si adotta, si sposa, si condivide. Da una parte, la pandemia ha acuito e innalzato questo aspetto, rendendolo preponderante anche nelle scelte degli investitori finanziari (il progetto di Moncler “Born to Protect”, lanciato a ottobre e presentato a gennaio, ha entusiasmato fondi e finanza al punto da far conquistare all’azienda per il secondo anno consecutivo il primo posto come industry leader nel settore textiles, apparel&luxury goods negli indici Dow Jones Sustainability World e anche Europe). Dall’altro, ha suonato il “rompete le righe” commerciale e logistico, liberando i player più forti dalla necessità di adattarsi alle regole collettive della stagionalità e della sfilata stessa, ma forzandoli al contempo ad adottare strategie di comunicazione di impatto potentissimo. Questo, per un motivo che non esiteremmo a definire scientifico. Negli ultimi sei mesi, tutti abbiamo trascorso un tempo indefinito davanti allo schermo del computer. E in questo tempo mostruosamente dilatato di visione, quando tutto ci sembrava – e tuttora ci sembra – a portata di interazione immediata, ognuno di noi ha scoperto sulla propria pelle che la realtà virtuale vissuta in via permanente tende a sconfessare i processi mnemonici riconosciuti: acquisizione, ritenzione, recupero sono infatti influenzati da elementi affettivi, come la motivazione e la cognizione, ma anche dall’emotività. La memoria è un processo attivo, partecipativo. In sintesi, dimentichiamo con grande facilità quello che non viviamo in prima persona, con tutti i sensi e soprattutto attraverso l’emozione. Molti di noi stentano a organizzare e comporre in un quadro fruibile quanto hanno visto nel corso dell’ultimo anno principalmente dalla propria scrivania. Me l’ha confessato con ansia il direttore comunicazione di uno dei brand citati in queste righe. Che cosa è successo? Che cosa mi sono perso, secondo te? Non aveva ragione Cartesio, aveva ragione John Locke. Per capire davvero non ci basta guardare, o tanto meno ragionare in astratto.
Dobbiamo vivere. E per questo, ricorderemo fino all’ultimo giorno della nostra vita, noi che abbiamo avuto la fortuna di essere presenti, la prima sfilata successiva al lockdown di primavera, Etro, il 15 luglio, nel chiostro dell’hotel Four Seasons, accompagnata dalle musiche di Ennio Morricone che era scomparso da pochi giorni, intepretate da una piccola orchestra nascosta fra i fiori. La ricorderemo per la gioia di ritrovarci, per i colori delle stampe madras e paisley, per i volti cari che scrutavamo dietro gli occhiali da sole dopo mesi di solitudine, interrotta da poche telefonate: come stai, va tutto bene. Ricorderemo la sfilata di Sportmax di settembre alla Triennale per gli abiti graziosamente panneggiati sul corpo delle modelle, certo, ma anche per il rumore dei loro passi, che la musica non riusciva a coprire tanto eravamo distanziati. Non è un caso che la stampa abbia recuperato qualche posizione, in questi mesi, soprattutto in termini di prestigio e di affidabilità: un po’ perché la gita all’edicola è stata una delle poche attività consentite anche durante il lockdown di primavera; un po’ perché fissare lo sguardo e l’attenzione su un particolare, potendolo riguardare, recuperare fisicamente con una serie di movimenti più complessi di un clic, riascoltando lo sfoglio delle pagine, percependo la morbida lucentezza della carta, ci aiutava, ancora una volta, come sempre, a fissare pensieri ed emozioni. Non dimenticheremo chi ha saputo raccontare se stesso o chi ci ha fatto toccare con mano le proprie idee e le proprie inquietudini. Che sono anche le nostre. Quelle di tutti.