Il Testimone
Da oltre un quarto di secolo Loïc Prigent racconta riti e vezzi dei più importanti défilé internazionali: oggi, con la sua videoscrittura di qualità. Domani? Forse, con mini-video effimeri, ed eventi corali disponibili per tutti, ma su misura.
Nella cultura contemporanea, la moda rappresenta un fenomeno estetico globale del quale il prodotto occupa solo una piccola parte. In questo immaginario multi-sfaccettato, la comunicazione attraverso l’immagine in movimento svolge un ruolo sempre più cruciale. Il merito è di alcuni innovatori che hanno saputo trasformare il mestiere di giornalista di moda in una forma di videoscrittura capace di connettere cultura, brand e pubblico.
Uno di loro, forse il più rilevante a livello internazionale, è il documentarista parigino Loïc Prigent.
Crede che si debba parlare della videocomunicazione di moda come un nuovo “genere” nella cultura contemporanea?
Può essere interessante classificare i diversi tipi di produzione, dal più artistico al più giornalistico, passando per il documentario, i filmati delle sfilate, i video degli influencer in prima fila, fino al making of. Ma quel che trovo veramente stimolante e innovativo sono i mini-video di moda di TikTok e le Insta-stories che scompaiono in 24 ore. Dicono molto sulla natura della moda.
Un prodotto così effimero può avere un impatto sul mercato?
Sì, ma è difficile programmarne la portata, perché è cosa inedita. Occorre sapere cosa vuole il pubblico per scegliere la lingua e il mezzo giusto! Purtroppo i brand ancora non sanno bene chi guarda queste immagini e perché lo fa. Per esempio, quando io ho iniziato a pubblicare video su YouTube, ho scoperto un ritmo narrativo molto specifico per questo medium e ho visto che anche i video più lunghi, oltre quaranta minuti, erano seguiti da un pubblico vasto e fedele. E questo pubblico diverso le ha permesso di capire come orientarsi nei nuovi media? Assolutamente. Prendiamo l’esempio del mio video con il comico Just Riadh che commenta l’ultima sfilata di Dior Homme. Ha ricevuto oltre diecimila commenti, spesso entusiastici. Ed è stato interessante constatare che le persone interessate a Riadh non guardano la Tv e non comprano riviste di moda. Insomma, se faccio un reportage televisivo o scrivo per un giornale, quel pubblico non ho nessuna possibilità di raggiungerlo. Ma posso farlo via YouTube, sapendo che chi guarda e commenta è un potenziale acquirente, catturato da quel flusso di immagini e commenti che incarna la fascinazione per il marchio. Non a caso, negli ultimi anni il fatturato del settore è decuplicato, poi moltiplicato per dieci e poi ancora per dieci!
Durante la pandemia i brand hanno scelto di comunicare sempre di più con i video. Crede che la gente lo apprezzi?
Le maison producono molti film perché lo richiedono i social media. Pensano in termini di “formato” ancor prima di riflettere sullo storytelling. È il modo di fruire ogni specifico medium che determina il contenuto. Raramente chi lo realizza ha accesso alla “storia” dietro la collezione. Quella è immaginata da un team di designer che, per moltissime ragioni, non comunica con chi realizza le immagini... Diciamo che il brand, oggi, non funziona proprio come una tavola rotonda attorno alla
quale tutti discutono liberamente. Questo dà risultati molto vari, a volte di grande successo, con ottimi spunti creativi, altre volte meno.
Come riesce, nei suoi documentari, a portare i curiosi “dentro” ai défilé?
Io cerco di farlo con l’effetto “piano-sequenza” per rendere tangibile lo stato d’animo febbrile della corsa alla sfilata: riprendo tutto dal momento in cui gli abiti arrivano sulla location fino all’uscita in passerella, senza interruzioni.
Se dovesse immaginare il pilot di una serie sulla moda di oggi, funestata dal lockdown, che cosa metterebbe in evidenza?
Farei qualcosa che parlasse alla molteplicità dei suoi consumatori, ovvero racconterei il concetto di sfilata multi-dimensionale che ho visto nascere in alcuni show dell’autunno scorso, in primis quello di Louis Vuitton. Immagino un evento multi-canale che renda accessibile lo show simultaneamente a tutti, ma in modo diverso. Ci sarebbe una sfilata vera, in location, con pochi ma significativi invitati in presenza e una scenografia ibrida tra reale e digitale. La vedrei diffusa in streaming via web aumentata con contenuti virtuali, in tempo reale e – per gli spettatori Vip, alcuni in presenza, altri da remoto – un’ulteriore creazione digitale, magari a opera di un artista invitato. Naturalmente, i giovanissimi che seguirebbero lo show sui social, potrebbero commentare in tempo reale accedendo anche a opzioni programmate ad hoc. Una sorta di evento corale, come un doppio ritratto della società globalizzata e della moda che verrà.
Sembra proprio un altro mondo da quando, nel 1995, ha cominciato a raccontare le sfilate.
In realtà la scena non è cambiata molto, a parte la presenza dei grandi gruppi del lusso. Restano, per esempio, le lotte di potere tra i nomi famosi e chi cerca di emergere. Come oggi, anche allora vedevo fenomeni di stile e schemi anacronistici che mi spingevano a difendere i designer emergenti. Seguivo ogni sfilata per il quotidiano francese Libération: ho calcolato di aver passato più o meno tre anni di vita alle fashion week! Scrivevo flash molto brevi e intanto raccoglievo frasi ed espressioni tipiche degli addetti ai lavori, che sono finite nei miei libri. Ma questa è un’altra storia.