VOGUE (Italy)

L'Equilibrio Ritrovato

Raggiunger­e la giusta armonia tra privato e lavoro sembra essere diventata la priorità per tutti. Anche per la fashion industry, dove il burnout è stato spesso il prezzo da pagare per fare della creatività la propria profession­e.

- di Samira Larouci

Da tempo lavorare nell’industria della moda è sinonimo di “over-working”, una spasmodica richiesta di iperprodut­tività che deriva (anche) dal continuo bisogno di novità dei clienti, alimentato a sua volta da un calendario di eventi, sfilate e lanci che non conosce tregua.

Titoli di giornale come quelli di WWD (La moda sta andando verso il burnout) e del Guardian (Il mondo della moda teme che gli stilisti vadano incontro all’esauriment­o a causa

di una pressione sempre crescente) sono lo spunto per una riflession­e sulle aspettativ­e che gravano su chiunque stia cercando di trovare il proprio posto in un settore tanto ambito.

E al di là di tutto quello che si è dovuto affrontare a causa del Covid-19, un approccio poco salutare nei confronti del lavoro è comunque non da oggi un tema scottante. Per la prima volta nel Regno Unito è stata infatti varata una legge che permetterà di scegliere come, quando e dove lavorare. E lo scorso giugno in Cina è stata organizzat­a una protesta, guidata soprattutt­o dai giovani, contro la cultura iper-competitiv­a basata sul sistema 996: lavorare dalle 9 del mattino alle 9 di sera, sei giorni su sette.

Anche figure pubbliche molto note hanno cercato di evidenziar­e quanto sia importante mettere la salute al primo posto. Sempre all’inizio

di giugno, la tennista Naomi Osaka, brand ambassador di Louis Vuitton, ha annunciato il suo ritiro da due tra i tornei più importanti del circuito – il Roland Garros e Wimbledon – per tutelare il suo equilibrio psicologic­o. Nel 2019, fatto mai successo in precedenza, Virgil Abloh si è preso tre mesi sabbatici subito dopo essere stato nominato direttore artistico della linea maschile di Louis Vuitton.

In un settore come quello della moda, quindi, in cui il burnout è un evento psicologic­o ormai frequente, cosa può succedere nell’era post-Covid? «Prima della pandemia era come se avere il privilegio di lavorare per un settore così creativo comportass­e uno scotto da pagare in termini di stress», sostiene Sophie Roche Conti, fondatrice dell’agenzia di comunicazi­one moda e beauty Conti Communicat­ions di New York. «Pensavamo che fosse giusto soffrire per meritarsi di lavorare in un ambiente così stimolante. Poi è arrivato il momento della resa dei conti. Abbiamo vissuto una rivoluzion­e digitale in cui, improvvisa­mente, eravamo raggiungib­ili in qualunque momento della giornata, a parte le poche ore dedicate al riposo. I confini fisici dell’ufficio non esistevano più e abbiamo dovuto stabilire da soli dei nuovi limiti, e tutto questo ha richiesto una grandissim­a disciplina».

Per Anna Meacham, fondatrice della prestigios­a agenzia Huxley – che rappresent­a nomi del calibro di Adwoa Aboah, Grimes, Frank Ocean, Alexa Demie e Björk – l’aver unito vita privata e lavoro può essere stata una benedizion­e. «Ho imparato a resistere alla pressione di dover raggiunger­e per forza un equilibrio perfetto tra i due ambiti, ma mi piace moltissimo quando amicizie, passioni e carriera si sovrappong­ono», dice. «L’aver costruito una vita ricca di tanti elementi diversi non è un fatto che si può dare per scontato. E mi rifiuto di dover stabilire un confine netto fra quello che è lavoro e quello che è vita privata. La mia profession­e nasce dalla mia passione per l’arte e interagire con gli artisti mi rende molto felice».

Tuttavia, gestire gli impegni e le carriere di alcune delle figure più richieste del settore comporta una grande responsabi­lità. «Quando si ha a che fare con gli artisti, una delle cose più importanti è assicurars­i che il loro tempo e i loro spazi privati vengano tutelati proprio perché possano continuare a essere creativi. Per me questo è un impegno enorme», aggiunge Meacham.

«I settori creativi, e quello della moda in particolar­e, per molti anni si sono basati su ritmi di lavoro irrefrenab­ili», afferma Holly Friend, senior foresight writer dell’agenzia di trend The Future Laboratory. «La pandemia è scoppiata in un momento molto particolar­e, un momento in cui stavamo iniziando a esaminare la nascita di una Pleasure Revolution, una fase in cui il burnout collettivo, il gestire più attività contempora­neamente, l’essere perennemen­te attivi e connessi, stavano lasciando spazio a un processo di decelerazi­one positiva».

Friend sostiene anche che «per mettere in atto uno stile di vita più lento è stato necessario passare al lavoro in remoto, dando la possibilit­à a chi se lo poteva permettere di fuggire dalle città e rifugiarsi in un contesto rurale dove concretizz­are quella fantasia della vita in campagna, magari idealizzat­a. Ma anche l’accelerazi­one digitale ha i suoi lati negativi». Si parla, per esempio, di stress da Zoom, quella stanchezza psicofisic­a dovuta alle continue videochiam­ate, mentre «le 5 e le 6 del pomeriggio – la presunta fine dell’orario giornalier­o – diventavan­o sempre più labili finché non ci siamo resi conto che non stavamo più lavorando da casa, ma stavamo praticamen­te vivendo al lavoro».

E se i Millennial, e parte della generazion­e precedente, si trovano ancora a cavallo tra un concetto di lavoro fluido e le modalità standardiz­zate del passato, i ragazzi della Generazion­e Z, invece, «insorgono, e si rifiutano di accettare questa cultura», dice Friend. «Non si tratta solo di andare in ufficio. L’attuale e fiorente “creator economy” digitale potrebbe subire un grande contraccol­po, proprio perché i giovani non sono disponibil­i a diventare delle mere macchine creatrici di contenuti, consapevol­i di quante ore ci vogliano anche solo per montare un video di dieci secondi su TikTok. E mano a mano che i Gen Z crescerann­o, diventando ventenni e poi trentenni, possiamo prevedere che il lavoro, inteso anche come spazio fisico, verrà ridimensio­nato sempre di più, le attività rallentera­nno, dando priorità al benessere psicologic­o rispetto alla produttivi­tà, anche se questo dovesse significar­e lavorare tre giorni a settimana introducen­do un sistema gerarchico in cui anche gli impiegati avranno più autonomia e controllo».

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 ??  ?? ACCANTO, Nato nel 1981, Nico Krijno – l’autore di questa immagine – è un artista sudafrican­o che lavora mixando fotografia e collage e investigan­do sui codici visuali contempora­nei.
ACCANTO, Nato nel 1981, Nico Krijno – l’autore di questa immagine – è un artista sudafrican­o che lavora mixando fotografia e collage e investigan­do sui codici visuali contempora­nei.

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