Sfatiamo Un Mito
Vanno oltre la celebrazione dei cliché locali i fotografi e gli stylist che hanno realizzato i servizi di moda di questo numero. In cui provano a cogliere, per quanto possibile, l’identità mutevole di una città immortale.
Qualcuno guarda piazze e vie con gli occhi di chi, quando è lontano, tratteggia panorami ideali; altri ogni giorno abitano, osservano e vivono la città. Poco conta, per tutti Napoli è una realtà viva, pulsante, stratificata, che riempie lo sguardo e non può essere relegata a mera cornice o set. Basta sbirciare dietro le quinte degli scatti realizzati per questo numero di Vogue Italia: volti reali – i protagonisti che danno corpo e respiro alle narrazioni sono stati scelti durante street casting –, echi del mito e snapshot tracciano itinerari reali o metaforici, condensati tra le pagine. Abbiamo chiesto alle coppie creative che hanno raccontato il loro legame con Napoli di farlo anche a parole, svelando la genesi dei loro progetti.
Per la fotografa napoletana Eleonora d’Angelo tutto inizia da un capovolgimento di prospettiva: «Credo che, negli ultimi tempi, ci sia una sorta di glamourizzazione di alcuni cliché locali, rumori e suggestioni street in primis. Volevamo dipingere un’immagine diversa, e che le nostre foto ci rispecchiassero in quanto donne che vivono e lavorano qui. Per questo abbiamo cercato di cogliere la bellezza del mito». La leggenda di Partenope, che riporta alle origini della città, viene tradotta in chiave moderna. «Non esiste un’unica forma di espressione, la sirena può assumere ogni aspetto e ogni età», prosegue la stylist Francesca Donnarumma che, nata e cresciuta nella penisola sorrentina, ora vive a Milano. «Le nostre sirene non sono perfette ma meravigliose, è questo il messaggio. Abbiamo voluto evitare ciò che sporca il cuore nevralgico della città e ricordare che, da qui, provengono tradizioni molto alte, di sartoria, musica e letteratura».
Un’ottica che riporti figure femminili al centro della narrazione collettiva ha ispirato anche gli sguardi incrociati del fotografo Marco Imperatore, originario di Pozzuoli e da anni a Milano, e della stylist campana Mariaelena Morelli, che da Parigi dove vive spiega: «Abbiamo scavato nell’iconografia della donna partenopea, nei secoli ha avuto un ruolo centrale nel panorama storico, sociale, religioso». Alla ricerca del punto in cui la lingua (detti popolari annessi) diventa immagine. «Negli scatti ci sono, mescolate, figure bibliche come Maria Maddalena, versi di Pino Daniele e modelle androgine metà partenopee e metà irlandesi». Il punto
di vista è vicinissimo all’occhio che guarda, quasi autobiografico: «Ho rappresentato una Napoli che mi manca sempre quando sono via», aggiunge Imperatore. «Una città di tramonti bollenti, più cromatica che sonora o rumorosa. Il lato street non intercetta il mio vissuto. La mia è una visione di terrazze e scorci di mare, le stesse che hai mentre, in piena notte, da ragazzo, ti siedi sugli scogli».
I rapporti tra ricordi e luoghi, performance e vita di cui il set è metafora sono stati il punto di partenza per il fotografo Carmine Romano e la stylist Roberta Astarita. La messinscena, ideata a quattro mani, è un omaggio alla tradizione del matrimonio napoletano, non ipertrofica ma realistica, elegante e fuori dagli schemi al tempo stesso. «Siamo fidanzati e da sempre volevamo realizzare un progetto così. Carmine, poi, è stato assistente di un fotografo di matrimoni molto noto, Oreste Pipolo, e abbiamo pensato di omaggiarlo», spiega Astarita. «Cercavamo il romanticismo di chiese e veli», dice Romano. Poi, dopo il primo scatto, tutto (segue)
diventa reale. «Il set si è trasformato in una vera famiglia che comprendeva le nostre madri, gli amici, una coppia lesbica, seconde generazioni e anche uno zio che raccontava il suo vero matrimonio alla modella che impersonava la sposa». Una community per cui la tradizione è solo il punto di inizio.
Un simile senso di liberazione da gabbie sociali si respira anche negli scatti di Jo Fetto, nato e cresciuto in Campania ma londinese fin dai 17 anni. «Il mio immaginario indaga, spesso, la queerness. Siamo stanchi della Napoli machista, c’è una concreta cultura queer in città, volevamo raccontarla e, allo stesso tempo rendere omaggio ai caratteri forti che ci hanno ispirato durante l’infanzia». Ecco la genesi delle foto che seguono i gesti di donne ultra-glam ed eccentriche, poco conta se in corpi non-binary. «Gioco con il reale, abbiamo scattato in scenari da cartolina ma anche nel posto in cui ho dato il mio primo bacio», prosegue Fetto tra memoria e finzione artistica. «La forza di carattere delle donne rappresentate è qualcosa di visibile a fior di pelle, esteriore come il make-up», dice lo stylist napoletano Damiano Riccio che ha lavorato al progetto. «Anche i volti sono odierni. È la Napoli di oggi, un melting pot culturale molto inclusivo».
L’elemento di realtà innestato in una storia è fondamentale per l’incontro creativo tra il fotografo inglese Sam Gregg e lo stylist e creative director Riccardo Maria Chiacchio: «In inglese diciamo “The devil is in the details…”», spiega Gregg, «i dettagli sono tutto. Sono ossessionato da questa città, ogni cosa è per me “poco Napoli” quando sono altrove. Conosco benissimo le strade – dove mi sento molto più al sicuro che a Londra – e i volti della gente, cerco di immergermi nella cultura ogni giorno. I rapporti umani che si creano tra le parti in gioco scattando un’immagine sono tutto», spiega. Chiacchio, nato e cresciuto a Napoli, chiosa: «Anche per me tutto inizia dai particolari, icone religiose che portano i segni di tradizioni culturali antichissime, dipinti su giacche che solo letti insieme trovano un senso – un’ode all’unione –, o micro-Vesuvi tenuti in mano, quasi a sconfiggere stereotipi e ataviche paure».