Tutt’Eguale ’E Criature
Gli egizi duemila anni fa, i soldati afroamericani durante la guerra. Le strade Arlecchino, le case costruite nei secoli una sopra l’altra in cui convivono famiglie storiche e nuova immigrazione. Qui l’inclusività ha le forme imprevedibili della fantasia.
Quando ancora di società multietnica non si parlava e, anzi, in alcune città del Nord Italia non s’affittava casa ai meridionali. E quando l’età del Neorealismo era terminata e il naturalismo di Pasolini e Godard diventava maniera, a Napoli veniva girato il primo film sulla vita dei nuovi cittadini del nostro Paese. Era il 1965 e s’intitolava Il nero, regia di Giovanni Vento, presentato al Festival del cinema di Berlino proprio nell’anno in cui debuttava alla Berlinale, con I pugni in tasca, un giovanissimo Marco Bellocchio.
Raccontava la vita degli adolescenti nati dalle relazioni più o meno clandestine tra i soldati afroamericani e le donne di Forcella e del rione Sanità. Subito ribattezzati “figli della Madonna” dai “parulani” dei vicoli, i saggi abitanti dei quartieri popolari per i quali nessuna creatura doveva portare addosso pregiudizi o etichette, e li raccontavano allora come prodotto miracoloso della provvidenza mariana. Oppure – è il succo ironico della Tammuriata nera – nati scuri per lo spavento preso dalle gestanti nel trovarsi di fronte, mai veduti prima, i possenti militari black.
Per certe cose, Napoli è sempre stata avanti. Inclusiva perché abitata da cittadini che sanno usare meglio d’altri il settimo senso di cui tutti siamo dotati: la fantasia. Che scongiurano la paura con un gesto menefreghista del capo e chiamano il vulcano esplosivo che li domina semplicemente a’ muntagna. E crescono con le orecchie esercitate all’incontro dai versi di Enzo Avitabile, considerato uno dei più grandi esponenti internazionali della world music: «Tutt’eguale song’ ’e criature / Nisciuno è figlio de nisciuno / Tutti nati dall’amore / Se sape comme si nasce ma non si sape comme si more».
È la città di James Senese, il sassofonista “nero a metà” di Pino Daniele. Del chitarrista ed etnomusicologo Antonio Onorato, idolatrato da Pat Metheny per la capacità di fondere gli stilemi partenopei con quelli brasiliani, africani e mediorientali. Della cantante tunisina M’Barka Ben Taleb, che ricanta in arabo i classici Luna Rossa e Comme facette mammeta, voluta da John Turturro nelle pellicole Passione e Gigolò per caso. E ancora, muovendosi da identità a identità, è la città di Tony King, rapper transgender cresciuto musicalmente nell’orchestra sinfonica di don Antonio Loffredo, fondatore di associazioni sul territorio fatte per miscelare, scardinare, amarsi. «Per descrivere Napoli si usa la parola “meticciato”, ma a mio parere lo si fa a sproposito», dice Federica Visconti, docente di Composizione architettonica e urbana all’Università Federico II e curatrice in passato della mostra Napoli inclusiva. Il meticciato è un approdo creolo che annulla le differenze che l’hanno generato, argomenta la studiosa, «mentre Napoli resta dialogante, capace di saccheggiare la storia di chi arriva e contemporaneamente restituire la propria, trattenendo le cose belle persino di chi è arrivato con l’idea di dominarla».
Napoli include come includono certi smeraldi, che a scapito della formalità diventano più ricercati se una goccia d’olio all’interno ne compromette parte della purezza. Con la statua del dio Nilo posta all’ingresso del centro greco-romano, un’allegoria del II secolo dopo Cristo che dimostra come duemila anni fa già si fosse stabilita una sostanziosa popolazione di cittadini egizi. Dove la gentrificazione così evidente in altre città trova solida resistenza, e le famiglie vivono da generazioni gli stessi palazzi del centro storico mischiandosi coi 60mila immigrati e i 100mila studenti. Spesso in case cresciute una sopra l’altra nei secoli e magari mal
aerate e male illuminate, condizioni estreme che nel clima caldo hanno spinto il popolo ad appropriarsi delle strade. «È il manto colorato di Arlecchino, è la musica polifonica, è la varietà inesausta del paesaggio: da questo punto di vista, non esiste città più europea di Napoli», dice il filosofo Andrea Tagliapietra, autore tra gli altri di Cartografia intellettuale dell’Europa: la migrazione dello spirito (Mimesis editore).
Un posto dove ciascuno può dare una schicchera al mappamondo e poggiare il dito sul riferimento immaginario che preferisce. Come ha fatto Judicael Ouango, arrivato dal Burkina Faso per una carriera di cestista e poi divenuto editore, animatore culturale e scrittore (il suo ultimo libro, Contrasti, è un romanzo erotico intorno ai temi dell’omosessualità e della migrazione): «È una città estremamente coesa, dove i quartieri ti adottano e la mancanza di una vera borghesia ti dà subito una collocazione precisa nella scala umana e sociale», racconta Judicael. Che continua: «Chi ce l’ha fatta sente il dovere di aiutare i parenti in difficoltà o le famiglie più numerose, e questo fa sì che nessuno voli troppo in alto e nessuno risulti escluso: un fenomeno di equilibrio spontaneo che ho visto soltanto in Africa». Con orgoglio, alcuni nuovi cittadini hanno fondato la cooperativa Casba (coopcasba.org) e organizzano i Migrantour, visite guidate nelle zone multietniche della città. Non solo monumenti ma anche negozietti indiani, luoghi di culto secolari e take away. Si parte dai dintorni di piazza Cavour con la chiesa ortodossa ucraina di San Nicola, quindi Santa Maria dei Vergini frequentata dai cittadini srilankesi, il Palazzo dello Spagnuolo e gli alimentari romeni. E ancora, la moschea di via Firenze e il mercato senegalese di via Bologna. Fino alla chiesa di Santa Maria del Carmine dedicata a una “Madonna bruna” portata dai monaci in fuga dalle persecuzioni saracene in Palestina.
«Napoli accoglie anche grazie alla sua irregolarità», dice il giornalista di NapoliToday Vincenzo Sbrizzi, che nel libro Napolinegra (IodEdizioni) ha raccolto venticinque storie di migranti, «perché se dovessero attendere i tempi ufficiali della burocrazia, nonostante l’impegno di associazioni come Less, Cidis e Dedalus, molti non ce la farebbero. Invece i vicoli preservano la loro economia di piccoli lavoretti permettendo di vivere in attesa dei documenti. Inoltre, il tessuto sociale è abituato alla povertà, e tra poveri non fa distinzione. Alla fine tutti ce la fanno. Perché, a Napoli, la scala sociale funziona».
Lo conferma Prageeth Perera in arte Ceylon Rasta, musicista srilankese che ha conosciuto Bob Marley
qui, a sedici anni, in fuga dalla guerra civile e consolato dalle note reggae che gli africani facevano risuonare dalle finestre. Il suo ultimo brano, Napoli terra della fratellanza, l’ha inciso insieme al cantante nigeriano Nyong Inyang arrivato cinque anni fa: «Ma lo sa che nel quartiere Frullone c’è il tempio buddista più grande d’Europa? La città è questo. Quando sono arrivato c’erano un centinaio di paesani miei, ora sono 40 mila, lavorano e mandano i figli a scuola. Alla fine, abbiamo vinto tutti». Nella stanza di fianco ci sono le figlie adolescenti, Rossella e Manuela. Prageeth appoggia una mano sul microfono del telefono e urla: «Ragazze, vi siete mai sentite escluse?». Pochi secondi di silenzio, la voce si fa più vicina: «Hanno detto di risponderle: “Mai”».