Terrae Motus
Il museo come simbolo politico, sociale e civile. Così due mecenati, collezionisti, comunicatori raffinatissimi, Marcello Rumma e Lucio Amelio, hanno rivoluzionato il concetto stesso di spazio espositivo. E uno dei loro progetti, dedicato ai tragici eventi che colpirono l’Irpinia nel 1980, è oggi nelle sale di Capodimonte.
L’arte contemporanea è una tradizione di Napoli. Una città da sempre aperta al nuovo, al melting pot di culture e di linguaggi, che non solo l’ha accolta, ma ha contribuito a radicarla nel tempo e nel sapere collettivo, trasformandola in un suo tratto distintivo e in un’autentica ragione di orgoglio. È una storia, questa, che ha origine tra gli anni Sessanta e Settanta, con figure come Marcello Rumma e Lucio Amelio, scomparse entrambe prematuramente, ma mai dimenticate. Ed è una storia che include molti altri artefici non meno significativi. Per esempio, Graziella Lonardi Buontempo, collezionista, mecenate e organizzatrice di eventi espositivi importanti come Vitalità del negativo e Contemporanea,a cura di Achille Bonito Oliva. Oppure il mecenate Giuseppe Morra, che ha sostenuto la ricerca dell’Azionismo Viennese e della Body Art, raccogliendo negli anni una quantità senza eguali di opere, reperti e documenti sul tema. Cultori del contemporaneo che con le loro coraggiose iniziative hanno alimentato e accresciuto la reputazione internazionale della città, aprendo la strada a un futuro straripante di artisti e gallerie, interessanti attività museali, straordinarie collezioni.
Ne ho parlato con Andrea Viliani, che a partire dal 2012 e per sette anni ha diretto il Museo Madre, per indagare con il suo aiuto il rapporto che lega Napoli all’arte del secondo Novecento. E per comprendere meglio il contributo di alcuni grandi iniziatori a una tale collettiva consapevolezza.
«Ho notato a un certo punto che in questa città il museo non viene considerato solo per la sua funzione culturale, ma anche per la sua funzione di simbolo politico, sociale, civile. Mi chiesi dunque abbastan
za presto da dove venisse quel tipo di identificazione della comunità con il museo. E una risposta, nello studiare la storia dell’arte contemporanea a Napoli, me l’hanno data due persone alle quali ho poi voluto dedicare una mostra d’impianto archivistico-documentario: Marcello Rumma e Lucio Amelio».
E mi introduce così a trascorsi legati al contributo di mecenati, prima e più ancora che collezionisti, come fu appunto il salernitano Marcello Rumma, ideatore della Rassegna Internazionale d’Arti Figurative di Amalfi, editore di libri firmati Duchamp o Pistoletto, ma anche amante delle opere di Dan Flavin, Pino Pascali o Robert Rauschenberg raccolte insieme con la consorte Lia, che dopo la sua scomparsa a soli 27 anni ne ha accolto l’eredità, trasformandosi in una delle art dealer più reputate del pianeta. Trascorsi legati inoltre a imprenditori culturali ante litteram e comunicatori raffinatissimi come Lucio Amelio, che con la sua profonda conoscenza delle lingue non ha mancato d’instaurare relazioni progettualmente fruttuose con artisti di grande levatura internazionale come Warhol o Beuys, trasformandoli in ospiti abituali della Modern Art Agency da lui fondata a Napoli nel 1965. E coinvolgendoli successivamente nel progetto Terrae Motus, dedicato al Vesuvio e al terremoto in Irpinia del 1980.
«Con loro il museo ha finito di essere una semplice istituzione», continua Viliani, «ma si è trasformato in luogo d’incontro, di dibattito e di collettiva identificazione». Non senza avere contribuito a esportare Napoli nel mondo.
Art dealer delle nuove generazioni, Giangi Fonti ripercorre i molti viaggi intorno al mondo compiuti da bambino insieme ai genitori. E tra questi una visita al MoMA di New York a 13-14 anni. «Mi ricordo ancora che dalla scala mobile ho scorto tre grandi serigrafie di Warhol con la prima pagina de Il Mattino e il grande titolo “Fate presto”, dedicato all’Irpinia. Ecco quel momento mi è rimasto dentro e forse ha influenzato il mio futuro».
Oggi la collezione Terrae Motus è esposta permanentemente nelle sale del Museo di Capodimonte e resta, per i napoletani, un capitale collettivo e transgenerazionale.