Con La Voglia Di Vestirsi Bene
Certo, oggi mancano le occasioni e spesso i mezzi. Eppure, parlando con i titolari dei più importanti multimarca italiani, si scopre che non è venuto meno il desiderio per i tacchi, o persino per gli abiti da sera. Questione di autogratificazione, e dell’auspicio di un futuro prossimo più felice e lieve. Abbigliamento informale e streetwear: tra i tanti stravolgimenti provocati dalla pandemia nelle abitudini quotidiane, c’è quello del guardaroba rimodellato dallo smart working e dal quasi completo annullamento della socialità. In Italia, come nel resto del mondo, il divieto di viaggiare e l’azzeramento quasi totale del turismo internazionale hanno duramente colpito le grandi città dove, oltre a musei, cinema e ristoranti, hanno sofferto anche i negozi di abbigliamento.
Parlando con chi quelle boutique le gestisce in giro per il Paese, tuttavia, l’impressione è che ci sia una fetta di consumatori italiani che non ha perso il piacere di comprare. E di per sé questa è già una buona notizia per il settore, tanto più se si guarda alle ultime stime dell’Ufficio Studi Confcommercio sulla nati-mortalità nel 2020 delle imprese del commercio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi in Italia. L’emergenza sanitaria ha infatti acuito il tasso di mortalità delle imprese che, rispetto al 2019, risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio e più che triplicato per i servizi di mercato, mentre il crollo dei consumi è stato del 10,8% (pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019).
Lo shopping di alto livello, a fronte dell’assenza dei compratori stranieri, sembra però aver dimostrato una certa resilienza anche grazie alle strategie messe in campo dai negozianti. A sentir loro, i clienti italiani hanno riscoperto un’esperienza d’acquisto differente, che combina una propensione verso uno shopping consapevole e di qualità alla necessità di gratificarsi. Hanno anche definitivamente abbracciato il canale digitale – nel 2020 sono nati in Italia 1,3 milioni di nuovi consumatori digitali – ma allo stesso tempo hanno rivalutato l’esperienza fisica nelle boutique, come ha dimostrato l’entusiasmo della riapertura, che fa ben sperare per quando, finalmente, la pandemia sarà alle spalle.
Ma cosa hanno comprato? Secondo Antonia Giacinti, titolare insieme al marito Maurizio Purificato di Antonia, una delle boutique di riferimento a Milano (città che ha subito le chiusure più prolungate), i clienti hanno continuato a fare shopping, ricercando «un abbigliamento più informale, che nel caso delle donne le ha avvicinate a look più comodi e anche più maschili. Gli abiti hanno sofferto, mentre a farla da padrone sono stati pantaloni, tute e maglieria. Per le scarpe hanno prediletto quelle più “da casa”, come le ciabatte di pelliccia». Stesso parere per Carla Cereda di Biffi Milano, altra importante insegna milanese, che sottolinea «da un lato un approccio più consapevole, dall’altro un grande desiderio di novità e leggerezza che spinge a comprare capi anche molto speciali». Per Beppe Angiolini, titolare della storica boutique Sugar ad Arezzo e presidente onorario di Camera buyer, le clienti «hanno avuto il tempo per guardare dentro il loro armadio. E si sono chieste: “Cosa mi serve davvero?”. Non dicono più “vorrei qualcosa che...” o “mi piacerebbe un capo che sogno da tempo”. Cercano pezzi di utilità quotidiana adatti a ogni momento della giornata», racconta. A spopolare sono state dunque la maglieria, le tute in cashmere e le sneakers, piccoli lussi da concedersi nelle (rare) uscite, con una predilezione per tutti quei marchi made in Italy che hanno fatto della qualità il loro punto di forza, come i classici Brunello Cucinelli, Loro Piana e Max Mara, ma anche Tela, Alberto Biani, Laneus, Alessia Santi e Massimo Alba fra gli altri. «Quest’inverno i clienti hanno cercato soprattutto il cashmere, cardigan di lana calda, cappotti e scialli, capi per sentirsi abbracciati. E poi scarpe comode», conferma Tiziana Fausti, titolare dell’omonima boutique di Bergamo. «A Bergamo il 2020 è stato un anno che ha lasciato il segno. I nostri clienti si sono rivolti ad acquisti più orientati alla praticità che all’apparenza», continua Fausti.
Tra tute e maglioni, c’è però anche chi non ha rinunciato a un paio di scarpe con il tacco, alla borsa feticcio o all’abito prezioso puntando soprattutto su capi e accessori-investimento dei grandi marchi. Lo rileva Gianni Amati, titolare di Leam
a Roma, città che ha passato molto meno tempo in zona rossa rispetto a Milano: «I clienti con alta possibilità di spesa non hanno modificato le loro abitudini. Si è ridotto il numero di vendite ma si è alzato il cartellino medio. Abbiamo venduto tante giacche di cashmere di Alanui, ad esempio, e Chain Pouch di Bottega Veneta. Una tendenza è stata certo l’understatement, i clienti hanno preferito marchi dal gusto essenziale, come The Row. Un cappotto di The Row da 3900 euro è finito in un pomeriggio». Uberta Zambeletti, titolare di Wait and See, boutique conosciuta a Milano per la ricercatezza della sua selezione, si è detta «sorpresa dal fatto che, nonostante il periodo, le scarpe con il tacco abbiano continuato a vendersi denotando un desiderio delle donne di continuare a essere femminili nonostante il confinamento a cui siamo costretti».
In linea con le preferenze dei propri clienti abituali, ogni negozio ha perciò sperimentato picchi di natura diversa: Pierre Perbellini, store manager di Antonioli, negozio di culto a Milano, segnala come i clienti siano impazziti «per una capsule-archivio di Raf Simons e per la collezione donna di Jacquemus». Per Rossella Galiano, che gestisce otto boutique a Napoli, «le borse e la piccola pelletteria sono andate meglio rispetto alle calzature, ma ci sono articoli continuativi che non hanno smesso di vendere, come la Rockstud di Valentino o gli Opyum di Saint Laurent». «Qualche cliente non ha comunque rinunciato all’abito in paillettes oppure all’ultima release di sneakers», dice Alberto Ferrante, titolare di Eraldo a Ceggia, in provincia di Verona. Che le sneakers in edizione limitata abbiano continuato a vendere bene lo conferma anche Davide Bortolazzi, titolare di Dope Factory a Cagliari, negozio diventato punto di riferimento per la sua selezione di streetwear e marchi contemporanei. Registrano la stessa propensione verso borse e accessori di brand consolidati anche Aldo Gotti, General Manager di Modes a Milano, e Andrea Selvi, Buying Manager Man di Luisaviaroma a Firenze.
Concentrarsi sulla clientela locale è stata dunque la priorità per tutti, implementando l’e-commerce e i servizi personalizzati che hanno portato a consegnare vestiti anche a chi abitava non troppo lontano dalla boutique. Come racconta sempre Perbellini di Antonioli: «L’e-commerce è stato provvidenziale durante le chiusure. E per avvicinarci sempre di più alla clientela locale, abbiamo usato messaggi, videochiamate e promozioni speciali. Abbiamo cercato anche di accompagnare tutti i clienti che solitamente comprano in negozio verso l’acquisto online, supportandoli nella fase di ricerca e di confronto con l’addetto alle vendite in forma digitale, con consigli e con uno scambio di opinioni e di proposte il più vicino possibile all’esperienza fisica». Sebbene le riaperture siano state a singhiozzo, tutti i negozianti intervistati hanno poi detto di essere rimasti sorpresi dalla quantità di clienti che sono tornati in store, anche per sostenere le attività in difficoltà. «Un dato positivo è stato l’alzarsi della “conversion rate”, ovvero il dato che misura il numero di acquirenti rispetto agli ingressi: questo significa che il 60% di chi entra in negozio oggi compra. Prima era già piuttosto alta, intorno al 43% di media, ma è aumentata. Perché la gente, con la riduzione delle uscite e gli ingressi contingentati, sa che se viene in negozio non ha voglia di uscire a mani vuote», conferma Zambeletti di Wait and See.
I clienti italiani sembrano infatti aver rivalutato il piacere di acquistare “in presenza”, che si accompagna sempre più con i servizi digitali. «È come se molti avessero compreso che i negozi non servono solo per comprare, ma sono fondamentali per tenere vive le città», spiega Leonardo Ferri, titolare di Biba’s a Torino e presidente dell’Associazione commercianti ed esercenti del Pinerolese, con cui durante il lockdown ha lanciato una campagna per incoraggiare gli acquisti di quartiere, sottolineando il ruolo sociale che i negozi svolgono in un centro urbano.
Per il futuro, tutti puntano sull’omnichannel: «La boutique fisica rappresenta ancora il luogo ideale per la fruizione del prodotto, soprattutto nel caso di creazioni di ricerca e brand di nicchia. Oggi però vale sempre di più un approccio ibrido. Anche sul lato emozionale il digitale sta sperimentando metodi sempre più coinvolgenti in modo da rendere lo shopping più avvincente», riassume Carla Cereda di Biffi Milano. Un’esperienza che la pandemia ha arricchito di un significato in più, quello comunitario, che può essere un buon punto di partenza per far ripartire un Paese che sembra non aver perso la voglia di vestirsi bene.