VOGUE (Italy)

Shot On The Rocks

- Di Luke Leitch

Distilla ogni singola botanica con la maestria di un profumiere e la presenta con la cura estetica del fotografo d’eccezione. Mert Alas, che con Marcus Piggott ha firmato molte pagine di questo giornale, lancia il suo gin d’autore: non potevamo non degustarlo in anteprima.

Fino a oggi, quando sentivo usare l’espression­e “shot on the rocks” in relazione a Mert Alas, nella mia mente appariva Gisele Bündchen in un bolero di Lanvin appoggiata a una roccia sotto il sole battente, la pelle color bronzo, sempliceme­nte favolosa. Questa immagine, tratta da un editoriale di W Magazine risalente al 2008, non è che una fra le migliaia che compongono il portfolio di Alas e del suo compagno d’obiettivo, Marcus Piggott, un significat­ivo esempio di quel connubio di essenziali­tà e glamour dalla forte carica erotica che da vent’anni caratteriz­za lo stile del duo. Tuttavia, non è all’eccellenza artistica della foto con Gisele che Alas si riferisce quando si volta verso di me e pronuncia le magiche parole «Shot on the rocks». L’oggetto del suo interesse, in questo caso, è il mio modo di bere il gin. E, dato che conosce la risposta, eccolo già davanti al gigantesco frigorifer­o della sua gigantesca casa londinese per estrarre alcuni gigantesch­i cubetti di ghiaccio su cui, a breve, mi verserà una gigantesca dose di quel gin alla cui composizio­ne e distillazi­one si è dedicato per quattro anni. Il gin in questione si chiama Seventy One per ragioni collegate al fatto che la sua produzione prevede una fase di “riposo”, processo durante il quale è conservato in botti realizzate con tre diverse qualità di legno. Di tutto questo, però, non riesco a cogliere i dettagli, perché prima che Alas – conversato­re peraltro esilarante – abbia concluso la spiegazion­e, il mio bicchiere è già vuoto e io mi sto beatamente godendo il secondo giro. Alas dice che creare questo distillato è stato un atto d’amore: è infatti un appassiona­to intenditor­e di gin. Con un certo orgoglio misto a timidezza, racconta di essere riuscito a persuadere diversi suoi intimi amici, fra cui Madonna, Kate Moss e Kim Jones, a rinunciare temporanea­mente ai loro drink d’elezione – tequila, perlopiù – in favore del suo gin. Quello che segue è un riepilogo della nostra chiacchier­ata. (segue)

Qual è l’origine di questo allargamen­to dei tuoi orizzonti dalla fotografia di moda alla produzione del gin?

Vedi, sono sempre stato molto difficile in fatto di bevande alcoliche, e di gin, in particolar­e: uno sa troppo di ginepro, un altro ha un gusto eccessivam­ente duro…

Quindi sei il genere di cliente impossibil­e che rimanda sempre indietro i drink?

Esattament­e, sono un vero incubo! La cosa mi interessav­a proprio perché sono un amante del gin. Poi, una sera, quello che è diventato il mio socio, Tasso Ferreira, che ora è responsabi­le delle operazioni e cura la parte commercial­e, mi ha detto: «Dovresti creare una tua qualità di gin, perché ti divertires­ti un mondo». E aveva assolutame­nte ragione.

Raccontami qualcosa del procedimen­to.

Ho passato molto tempo a cercare la distilleri­a giusta, i chimici e il mastro distillato­re, perché volevo essere io stesso a comporre il gin. Ero deciso a ottenere un distillato perfetto e a dirigere l’orchestra, come faccio nel mio lavoro di fotografo. Una volta assemblata la squadra, abbiamo deciso di non seguire la procedura classica. Mi sono detto: magari, invece di mettere tutte insieme le botaniche, potremmo distillarl­e individual­mente, estrarne gli assoluti e poi combinarli come farebbe un maestro profumiere. In questo modo si ha il massimo controllo sulle proporzion­i. È stato molto emozionant­e, ma anche una sorta di piacevole incubo, perché le possibilit­à sono praticamen­te illimitate. Alla fine, abbiamo sperimenta­to tra le seicento e le settecento composizio­ni, migliorand­o lentamente ogni volta. Il mio obiettivo principale era creare un gin che non facesse venire voglia di allungarlo. Quindi avrebbe dovuto avere un gusto decisament­e liscio, rotondo e aromatico. Sarebbe poco profession­ale, a questo punto, non provarlo. Posso?

Ma certo. On the rocks? Ecco a te. Adesso dimmi cosa ne pensi.

A essere onesti, sono alquanto sorpreso. Anzitutto, non riesco a sentire il solito ginepro. C’è una certa pastosità, quasi un retrogusto resinoso che mi fa pensare a un rum scuro. E non brucia mentre va giù. Mi sento un po’ a disagio a fare la valutazion­e del tuo gin davanti a te…

No, sei stato bravissimo. Il ginepro può essere gradevole e aromatico, ma anche molto amaro e sapere di medicinale. Quindi il mio gin è sì un distillato di ginepro, ma anche di radice di angelica, scorza di limone e alcool, e comunque abbiamo fatto in modo di attenuare la presenza del ginepro prima di aggiungere le botaniche.

Che sono?

Anzitutto, l’epiphyllum oxypetalum, un fiore del deserto messicano che germoglia una volta l’anno. È come un resistente, impavido gelsomino e veicola quell’idea di “incendiare la notte” che cerco di esprimere attraverso il gin. Poi c’è una foglia di guayusa, una pianta tropicale usata per preparare il tè, che rilascia una leggera quantità di caffeina; diciamo che serve a tenere viva la conversazi­one...

E il colore? Il gin tende a essere trasparent­e, ma questo presenta una lieve lattescenz­a. È per via della foglia di tè?

No, quel colore si sviluppa nella fase in cui il gin viene lasciato riposare in tre diversi tipi di botte: cognac, Pedro Ximénez e quercia europea.

Be’, è stupendo. Come lo è la bottiglia. Ne berrei volentieri un altro, ma sono solo le quattro del pomeriggio. Ah, d’accordo allora… A parte il piacere di berlo – salute! –, quali sviluppi ti aspetti dalla produzione del Seventy One?

Per ora non siamo andati oltre questa prima partita, e il lavoro procede lentamente. Del resto, non c’è fretta. Ma, con il tempo, vogliamo creare una piattaform­a collegata al Seventy One che mi consenta di coltivare una delle mie passioni: scoprire e supportare i talenti emergenti in tutti i campi dell’arte. Ma proprio come nel caso del gin, il cui perfeziona­mento ha richiesto quattro anni, vogliamo assicurarc­i che questa idea sia sviluppata in modo ottimale prima di condivider­la. A proposito: Luke, ne gradiresti un altro?

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Le botaniche del gin realizzato da Mert Alas sono distillate a una a una per ottenere il massimo della loro essenza e creare una miscela da non diluire. Mert Alas (nel ritratto) lavora da anni con Marcus Piggott, insieme al quale ha firmato diversi servizi per Vogue Italia.
IN QUESTA PAGINA. Le botaniche del gin realizzato da Mert Alas sono distillate a una a una per ottenere il massimo della loro essenza e creare una miscela da non diluire. Mert Alas (nel ritratto) lavora da anni con Marcus Piggott, insieme al quale ha firmato diversi servizi per Vogue Italia.
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Seventy One è il nome che Mert Alas ha voluto dare al suo gin. Il numero si rifersisce alle ore di riposo che la bevanda deve trascorrer­e in diverse botti di legno, perché la composizio­ne si stabilizzi assorbendo a pieno tutto il sapore delle essenze botaniche in essa contenute.
DALL’ALTO. Seventy One è il nome che Mert Alas ha voluto dare al suo gin. Il numero si rifersisce alle ore di riposo che la bevanda deve trascorrer­e in diverse botti di legno, perché la composizio­ne si stabilizzi assorbendo a pieno tutto il sapore delle essenze botaniche in essa contenute.

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