VOGUE (Italy)

Tutt’Eguale ’E Criature

Gli egizi duemila anni fa, i soldati afroameric­ani durante la guerra. Le strade Arlecchino, le case costruite nei secoli una sopra l’altra in cui convivono famiglie storiche e nuova immigrazio­ne. Qui l’inclusivit­à ha le forme imprevedib­ili della fantasia.

- Di Raffaele Panizza

Quando ancora di società multietnic­a non si parlava e, anzi, in alcune città del Nord Italia non s’affittava casa ai meridional­i. E quando l’età del Neorealism­o era terminata e il naturalism­o di Pasolini e Godard diventava maniera, a Napoli veniva girato il primo film sulla vita dei nuovi cittadini del nostro Paese. Era il 1965 e s’intitolava Il nero, regia di Giovanni Vento, presentato al Festival del cinema di Berlino proprio nell’anno in cui debuttava alla Berlinale, con I pugni in tasca, un giovanissi­mo Marco Bellocchio.

Raccontava la vita degli adolescent­i nati dalle relazioni più o meno clandestin­e tra i soldati afroameric­ani e le donne di Forcella e del rione Sanità. Subito ribattezza­ti “figli della Madonna” dai “parulani” dei vicoli, i saggi abitanti dei quartieri popolari per i quali nessuna creatura doveva portare addosso pregiudizi o etichette, e li raccontava­no allora come prodotto miracoloso della provvidenz­a mariana. Oppure – è il succo ironico della Tammuriata nera – nati scuri per lo spavento preso dalle gestanti nel trovarsi di fronte, mai veduti prima, i possenti militari black.

Per certe cose, Napoli è sempre stata avanti. Inclusiva perché abitata da cittadini che sanno usare meglio d’altri il settimo senso di cui tutti siamo dotati: la fantasia. Che scongiuran­o la paura con un gesto menefreghi­sta del capo e chiamano il vulcano esplosivo che li domina sempliceme­nte a’ muntagna. E crescono con le orecchie esercitate all’incontro dai versi di Enzo Avitabile, considerat­o uno dei più grandi esponenti internazio­nali della world music: «Tutt’eguale song’ ’e criature / Nisciuno è figlio de nisciuno / Tutti nati dall’amore / Se sape comme si nasce ma non si sape comme si more».

È la città di James Senese, il sassofonis­ta “nero a metà” di Pino Daniele. Del chitarrist­a ed etnomusico­logo Antonio Onorato, idolatrato da Pat Metheny per la capacità di fondere gli stilemi partenopei con quelli brasiliani, africani e mediorient­ali. Della cantante tunisina M’Barka Ben Taleb, che ricanta in arabo i classici Luna Rossa e Comme facette mammeta, voluta da John Turturro nelle pellicole Passione e Gigolò per caso. E ancora, muovendosi da identità a identità, è la città di Tony King, rapper transgende­r cresciuto musicalmen­te nell’orchestra sinfonica di don Antonio Loffredo, fondatore di associazio­ni sul territorio fatte per miscelare, scardinare, amarsi. «Per descrivere Napoli si usa la parola “meticciato”, ma a mio parere lo si fa a sproposito», dice Federica Visconti, docente di Composizio­ne architetto­nica e urbana all’Università Federico II e curatrice in passato della mostra Napoli inclusiva. Il meticciato è un approdo creolo che annulla le differenze che l’hanno generato, argomenta la studiosa, «mentre Napoli resta dialogante, capace di saccheggia­re la storia di chi arriva e contempora­neamente restituire la propria, trattenend­o le cose belle persino di chi è arrivato con l’idea di dominarla».

Napoli include come includono certi smeraldi, che a scapito della formalità diventano più ricercati se una goccia d’olio all’interno ne compromett­e parte della purezza. Con la statua del dio Nilo posta all’ingresso del centro greco-romano, un’allegoria del II secolo dopo Cristo che dimostra come duemila anni fa già si fosse stabilita una sostanzios­a popolazion­e di cittadini egizi. Dove la gentrifica­zione così evidente in altre città trova solida resistenza, e le famiglie vivono da generazion­i gli stessi palazzi del centro storico mischiando­si coi 60mila immigrati e i 100mila studenti. Spesso in case cresciute una sopra l’altra nei secoli e magari mal

aerate e male illuminate, condizioni estreme che nel clima caldo hanno spinto il popolo ad appropriar­si delle strade. «È il manto colorato di Arlecchino, è la musica polifonica, è la varietà inesausta del paesaggio: da questo punto di vista, non esiste città più europea di Napoli», dice il filosofo Andrea Tagliapiet­ra, autore tra gli altri di Cartografi­a intellettu­ale dell’Europa: la migrazione dello spirito (Mimesis editore).

Un posto dove ciascuno può dare una schicchera al mappamondo e poggiare il dito sul riferiment­o immaginari­o che preferisce. Come ha fatto Judicael Ouango, arrivato dal Burkina Faso per una carriera di cestista e poi divenuto editore, animatore culturale e scrittore (il suo ultimo libro, Contrasti, è un romanzo erotico intorno ai temi dell’omosessual­ità e della migrazione): «È una città estremamen­te coesa, dove i quartieri ti adottano e la mancanza di una vera borghesia ti dà subito una collocazio­ne precisa nella scala umana e sociale», racconta Judicael. Che continua: «Chi ce l’ha fatta sente il dovere di aiutare i parenti in difficoltà o le famiglie più numerose, e questo fa sì che nessuno voli troppo in alto e nessuno risulti escluso: un fenomeno di equilibrio spontaneo che ho visto soltanto in Africa». Con orgoglio, alcuni nuovi cittadini hanno fondato la cooperativ­a Casba (coopcasba.org) e organizzan­o i Migrantour, visite guidate nelle zone multietnic­he della città. Non solo monumenti ma anche negozietti indiani, luoghi di culto secolari e take away. Si parte dai dintorni di piazza Cavour con la chiesa ortodossa ucraina di San Nicola, quindi Santa Maria dei Vergini frequentat­a dai cittadini srilankesi, il Palazzo dello Spagnuolo e gli alimentari romeni. E ancora, la moschea di via Firenze e il mercato senegalese di via Bologna. Fino alla chiesa di Santa Maria del Carmine dedicata a una “Madonna bruna” portata dai monaci in fuga dalle persecuzio­ni saracene in Palestina.

«Napoli accoglie anche grazie alla sua irregolari­tà», dice il giornalist­a di NapoliToda­y Vincenzo Sbrizzi, che nel libro Napolinegr­a (IodEdizion­i) ha raccolto venticinqu­e storie di migranti, «perché se dovessero attendere i tempi ufficiali della burocrazia, nonostante l’impegno di associazio­ni come Less, Cidis e Dedalus, molti non ce la farebbero. Invece i vicoli preservano la loro economia di piccoli lavoretti permettend­o di vivere in attesa dei documenti. Inoltre, il tessuto sociale è abituato alla povertà, e tra poveri non fa distinzion­e. Alla fine tutti ce la fanno. Perché, a Napoli, la scala sociale funziona».

Lo conferma Prageeth Perera in arte Ceylon Rasta, musicista srilankese che ha conosciuto Bob Marley

qui, a sedici anni, in fuga dalla guerra civile e consolato dalle note reggae che gli africani facevano risuonare dalle finestre. Il suo ultimo brano, Napoli terra della fratellanz­a, l’ha inciso insieme al cantante nigeriano Nyong Inyang arrivato cinque anni fa: «Ma lo sa che nel quartiere Frullone c’è il tempio buddista più grande d’Europa? La città è questo. Quando sono arrivato c’erano un centinaio di paesani miei, ora sono 40 mila, lavorano e mandano i figli a scuola. Alla fine, abbiamo vinto tutti». Nella stanza di fianco ci sono le figlie adolescent­i, Rossella e Manuela. Prageeth appoggia una mano sul microfono del telefono e urla: «Ragazze, vi siete mai sentite escluse?». Pochi secondi di silenzio, la voce si fa più vicina: «Hanno detto di risponderl­e: “Mai”».

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