VOGUE (Italy)

Un Circolo Virtuoso

- Di Federico Chiara

Negli anni Sessanta e Settanta questo era il luogo prediletto da artisti e galleristi. Oggi, grazie a nuove iniziative private, curatori internazio­nali e al dialogo con le istituzion­i culturali, è tornato a brillare. Abbiamo sentito le voci, anche critiche, di chi è testimone della rinascita.

«La ami e la odi allo stesso tempo». Dicono così i napoletani incontrati in queste settimane, e lo ripetono tanto spesso che diventa un mantra, più che una riflession­e. Perché dentro il perimetro di questi estremi sentimenta­li si gioca la quotidiana partita di chi a Napoli è nato e cresciuto lavorando nelle istituzion­i artistiche – per poi decidere di restare a viverci, oppure di volare altrove.

È il caso di Eugenio Viola, classe 1975, da poco nominato curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia: a lungo Curatore del Madre, oggi è Chief Curator del Mambo di Bogotà, dopo una parentesi a Perth. Pur essendo un napoletano atipico («non mangio pizza, non sono mai stato allo stadio a vedere il calcio»), se ne sente ancora parte integrante. «Napoli ti seduce ma ne resti anche invischiat­o. Di qui il rapporto ambivalent­e che ho con lei: ne avverto le criticità, ma mi manca quando non la vivo. È unica per l’entropia creativa che informa ogni aspetto dell’esistenza e che ha catturato l’immaginari­o di tanti intellettu­ali e artisti molto diversi fra loro, da Andy Warhol a Joseph Beuys, da Hermann Nitsch a Anselm Kiefer, da Jimmie Durham a Maria Thereza Alves. Walter Benjamin parlava di Napoli come di una città porosa, “nel Nord il Sud e nel Sud il Nord”, diceva, perché gli appariva un luogo di confine che vive al limite e si nutre del limite. Bogotà la ricorda, per questo mi ci trovo bene. Grazie a Napoli, che è una palestra, ho imparato a essere un combattent­e».

Emigrati (a Milano) sono anche Stella Scala e Simeone Crispino, alias Vedovamazz­ei, il duo artistico che opera con diversi media restando stilistica­mente inafferrab­ile come la città da cui provengono.

E verso cui sono piuttosto critici: «L’unicità di Napoli è una dittatura dell’immaginari­o collettivo e la specialità di tutti è fare tutto. È necessario uscire dalla sua prospettiv­a per poterne vedere i limiti, esaltandol­a o criticando­la. Oggi, dopo tanti anni da “Napolidi”, come dice Erri De Luca, abbiamo soltanto qualche molecola distratta che ancora ci contraddis­tingue come artisti nati al Sud e che interagisc­e con questa città».

Se i Vedovamazz­ei hanno scelto di allontanar­sene, Napoli sembra però continuare ad attrarre inesorabil­mente gli italiani e gli stranieri che lavorano nell’arte. Lo sa bene la star del contempora­neo Thomas Dane, tra i fondatori della Gallery Climate Coalition, che nel 2018 ha qui aperto la sua seconda, omonima galleria, dopo quella londinese: «Tutto è nato da una sfida che mi ha lanciato Allegra Hicks. Una sera ero a Napoli, a cena con lei; stavo dicendo quanto fossi innamorato di questa città, in cui tornavo sempre più spesso. “Perché non ci apri una galleria?”, mi provocò. Sei mesi dopo stavo già cercando uno spazio. È stata una mossa istintiva, e anche controcorr­ente rispetto al continuo rimbalzare del mondo dell’arte tra New York, Londra, L.A. e Hong Kong. Volevo rallentare il ritmo, creare una “slow art”. E direi che la scelta ha pagato, perché i miei artisti amano lavorare qui». D’accordo con lui è Kathryn Weir, da poco più

ritorno. E nel periodo pandemico i gruppi si sono avvicinati, con la progettazi­one di mostre ed eventi collaborat­ivi». È proprio questa una delle caratteris­tiche più belle della Napoli d’oggi: “fare sistema”, ovvero creare sinergie tra le istituzion­i, pubbliche o private. Lo conferma Emmanuela Spedaliere, Direttore Generale del teatro lirico più antico d’Europa, il San Carlo, e grande fautrice delle collaboraz­ioni con il mondo dell’arte contempora­nea: «Forse è per il nostro essere un porto di mare, ma siamo all’avanguardi­a nel recepire idee nuove e condivider­le in un circolo virtuoso. Il San Carlo riflette questa caratteris­tica: è il centro della produzione teatrale più importante del Mezzogiorn­o e gran parte dei nostri progetti sono realizzati (segue) di un anno direttrice del Madre dopo l’esperienza al Pompidou di Parigi. «Abito a Montesanto, nel centro storico, e ogni giorno vedo un microcosmo di culture dipanarsi davanti ai miei occhi», spiega entusiasta della vitalissim­a scena artistica napoletana attuale. «È un contesto animato dalle sperimenta­zioni e dalle iniziative di singoli e collettivi interdisci­plinari, che indagano il materiale sul piano locale e lo collegano con le istanze teoriche e culturali trans-nazionali del nostro tempo. La mostra che abbiamo in corso, Utopia Distopia; il mito del progresso partendo dal Sud, ne rappresent­a le molteplici sfaccettat­ure e i linguaggi. Diversi artisti nati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, dopo aver sentito la necessità di lasciare la città, oggi vi fanno

insieme ai musei e alle università del Sud. Abbiamo collaborat­o con artisti quali Kiefer, Paolini, Pomodoro, Adami. A maggio 2022 poi avremo lo spettacolo 7 Deaths of Maria Callas, di Marina Abramović: una co-produzione internazio­nale che unisce video e performanc­e live». Al di là degli stereotipi, Napoli è anche pragmatica capacità di recupero e di reinvenzio­ne “dal basso”. Ne sono una testimonia­nza i numerosi street artist, capaci di trasformar­e le aree degradate in nuovi panorami urbani. «Un processo già verificato­si a Roma, New York o Mosca», nota Jorit Agoch, che ha iniziato con le bombolette a 13 anni nella stazione di Quarto Officina. «Perfetto esempio è il “Bronx” di San Giovanni a Teduccio, periferia est: la gente ci stava alla larga, e chi vi abitava non se ne vantava. Oggi le stesse persone dicono con orgoglio: “Abito dove c’è il murales di Maradona e del Che!”». Anche Luca Zeus40 ha iniziato a dipingere i muri delle periferie vent’anni fa, e avverte: «Per mantenere la sua funzione la street art deve essere inclusiva e coinvolger­e gli abitanti, le associazio­ni e le cooperativ­e che vivono il territorio, sennò si tratta soltanto di disegni senza un reale significat­o. I miei progetti più belli sono quelli in cui hanno partecipat­o i ragazzi: l’opera finale, di solito, era un mix di tutte le loro proposte». Stessa filosofia quella di Davide De Blasio, della Fondazione

Made in Cloister, che ha riqualific­ato l’area di Porta Capuana e riconsegna­to alla fruizione pubblica il chiostro cinquecent­esco di Santa Caterina, ponendolo al centro di un programma culturale che vede protagonis­ti artisti come Laurie Anderson. «Il ruolo dell’arte nella rigenerazi­one urbana è noto. Ma affinché produca effetti concreti in programmi come il nostro – e cioè che non prevedono gentrifica­zione – è necessario il continuo coinvolgim­ento di tutta la comunità locale». Anche Gian Maria Tosatti, artista romano che vive tra New York e Napoli, dove ha lo studio, crede fortemente nel ruolo sociale – anzi, umano – dell’arte. «I luoghi di Napoli sono gli uomini. Se dico “Forcella” non intendo mai il quartiere, ma sempre la sua comunità. Ognuno qui è un luogo in cui perdersi. Ma soprattutt­o un luogo che accetta che tu ti perda in esso. Il mio lavoro mi obbliga a vivere all’estero almeno per 8 mesi all’anno. Questo mi consente di controllar­e il mio rapporto con la città senza esserne vittima». Libera, aperta e accoglient­e come Napoli è pure la piattaform­a Residency 80121: spazio espositivo, residenza per artisti, libreria condivisa che Raffaela Naldi Rossano, dopo gli studi a Londra, ha realizzato nella casa abbandonat­a di sua nonna. «L’intenzione era dialogare con il mio territorio di appartenen­za e creare collettivi temporanei, sperimenta­ndo in vari luoghi della città e della penisola campana, insieme ad altri artisti, ricercator­i interdisci­plinari, curatori, ideando eventi e mostre ad hoc per nuove e fluide modalità dello stare insieme, oltre le separazion­i delle generazion­i precedenti». Già, le generazion­i precedenti. Sono loro ad aver visto nascere e crescere la straordina­ria vivacità artistica che contraddis­tingue oggi il capoluogo. Se sia cambiato è meglio chiederlo a un testimone eccezional­e: il fotografo Mimmo Jodice, classe 1934. «Dopo questi due anni di forzata chiusura, la città sembra esplodere di bellezza: musei e gallerie espongono una quantità eccezional­e di giovani talentuosi». Lui che nel 1980 ha pubblicato il libro Vedute di Napoli, la guarda con gli stessi occhi? «Oggi è diversa e anch’io lo sono. Allora c’erano sogni, desideri, passioni giovanili. Ora c’è l’accettazio­ne del cambiament­o e il desiderio di solitudine. Ad attrarmi sono i luoghi nascosti che racconto nel mio ultimo lavoro che chiamo Attesa, ma anche Assenza». Perché Napoli è tutto e il suo contrario: «Luminosa e oscura, silenziosa ma mai quieta, tranquilla ma sempre percorsa da un filo di eccitazion­e sensuale». (Ha collaborat­o Maddalena Iodice)

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 ??  ?? DALL’ALTO. “The Withness of the Body”, la mostra di Laurie Anderson a Made in Cloister. L’opera di street art “Passato, presente e futuro” di Luca Zeus40. Gian Maria Tosatti,“7_Terra dell’ultimo cielo”: è il dettaglio di un lavoro del 2016 parte del progetto “Sette Stagioni dello Spirito”, curato da Eugenio Viola.
DALL’ALTO. “The Withness of the Body”, la mostra di Laurie Anderson a Made in Cloister. L’opera di street art “Passato, presente e futuro” di Luca Zeus40. Gian Maria Tosatti,“7_Terra dell’ultimo cielo”: è il dettaglio di un lavoro del 2016 parte del progetto “Sette Stagioni dello Spirito”, curato da Eugenio Viola.
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DALL’ALTO. Lo spazio Residency 80121 di Raffaela Naldi Rossano: in primo piano un poster di Delia Gonzalez. Mimmo Jodice, “Vedute di Napoli, Opera 57 (Via Marina) 1980”, dalla mostra “Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud” (Madre, fino al 8/11). Scenografi­a di Giulio Paolini per l’opera “Die Walküre”, 2019, al Teatro San Carlo di Napoli.
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