Un Circolo Virtuoso
Negli anni Sessanta e Settanta questo era il luogo prediletto da artisti e galleristi. Oggi, grazie a nuove iniziative private, curatori internazionali e al dialogo con le istituzioni culturali, è tornato a brillare. Abbiamo sentito le voci, anche critiche, di chi è testimone della rinascita.
«La ami e la odi allo stesso tempo». Dicono così i napoletani incontrati in queste settimane, e lo ripetono tanto spesso che diventa un mantra, più che una riflessione. Perché dentro il perimetro di questi estremi sentimentali si gioca la quotidiana partita di chi a Napoli è nato e cresciuto lavorando nelle istituzioni artistiche – per poi decidere di restare a viverci, oppure di volare altrove.
È il caso di Eugenio Viola, classe 1975, da poco nominato curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia: a lungo Curatore del Madre, oggi è Chief Curator del Mambo di Bogotà, dopo una parentesi a Perth. Pur essendo un napoletano atipico («non mangio pizza, non sono mai stato allo stadio a vedere il calcio»), se ne sente ancora parte integrante. «Napoli ti seduce ma ne resti anche invischiato. Di qui il rapporto ambivalente che ho con lei: ne avverto le criticità, ma mi manca quando non la vivo. È unica per l’entropia creativa che informa ogni aspetto dell’esistenza e che ha catturato l’immaginario di tanti intellettuali e artisti molto diversi fra loro, da Andy Warhol a Joseph Beuys, da Hermann Nitsch a Anselm Kiefer, da Jimmie Durham a Maria Thereza Alves. Walter Benjamin parlava di Napoli come di una città porosa, “nel Nord il Sud e nel Sud il Nord”, diceva, perché gli appariva un luogo di confine che vive al limite e si nutre del limite. Bogotà la ricorda, per questo mi ci trovo bene. Grazie a Napoli, che è una palestra, ho imparato a essere un combattente».
Emigrati (a Milano) sono anche Stella Scala e Simeone Crispino, alias Vedovamazzei, il duo artistico che opera con diversi media restando stilisticamente inafferrabile come la città da cui provengono.
E verso cui sono piuttosto critici: «L’unicità di Napoli è una dittatura dell’immaginario collettivo e la specialità di tutti è fare tutto. È necessario uscire dalla sua prospettiva per poterne vedere i limiti, esaltandola o criticandola. Oggi, dopo tanti anni da “Napolidi”, come dice Erri De Luca, abbiamo soltanto qualche molecola distratta che ancora ci contraddistingue come artisti nati al Sud e che interagisce con questa città».
Se i Vedovamazzei hanno scelto di allontanarsene, Napoli sembra però continuare ad attrarre inesorabilmente gli italiani e gli stranieri che lavorano nell’arte. Lo sa bene la star del contemporaneo Thomas Dane, tra i fondatori della Gallery Climate Coalition, che nel 2018 ha qui aperto la sua seconda, omonima galleria, dopo quella londinese: «Tutto è nato da una sfida che mi ha lanciato Allegra Hicks. Una sera ero a Napoli, a cena con lei; stavo dicendo quanto fossi innamorato di questa città, in cui tornavo sempre più spesso. “Perché non ci apri una galleria?”, mi provocò. Sei mesi dopo stavo già cercando uno spazio. È stata una mossa istintiva, e anche controcorrente rispetto al continuo rimbalzare del mondo dell’arte tra New York, Londra, L.A. e Hong Kong. Volevo rallentare il ritmo, creare una “slow art”. E direi che la scelta ha pagato, perché i miei artisti amano lavorare qui». D’accordo con lui è Kathryn Weir, da poco più
ritorno. E nel periodo pandemico i gruppi si sono avvicinati, con la progettazione di mostre ed eventi collaborativi». È proprio questa una delle caratteristiche più belle della Napoli d’oggi: “fare sistema”, ovvero creare sinergie tra le istituzioni, pubbliche o private. Lo conferma Emmanuela Spedaliere, Direttore Generale del teatro lirico più antico d’Europa, il San Carlo, e grande fautrice delle collaborazioni con il mondo dell’arte contemporanea: «Forse è per il nostro essere un porto di mare, ma siamo all’avanguardia nel recepire idee nuove e condividerle in un circolo virtuoso. Il San Carlo riflette questa caratteristica: è il centro della produzione teatrale più importante del Mezzogiorno e gran parte dei nostri progetti sono realizzati (segue) di un anno direttrice del Madre dopo l’esperienza al Pompidou di Parigi. «Abito a Montesanto, nel centro storico, e ogni giorno vedo un microcosmo di culture dipanarsi davanti ai miei occhi», spiega entusiasta della vitalissima scena artistica napoletana attuale. «È un contesto animato dalle sperimentazioni e dalle iniziative di singoli e collettivi interdisciplinari, che indagano il materiale sul piano locale e lo collegano con le istanze teoriche e culturali trans-nazionali del nostro tempo. La mostra che abbiamo in corso, Utopia Distopia; il mito del progresso partendo dal Sud, ne rappresenta le molteplici sfaccettature e i linguaggi. Diversi artisti nati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, dopo aver sentito la necessità di lasciare la città, oggi vi fanno
insieme ai musei e alle università del Sud. Abbiamo collaborato con artisti quali Kiefer, Paolini, Pomodoro, Adami. A maggio 2022 poi avremo lo spettacolo 7 Deaths of Maria Callas, di Marina Abramović: una co-produzione internazionale che unisce video e performance live». Al di là degli stereotipi, Napoli è anche pragmatica capacità di recupero e di reinvenzione “dal basso”. Ne sono una testimonianza i numerosi street artist, capaci di trasformare le aree degradate in nuovi panorami urbani. «Un processo già verificatosi a Roma, New York o Mosca», nota Jorit Agoch, che ha iniziato con le bombolette a 13 anni nella stazione di Quarto Officina. «Perfetto esempio è il “Bronx” di San Giovanni a Teduccio, periferia est: la gente ci stava alla larga, e chi vi abitava non se ne vantava. Oggi le stesse persone dicono con orgoglio: “Abito dove c’è il murales di Maradona e del Che!”». Anche Luca Zeus40 ha iniziato a dipingere i muri delle periferie vent’anni fa, e avverte: «Per mantenere la sua funzione la street art deve essere inclusiva e coinvolgere gli abitanti, le associazioni e le cooperative che vivono il territorio, sennò si tratta soltanto di disegni senza un reale significato. I miei progetti più belli sono quelli in cui hanno partecipato i ragazzi: l’opera finale, di solito, era un mix di tutte le loro proposte». Stessa filosofia quella di Davide De Blasio, della Fondazione
Made in Cloister, che ha riqualificato l’area di Porta Capuana e riconsegnato alla fruizione pubblica il chiostro cinquecentesco di Santa Caterina, ponendolo al centro di un programma culturale che vede protagonisti artisti come Laurie Anderson. «Il ruolo dell’arte nella rigenerazione urbana è noto. Ma affinché produca effetti concreti in programmi come il nostro – e cioè che non prevedono gentrificazione – è necessario il continuo coinvolgimento di tutta la comunità locale». Anche Gian Maria Tosatti, artista romano che vive tra New York e Napoli, dove ha lo studio, crede fortemente nel ruolo sociale – anzi, umano – dell’arte. «I luoghi di Napoli sono gli uomini. Se dico “Forcella” non intendo mai il quartiere, ma sempre la sua comunità. Ognuno qui è un luogo in cui perdersi. Ma soprattutto un luogo che accetta che tu ti perda in esso. Il mio lavoro mi obbliga a vivere all’estero almeno per 8 mesi all’anno. Questo mi consente di controllare il mio rapporto con la città senza esserne vittima». Libera, aperta e accogliente come Napoli è pure la piattaforma Residency 80121: spazio espositivo, residenza per artisti, libreria condivisa che Raffaela Naldi Rossano, dopo gli studi a Londra, ha realizzato nella casa abbandonata di sua nonna. «L’intenzione era dialogare con il mio territorio di appartenenza e creare collettivi temporanei, sperimentando in vari luoghi della città e della penisola campana, insieme ad altri artisti, ricercatori interdisciplinari, curatori, ideando eventi e mostre ad hoc per nuove e fluide modalità dello stare insieme, oltre le separazioni delle generazioni precedenti». Già, le generazioni precedenti. Sono loro ad aver visto nascere e crescere la straordinaria vivacità artistica che contraddistingue oggi il capoluogo. Se sia cambiato è meglio chiederlo a un testimone eccezionale: il fotografo Mimmo Jodice, classe 1934. «Dopo questi due anni di forzata chiusura, la città sembra esplodere di bellezza: musei e gallerie espongono una quantità eccezionale di giovani talentuosi». Lui che nel 1980 ha pubblicato il libro Vedute di Napoli, la guarda con gli stessi occhi? «Oggi è diversa e anch’io lo sono. Allora c’erano sogni, desideri, passioni giovanili. Ora c’è l’accettazione del cambiamento e il desiderio di solitudine. Ad attrarmi sono i luoghi nascosti che racconto nel mio ultimo lavoro che chiamo Attesa, ma anche Assenza». Perché Napoli è tutto e il suo contrario: «Luminosa e oscura, silenziosa ma mai quieta, tranquilla ma sempre percorsa da un filo di eccitazione sensuale». (Ha collaborato Maddalena Iodice)