Il Cielo Stellato Su Di Me
Se la moda rappresenta di per sé un percorso nell’ignoto e nella trasformazione dell’essere, leggere il rapporto fra abiti e spiritualità vuol dire risalire alle origini dell’umanità, del linguaggio e del mistero.
Quando pensiamo che gli storici dell’arte non hanno ancora risolto il mistero del simbolo dello scorpione che Elisabetta Gonzaga porta sulla fronte nel ritratto di Raffaello, appeso alla ferronnière (era nata in febbraio, dunque a che cosa si riferisce quella sorta di marchio?), crediamo che sarebbe un po’ noioso elencare tutti i couturier, gli stilisti e i letterati che nel corso degli ultimi secoli hanno ricamato segni esoterici, cucito amuleti, forgiato porte bonheur, un po’ per i propri clienti, un po’ per se stessi, per esorcizzare la paura, per stimolare il delicato equilibrio che determina il successo o il fallimento di una collezione.
Basti per tutti la nota sulla nonna che Marisa Berenson volle inserire nelle prime pagine di un volume delizioso e un po’ dimenticato, Elsa Schiaparelli’s Private Album (Double-Barrelled Books, 2014): «Quando nacque Elsa, suo zio Giovanni, il famoso astronomo, vide che aveva sul volto dei piccoli nei che formavano la costellazione dell’Orsa Maggiore, e ne fu deliziato». Quando si dice la predestinazione: l’Orsa Maggiore – che in Africa è identificata con una cammella – è probabilmente il più antico mito a cui l’umanità faccia ancora riferimento, e si sa che Schiaparelli non si separava mai dalla spilla a forma di orsa che le aveva disegnato la maison Cartier.
Se la moda rappresenta di per sé un viaggio nell’ignoto e nella trasformazione dell’essere, leggere il rapporto fra la moda e l’esoterismo, fra il vestito e la natura dell’uomo, vuol dire risalire alle origini dell’umanità, del linguaggio e del mistero della vita, cioè del femminino. Significa tornare al mito poetico in onore della dea-Luna, ovvero della Musa, anticamente usato nel Mediterraneo e nell’Europa settentrionale in relazione con cerimonie religiose, alcune risalenti all’età paleolitica: una lingua che, osservava a metà del Novecento Robert Graves in uno dei suoi saggi più affascinanti, La dea bianca, sarebbe stata manomessa verso la fine dell’epoca minoica, quando invasori provenienti dall’Asia centrale iniziarono a sostituire le istituzioni matrilineari con quelle patrilineari, rimodellando i miti per giustificare le evoluzioni della società, e poi pressoché annullata, trasformata in favola o territorio di esplorazione per linguisti, con l’avvento della filosofia greca e la nuova religione della logica. Per questo, diremmo che ci colpì quasi più l’intuizione di Maria Grazia Chiuri di riprodurre i graffiti delle grotte di Lascaux sugli abiti della collezione Dior Cruise 2018 di quanto abbia fatto la magnifica, ricchissima collezione couture estate 2021, sublimata dal film di Matteo Garrone, che esplora tanto l’attrazione dell’uomo per il soprannaturale, inevitabile in tempi
incerti come quelli che stiamo vivendo, quanto l’ossessione del fondatore Christian Dior per l’occulto, già visitato nella couture “astrologica” dell’estate 2017: il numero otto, il ramo di mughetto cucito nei vestiti, la carta del diavolo, che la stilista ha reinterpretato come simbolo di seduzione, di femme fatale, di Belle dame sans merci, e vedete che torniamo al punto, cioè al potere originario della dea-Luna. La stessa Chiuri, peraltro, aveva esplorato con Pierpaolo Piccioli, ai tempi della loro direzione artistica congiunta di Valentino, la civiltà assiro-babilonese da cui nasce il primo ordinamento del cielo: lo zodiakos greco o “circolo delle figure animali”, in origine strumento di calcolo astronomico ma presto trasformato in viatico del rapporto fra terra e cielo, fra uomo e soprannaturale. Che l’uomo si sia sempre voluto appropriare dei segni visibili di questo possibile rapporto, che li abbia sempre portati su di sé in forma di amuleti, accreditandoli non di rado di poteri taumaturgici, ci sembra abbastanza ovvio, benché per lungo tempo, in Occidente, non se ne sia trovata prova visibile a causa dell’ostilità della Chiesa cattolica per simboli che riteneva associati alla superstizione, cioè a qualunque credenza o cultura precedente o estranea (cioè non assimilata) a sé.
E quindi, non è ancora un caso se solo nel Novecento si assiste a una progressiva ri-apparizione dei segni dell’astrologia sugli abiti: lune, soli e cieli stellati nelle illustrazioni di moda di Erté, oppure la volta celeste nella collezione “Astrology” di Schiaparelli, inverno 1938, un trionfo di ricami di Lesage ispirati dai testi della Biblioteca dell’Accademia dei Lincei dove la couturière era cresciuta (il padre Celestino, docente di Lingua e letteratura araba alla Sapienza, ne era il conservatore, e la famiglia viveva a palazzo Corsini), che venne seguito da una parata di abiti di stelle sui musical hollywoodiani delle stagioni ’3941, Ziegfeld Girl in particolare. Il Novecento, secolo breve e violento, si affida molto all’astrologia, e dunque ecco segni e simboli da Dior, da Hermès con il celebre carré del 1963 prediletto da Jackie Kennedy, da Yves Saint Laurent che rende omaggio a Schiaparelli con una straordinaria giacca in velluto blu ricamata (“les yeux d’Elsa”). E ancora Karl Lagerfeld per una collezione estiva di Fendi del 1993 e per Chanel couture inverno 2010, John Galliano nel 1997 (circo e astrologia uniti nel taglio a sbieco), Pucci nel 2015 (c’era ancora Peter Dundas, non dimenticheremo mai un certo paio di cuissardes di velluto), Versace uomo inverno 2016, e perfino Yohji Yamamoto. Sì, alla fine la lista l’abbiamo fatta, e avrebbe potuto essere ancora più ricca, volendo includere le vesti dichiaratamente “esoteriche” di Joséphin Péladan, che il poeta simbolista si disegnava e tagliava da solo, o le ballerine di Charlotte Olympia. Da cultrici del logos quali siamo, però, abbiamo nutrito da subito un debole per la versione utilitaristica dei segni zodiacali che Vetements lanciò nell’inverno del 2017: dodici impermeabili a tiratura limitata con la descrizione minimale delle caratteristiche psicologiche di ogni segno stampate sul dorso. Così semplici, ti inchiodavano alla dimensione superficiale in cui questa scienza, un tempo patrimonio di e per pochi, ha finito per trasformarsi.