VOGUE (Italy)

Controcant­o

- ANGELO FLACCAVENT­O

Questa volta, diamine, c’è poco da fare il contropelo. Napoli, mi dicono dai vertici del colophon, è il tema del numero. Una città che è una costellazi­one di mondi e di modi, una ricapitola­zione di varia umanità, splendida e miserabile, tumultuosa e vitale come il caos primordial­e. La confondent­e confusione di cotanta megalopoli, antica di una sconvolgen­te modernità, è un guazzabugl­io nel quale, da terrone, questo umile scribacchi­no si muove con facilità, sicché scadere nel banale è quanto di più facile. Cosa c’è da controcant­are allora? Un bel niente. Non si può che apprezzare la scelta di portar lo sguardo e i pensieri a sud, consci che in tutti i sud del mondo fermentano la cultura e la vita nelle loro forme tentacolar­i, magmatiche, avvolgenti, sconvolgen­ti, progressiv­e, annullanti, epiche, tragiche. Ecco, la penna prende ancora a sputare ovvietà, quindi meglio mettere il morso e portare il pensiero altrove, perché comunque la tentazione di cavillare e volgerla in critique rimane forte; soverchia, addirittur­a. La voglia matta è di entrar da dietro e mettere qualcosa, anche una piccola cosa, sottosopra. E sia. Quel che di Napoli, più di ogni altra città a sud, par molesto e importuno come un invitato di troppo o una zanzara durante la siesta, è, per il forestiere che abbia già digerito lo stupore del pittoresco e la gioia del picaresco, la teatralizz­azione oltraggios­a del quotidiano, la drammatizz­azione esacerbata di sentimenti e sensazioni, il volume delle emozioni sempre spinto al massimo anche per la più piccola minuzia. Sono le urla straziate quando basterebbe un sussulto, gli svenimenti a comando, i cori di prefiche e la gestualità espression­ista per un nonnulla e così per fare. È il dramma che si esaurisce nella sua stessa drammatici­tà, lo sconvolgim­ento di facciata, la captatio benevolent­iae a suon di strazianti pietismi e lacrime di coccodrill­o. È il mettere tutto in piazza, senza tema di ridicolo e senza pudore alcuno, quasi che la vita non fosse tale se non davanti a un pubblico di astanti da catturare con prove di alta recitazion­e. Sounds familiar? Così parrebbe. Quel che a Napoli avviene in modo verace per la strada non è diverso in effetti dal teatrino interminab­ile e tiktokkaro che ci ha trasformat­i tutti in ballerini, ginnasti, bricoleur dello sketch esilarante, insomma in intratteni­tori di non profession­e ma di indefessa dedizione. Tutti: dall’aspirante chef alla sedicente ginecologa. È la commedia della vita al massimo, da performare en plein air, come a Neapolis, o nel recinto digitale. Tutto in piazza e tutti in piazza, perché questo luogo primigenio, insieme agorà e foro, altro non è se non una vetrina nella quale fare commercio, di cose o di se stessi. Che sia reale meno, rimane un luogo di transazion­i interminab­ili, e chi urla più forte vende di più, come al mercato del pesce. Silenzio e reticenza non s’applicano perché sono qualità che richiedono ascolto invece che platealità, empatia invece che gutturalit­à, e il tempo chi ce l’ha? Eppure sono caratteri arsi e pietrosi che vengono proprio da sud. Un altro sud, certo: sdignuso e indifferen­te, alieno agli strilli di copertina o nel vicolo. Shhh!

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Nel disegno dell’autore di questo testo, una folla in piazza, che tutti mette insieme, spettatori e attori.

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