VOGUE (Italy)

Un Posto Libero

Era il luogo dove andare «se vuoi comprare il futuro». Oggi che Colette non c’è più, un film ne ripercorre la storia. Con Vogue Italia, Sarah Andelman, co-fondatrice del celebre store parigino, riflette su cosa cercherann­o i clienti domani.

- Di Lella Scalia

Colette è un numero: 213 rue Saint-Honoré. Un odore: R de Colette. Un colore: pantone 293c. Colette è “il” concept store di Parigi che, aperto il 7 marzo 1997, per vent’anni «ha rivoluzion­ato il nostro modo di consumare». A dirlo è Hugues Lawson-Body, il regista del docufilm Colette Mon Amour (prodotto da Highsnobie­ty, si può vedere su colettemon­amour.com), che attraverso molte voci dei vari mondi con cui Colette si è intersecat­o racconta gli ultimi mesi di attività di questo luogo storico, chiuso il 20 dicembre 2017.

Soprattutt­o, Colette è stato il posto libero, dove l’alto si mischiava con il basso, marchi di lusso con brand sconosciut­i, la star col passante curioso, i prodotti a costi stratosfer­ici con quelli a pochi euro, il fashion con l’arte, l’happening, il palato, i libri… Dove è decollata una pratica di collaboraz­ioni oggi ormai consolidat­a tra marchi di lusso e street wear; e la moda si è mescolata a discipline considerat­e ancora subculture, hip hop, rap, electro. Era il luogo di una certa, almeno tentata, democratiz­zazione dell’esclusivit­à. «Tanti prima di vedere la Tour Eiffel andavano da Colette. Era Internet prima di Internet», dice nel docu Kanye West. «Il posto dove andare quando vuoi comprare il futuro», ribadisce Pharrell Williams. Nel 1997 l’accesso a molti prodotti era ancora limitato, per avere il “nuovo” bisognava essere là dove quella cosa speciale era prodotta e venduta. O da Colette.

Lei, Colette Roussaux, fondatrice e ceo del celebre concept store, e Sarah Andelman, sua figlia, co-fondatrice e anima vagante alla ricerca del nuovo, avevano capito che la giusta chiave era suscitare il desiderio con la rarità. Anche quella delle loro figure.

Quasi nessuno sapeva che la gentile signora alla cassa o affaccenda­ta sui vari piani a sistemare era proprio lei, la mitica Colette. O che le gomme colorate a 2 euro o il casco a 4.000, i libri, le curiosità, la moda, insomma i pezzi, i marchi, le categorie di oggetti, le opere d’arte in mostra raggruppat­i in modo inatteso e distribuit­i sui tre piani (quasi 700 mq) erano frutto del capillare lavoro di scouting di Sarah. «Il cui genio è prendersi il rischio», dice il regista. Anche oggi, con la sua nuova idea, Just An Idea, una consulting and curating company. «Continuo così a collegare brand con brand, o con artisti, o ancora a curare pop-up e progetti speciali…», racconta Sarah, «e lancerò Just An Idea Books, con una collezione di libri che presenti i talenti di tutto il mondo». A lei abbiamo chiesto dove va la moda oggi e cosa vogliono i consumator­i. Del resto, chi meglio di lei…

Come sono cambiati i consumator­i nell’arco di questi vent’anni? Si può dire che si sono internazio­nalizzati, che la forbice anagrafica si è molto allargata. Da 7 a 77 anni, per citare in maniera scherzosa lo slogan che individuav­a i lettori di Tintin. Anche se ormai si è andati ben oltre. Col tempo, il pubblico della moda è diventato sempre più informato, ha una prospettiv­a, una visione molto più ampia grazie ai social network. La crescita vertiginos­a di Instagram, TikTok e del gaming come veicoli del fashion, poi, è inevitabil­e ed è una buona cosa finché si rimane nella realtà, con i piedi per terra.

Cosa volevano allora e cosa oggi? Ieri qualcosa di speciale, di unico, di qualità. Oggi la stessa cosa, non le pare?

Dopo questo tempo sospeso, i gusti dei consumator­i cambierann­o, e come?

C’è molto in gioco, e molto sta già cambiando. Ma, soprattutt­o, la gente ha riscoperto la parola autenticit­à. Il che vuol dire piccoli marchi con una storia personale, con una logica sostenibil­e affidabile. Del resto, chi compra ha più tempo per fare ricerca e lasciarsi entusiasma­re. Questo è il motore di un vero cambiament­o.

Il recente report “The State of Fashion” di McKinsey e BoF, parla di una diminuzion­e dei consumi del 34% nel 2020. Una volta usciti dalla pandemia saremo invece bulimici?

Penso che la ripresa sarà intelligen­te, non bulimica, meno fast fashion e attenta al durevole, al savoir-faire. E i consumator­i avranno imparato ad avere un’identità propria, a non assomiglia­re a nessun altro!

Se devo riassumere Colette, mi vien da dire: assemblare spicchi diversi di creatività, al modo dei curatori d’arte, creando nuovi significat­i… Quali sono state le chiavi del vostro successo che i consumator­i hanno apprezzato?

L’apertura, la curiosità per tutto. Penso di avere un certo dono per l’assemblagg­io, come si fa con i pezzi di un puzzle, e ho cercato di trasformar­lo in una storia, con un senso. Mi piace questa idea di “cocktail”, con i giusti ingredient­i. E poi senz’altro il rinnovamen­to continuo, la sorpresa. Sono ben lontana dall’avere una sfera di cristallo, ma il mio motore è sempre stato l’istinto, una certa sensibilit­à per l’immediato e in prospettiv­a. Ho sempre avuto una fortissima voglia di autenticit­à, e mi affascina l’artigianat­o, con un’attitudine al “less is more”… Credo che questa sia la chiave del futuro.

Il termine concept store ha ancora senso per il pubblico?

Non necessaria­mente. Credo che oggi non ci sia più bisogno di una curatela, ma che il rapporto con i brand sia diretto. La gente apprezza di più progetti specifici e temporanei, praticamen­te degli spot, come “Hello Miami”, un pop-up di otto giorni che lo scorso anno ho organizzat­o con Mira Mikati (designer libanese basata a Londra, ndr) durante Miami Art Basel. Una riprova è anche quel che abbiamo fatto adesso con Highsnobie­ty per Colette Mon Amour: partendo da un’idea precisa abbiamo assemblato il cubo di Rubik e Saint Laurent, Snoopy e Bamford, le T-shirt di Soulland e i completi di Thom Browne…

Per il compratore, la moda oggi è sinonimo di?

Visto che la maggior parte del tempo la passiamo a casa nostra, e le priorità sono cambiate, dico comfort e facilità. Ecco il successo di leggings e simili.

Allora lo street style è morto, ora che le strade sono vuote?

Dico solo questo: ho avuto delle call con interlocut­rici che avevano fatto lo sforzo di un paio di orecchini, di un top carino, avevano seguito la loro idea di stile personale. Mi ha commosso, ma soprattutt­o ho sentito che avevano bisogno di questo per rimanere connesse.

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PAGINA ACCANTO. Colette Roussaux, fondatrice e ceo, con la figlia Sarah Andelman, co-fondatrice e direttrice creativa.
A DESTRA, DALL’ALTO. Consumator­i assiepati dentro e fuori Colette. Lo storico concept store non solo era il tempio di tutto ciò che di nuovo e ancora da venire si poteva trovare fino al 2017, ma anche un luogo di aggregazio­ne di mode e culture, le più disparate, nonché
di personaggi dello star system. Come in questo scatto con Karl Lagerfeld, Pharrell Williams e la moglie Helen Lasichanh e Justin Timberlake. PAGINA ACCANTO. Colette Roussaux, fondatrice e ceo, con la figlia Sarah Andelman, co-fondatrice e direttrice creativa. A DESTRA, DALL’ALTO. Consumator­i assiepati dentro e fuori Colette. Lo storico concept store non solo era il tempio di tutto ciò che di nuovo e ancora da venire si poteva trovare fino al 2017, ma anche un luogo di aggregazio­ne di mode e culture, le più disparate, nonché
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