Controcanto
Numero di settembre, nuovi inizi: una coppia incorruttibile, immarcescibile, piena di senso – scolastico in primis – che pur tuttavia inclina all’ovvio, al prevedibile, stanca e opaca come le nozze inoppugnabilmente stabilite a priori e su editto divino per i blasonati rampolli di auguste famiglie, e i relativi patrimoni da salvaguardare. Trascuriamo il pleonasmo: ogni inizio è per forza di cose nuovo, altrimenti di che inizio si tratta? Non è in ogni caso il tema del restart a infastidire, ma quel nuovo ripetuto ad infinitum e ad nauseam che non sembra avere oramai grande significato. Lo si applica a ogni cosa, soprattutto a quelle che nuove non sono. Fine della lamentatio. Perché, pur stando così le cose, c’è poco da cavillare, battibeccare e storcere il naso. Nuovo è il valore massimo, l’aggettivo sommo, il pungolo affilatissimo e infallibile quando di moda si parla, e bisogna accettarlo, che piaccia o meno, che convinca o meno. In fashionlandia ogni cosa è nuovo inizio, per apotropaica tendenza ad allontanar la morte o solo la paura di invecchiare con un cambio di sembiante e un nuovo look fiammeggiante. Cotanto rinnovare trova in settembre il suo apogeo – mercantile, di certo, ma ça va tout bien. In barba al calendario gregoriano, il nono mese dell’anno della moda è gennaio, l’incipit, l’alfa, il contatore resettato, il foglio bianco, la risma intonsa e tutto quello che istiga ad adottare nuove sembianze e invero a spendersi e spandersi per new beginnings. Settembre è il mese delle nuove fogge, delle nuove lunghezze, dei nuovi tagli, dei nuovi io. Ma, a ben guardare e come vuole la saggezza antica, più cambia, più è la stessa cosa, senza dire che quando cambia a volte è solo in peggio. Quindi, facciamolo a fette una volta per tutte il convincimento che cambiare sia l’unica pratica buona e giusta. C’era ad esempio tutto questo bisogno di portare i venti del fashion estremo, le trovatelle acchiappaocchio che però ignorano le forme e l’anatomia, nella casa di rue de Moussy dove si è per sempre scolpito e glorificato il corpo facendo all’infinito le stesse cose, e ancora e poi ancora? Chi crea davvero, anche se in apparenza muta sine fine, forse si evolve solo, tornando e ritornando lì in un punto, e allora non sorprende che nell’altra casa in avenue George V si sia reiterata la formula, certo con più cinismo del necessario e forse con un po’ di pavidità. Rifare, riprovarci, ritentare, rifinire è un modo per perfezionarsi, per portare l’espressione al livello massimo, per non sbavare più e mantenersi in tenzone con se stessi. È una scelta valida almeno quanto ricominciare ogni volta da zero e sconvolgere. L’aspettato non è per forza di cose in antitesi con l’inaspettato, o di maggior valore. Magari, ha anche maggiore densità e peso specifico. Una signora della moda sui deragliamenti stagionali ha costruito la propria lingua, un’altra ha disegnato la medesima collezione, identici cappotti e gonne e giacche per trent’anni, con coerenza a dir poco eroica. Certo, nel ripetersi c’è un baco: si rischia di
diventar autocelebrativi e tronfi, di invocare i propri stilemi come sola salvezza e après moi le déluge. La rilevanza in questo caso va a ramengo, ma la débâcle accadrebbe lo stesso, che si opti per il nuovo inizio reiterato o il repetita iuvant. Il tempo distrugge ogni cosa: questa è la sola certezza.