Controcanto
Questa volta, diamine, c’è poco da fare il contropelo. Napoli, mi dicono dai vertici del colophon, è il tema del numero. Una città che è una costellazione di mondi e di modi, una ricapitolazione di varia umanità, splendida e miserabile, tumultuosa e vitale come il caos primordiale. La confondente confusione di cotanta megalopoli, antica di una sconvolgente modernità, è un guazzabuglio nel quale, da terrone, questo umile scribacchino si muove con facilità, sicché scadere nel banale è quanto di più facile. Cosa c’è da controcantare allora? Un bel niente. Non si può che apprezzare la scelta di portar lo sguardo e i pensieri a sud, consci che in tutti i sud del mondo fermentano la cultura e la vita nelle loro forme tentacolari, magmatiche, avvolgenti, sconvolgenti, progressive, annullanti, epiche, tragiche. Ecco, la penna prende ancora a sputare ovvietà, quindi meglio mettere il morso e portare il pensiero altrove, perché comunque la tentazione di cavillare e volgerla in critique rimane forte; soverchia, addirittura. La voglia matta è di entrar da dietro e mettere qualcosa, anche una piccola cosa, sottosopra. E sia. Quel che di Napoli, più di ogni altra città a sud, par molesto e importuno come un invitato di troppo o una zanzara durante la siesta, è, per il forestiere che abbia già digerito lo stupore del pittoresco e la gioia del picaresco, la teatralizzazione oltraggiosa del quotidiano, la drammatizzazione esacerbata di sentimenti e sensazioni, il volume delle emozioni sempre spinto al massimo anche per la più piccola minuzia. Sono le urla straziate quando basterebbe un sussulto, gli svenimenti a comando, i cori di prefiche e la gestualità espressionista per un nonnulla e così per fare. È il dramma che si esaurisce nella sua stessa drammaticità, lo sconvolgimento di facciata, la captatio benevolentiae a suon di strazianti pietismi e lacrime di coccodrillo. È il mettere tutto in piazza, senza tema di ridicolo e senza pudore alcuno, quasi che la vita non fosse tale se non davanti a un pubblico di astanti da catturare con prove di alta recitazione. Sounds familiar? Così parrebbe. Quel che a Napoli avviene in modo verace per la strada non è diverso in effetti dal teatrino interminabile e tiktokkaro che ci ha trasformati tutti in ballerini, ginnasti, bricoleur dello sketch esilarante, insomma in intrattenitori di non professione ma di indefessa dedizione. Tutti: dall’aspirante chef alla sedicente ginecologa. È la commedia della vita al massimo, da performare en plein air, come a Neapolis, o nel recinto digitale. Tutto in piazza e tutti in piazza, perché questo luogo primigenio, insieme agorà e foro, altro non è se non una vetrina nella quale fare commercio, di cose o di se stessi. Che sia reale meno, rimane un luogo di transazioni interminabili, e chi urla più forte vende di più, come al mercato del pesce. Silenzio e reticenza non s’applicano perché sono qualità che richiedono ascolto invece che platealità, empatia invece che gutturalità, e il tempo chi ce l’ha? Eppure sono caratteri arsi e pietrosi che vengono proprio da sud. Un altro sud, certo: sdignuso e indifferente, alieno agli strilli di copertina o nel vicolo. Shhh!