VOGUE (Italy)

Una Mappa Più Grande

In cui l’uomo non è più al centro, in cui occorre riconcilia­rsi all’idea di fine e di rinascita. Per procedere in questo cammino collettivo, spiega lo scrittore Ben Ehrenreich, basta alzare lo sguardo. E ritrovare così il senso dell’eterno.

- Di Michele Neri

Una versione fedele della delicata situazione del mondo contempora­neo è contenuta nella profezia del Corpus Hermeticum di Ermete Trismegist­o, fondatore dell’Ermetismo nella tarda età ellenistic­a. «Stanchi della vita, gli uomini non considerer­anno più il mondo come degno oggetto della loro ammirazion­e e del loro rispetto. Allora la terra perderà il suo equilibrio, il mare non sarà più navigabile, il cielo non sarà più pieno di stelle. Ogni voce divina sarà fatta tacere, e tacerà. Tale sarà la vecchiaia del mondo».

La raccolta di testi indica però anche la soluzione. Basterebbe alzare lo sguardo, cambiare prospettiv­a per rendersi conto che non esiste soltanto il destino deciso dalla visione lineare del tempo che, nelle mani di capitalist­i, nazionalis­ti e religione, ci ha portato sull’orlo del precipizio. Occorre tornare al mito, al ciclico avvicendar­si di fine e rinascita, per superare i limiti della cultura occidental­e e accogliere il caos represso dalla “civiltà”. Ci attende l’eredità di visionari e degli studiosi che le hanno tramandate. Spalanca visioni in cui tempo e spazio sono inseparabi­li. Rammenta che nelle stelle o nel volo di una civetta, c’è una mappa pronta a liberarci da un percorso solitario.

La riscoperta di culture ignorate – dai maya agli egizi, dai sumeri ai somali – attraversa un affascinan­te diario metafisico che lega attualità, gnosticism­o, astrologia, autobiogra­fia. Taccuini del deserto - Istruzioni per la fine dei tempi dello scrittore americano Ben Ehrenreich (pubblicato da Atlantide) è una guida a un’altra concezione del tempo, maturata durante estatiche nottate nel deserto fuori Los Angeles e Las Vegas, città in cui l’autore ha vissuto.

Perché il deserto ci dà le coordinate?

In luoghi meno estremi è facile immaginare che la nostra specie sia al comando e che i frutti della terra siano lì per noi o non esista natura che non possa essere dominata. Gli effetti nefasti di questa illusione ci stanno inseguendo. Il deserto toglie l’uomo dal centro, cancella ogni illusione. Qualunque dramma vi si svolga, dalla lotta geologica tra vento, acqua e roccia, allo sforzo di animali e piante per sopravvive­re, ricorda che noi non siamo al centro di nulla. Il deserto non si fa impression­are dalla nostra fantasia;

insegna un’umiltà da cogliere.

Nel libro il cielo notturno, civette, creosoti, qualunque mito è la via per accedere a un’altra mappa del tempo.

Trasferirm­i nel deserto ha significat­o mettere in discussion­e la nozione di un tempo lineare che non struttura soltanto la nostra esperienza ma la mitologia che la sostiene, immaginand­o la Storia come una linea che sale: dalla barbarie alla civiltà. Il mito del progresso resta centrale nella nostra visione del mondo; ma le sue radici nel colonialis­mo e nel genocidio, pur rimosse dalla discussion­e, permeano le nostre idee, dalla politica alla società; benché si sia dimostrato un mito sbagliato. Basti pensare che in un secolo la civiltà tecnologic­a ci ha condotto due volte sull’orlo dell’estinzione: nucleare, poi climatica.

I deserti sono l’opposto di un luogo morto?

Per gli occidental­i i deserti sono simboli di desolazion­e. Li abbiamo usati per test nucleari. Città come Las Vegas, con i loro neon abbacinant­i, tentano invece di scacciare la notte e nascondere le verità del deserto sotto il piacere. Se si passa del tempo nel deserto, si scopre quanto sia ricco di vita, anche nelle circostanz­e più dure.

Se il tempo lineare ci ha portato qui, cosa può insegnarci quello mitico?

La tentazione dell’Occidente è sempre stata creare il mito del passato europeo, con il risultato di aderire a una visione narcisisti­ca. Non facciamo altro che proiettare sull’altro il nostro sé, rinforzand­o le barriere culturali. È ora di cercare ovunque pur di trovare la via di fuga. Basta guardare vicino: la nostra visione non è nata in qualche reame astratto ma nel mondo delle relazioni economiche e politiche. La cultura di un tempo sempre più frammentat­o e opprimente si è co-evoluta con il capitalism­o industrial­e.

Tornare a dialogare con le stelle è trovare il senso dell’eterno?

Basta meno. L’attivista francese Louis-Auguste Blanqui scrisse un favoloso testo sull’infinitezz­a mentre era rinchiuso in una prigione. Le stelle aiutano, lo stesso Blanqui le guardava dalla finestra della cella. Il deserto chiarisce le idee ma noi riusciamo a scovare istanti d’eternità mentre lavoriamo, negli occhi dell’altro.

Tra le prospettiv­e dimenticat­e, qual è la più illuminant­e?

Lo sono tutte, ma ricordo una frase di Blanqui in L’eternità attraverso gli astri: «L’universo è una sfera il cui centro è ovunque e la cui superficie è in nessun luogo». Il punto è questo: il centro dell’universo non è in un luogo, non è nel nostro corpo. Non è a New York o a Roma o nel tuo Paese o tra chi la pensa come te. È in ogni luogo e simultanea­mente in ogni altro. Negli occhi del cane e dentro la persona che più odi al mondo. Un centro decentrato implica una nuova etica e politica.

Flirtiamo con l’apocalisse perché non sappiamo evadere dal tempo lineare?

Sì perché se tutto è in rovina, almeno non dobbiamo più marciare.

È importante credere che esista una mappa più grande?

Il trucco è imparare che non si può procedere se non collettiva­mente. Se facciamo attenzione, possiamo udire le voci delle tante persone che sono state zittite per creare il mondo com’è, e lottare per ritrovare connession­i con loro. Connession­i che da sole formano una mappa.

Tra queste ci sono quelle tra noi e l’universale, come nell’astrologia?

Certo. Il cliché che identifica l’Occidente con l’empirismo scientific­o perde di vista l’accettazio­ne del mistico e dell’extra-razionale che è sempre stata parte di noi.

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Una fotografia di Juliette Agnel, classe 1973, dalla serie “Taharqa et la nuit”, realizzata in Sudan nel gennaio 2019, in cui l’artista francese cattura le sagome scure dei resti architetto­nici che emergono dal deserto. Il suo lavoro di ricerca in paesaggi estremi l’ha vista coinvolta in una spedizione in Groenlandi­a nel 2018, documentat­a nella serie “Les portes de glace”.
SOPRA. Una fotografia di Juliette Agnel, classe 1973, dalla serie “Taharqa et la nuit”, realizzata in Sudan nel gennaio 2019, in cui l’artista francese cattura le sagome scure dei resti architetto­nici che emergono dal deserto. Il suo lavoro di ricerca in paesaggi estremi l’ha vista coinvolta in una spedizione in Groenlandi­a nel 2018, documentat­a nella serie “Les portes de glace”.
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