Il Ritratto Di Una Società
Dalle vesti eteree post-Rivoluzione francese alle opulenze anni 50, dall’anti-moda dei Sessanta al desiderio di evasione post-pandemia. Così gli abiti riflettono le grandi trasformazioni storiche e sociali.
La moda, sosteneva Ennio Flaiano, «è il ritratto di una società e l’oroscopo che essa stessa fa del suo destino». Così se ci si interroga sugli stili di quella che, dopo quasi due anni di Covid, speriamo sia una “ripartenza”, al di là della grande ascesa di e-commerce e sostenibilità, le risposte possono essere molte, una su tutte la voglia di evasione, di sogno, di magia, tutti concetti che, dopo periodi di grande difficoltà, tendono a riaffermarsi. È il caso dei due fiabeschi cortometraggi – realizzati nell’ultimo anno e mezzo da Matteo Garrone – con cui Maria Grazia Chiuri, Direttrice creativa di Dior, ha voluto presentare le sue collezioni Haute Couture A/I 2020-21 e P/E 2021: Le Mythe Dior, inno alla bellezza e al surrealismo, e Le Château du Tarot, ispirato al misterioso fascino dei tarocchi. «In tempi incerti», commenta infatti la stessa Chiuri, «pensare che esista il soprannaturale è rassicurante… Sono incuriosita dal mistero e dal magico, trovo che siano un modo per esorcizzare l’incertezza del futuro». Un concetto di cui era profondamente convinto lo stesso Dior. Monsieur infatti non muoveva un passo senza consultare le sue chiromanti che, a quanto pare, gli portarono fortuna visto che, dopo la Seconda guerra mondiale, divenne l’incontrastato sovrano della moda. Era il 12 febbraio 1947 quando Dior presentò “Corolle”, la sua prima collezione, contraddistinta da una linea romantica, opulenta e sinuosa che, in qualche modo, rappresentava la felicità ritrovata. «Venivamo», avrebbe scritto più tardi nelle sue memorie (Christian Dior et moi, 1956), «da un’epoca di guerra e di uniformi, con donne simili a soldati, con spalle da pugile. Io le disegnai come fiori, con le spalle morbide, il busto pieno, la vita sottile come una liana e gonne a corolla». Quella silhouette opulenta che voleva cancellare le privazioni e gli anni bui del conflitto, e che Carmel Snow, temuta direttrice di Harper’s Bazaar, battezzò New Look, segnò il nuovo corso della moda e influenzò lo stile internazionale fino alla metà degli anni Cinquanta.
Guerre, pestilenze, catastrofi naturali, a guardarsi indietro, ogni grande cambiamento si riflette sulla moda. Così, se all’indomani della scissione dell’Impero Romano – e della nascita dell’Impero Romano d’Oriente – si diffusero tuniche ricamate dal gusto esotico, dopo la scoperta dell’America, ori e ricchezze provenienti dal Nuovo Mondo influenzarono il costume europeo, facendo dilagare una nuova tendenza di abiti gemmati.
Quando si pensa alle mode delle ripartenze, però, uno degli
esempi più evidenti si ebbe con la Rivoluzione francese. In aperta contrapposizione allo sfarzo delle vesti dell’Ancien régime, l’abbigliamento si fece sobrio ed essenziale. Gli uomini iniziarono ad adottare il completo maschile scuro in tre pezzi, la cosiddetta “uniforme borghese”, e le signore sostituirono corsetti e ricchi broccati con vesti eteree, di semplici mussoline, ispirate alla statuaria classica. Certamente questa moda, che già aveva annoverato tra le sue adepte la regina di Francia Maria Antonietta, doveva molto agli scavi archeologici promossi, nella prima metà del Settecento, a Ercolano e Pompei. Se però in un primo momento questa tendenza era rimasta in qualche modo il divertissement di un’élite ristretta, dopo la Rivoluzione l’esigenza di un tipo di abbigliamento più libero e sciolto, che non mettesse in evidenza la diseguaglianza tra le classi sociali, assunse un significato profondo.
Più tardi, intorno alla metà dell’Ottocento, dopo l’ondata di tubercolosi che afflisse l’Europa, come ha notato Carolyn Day nel volume Consumptive Chic: A History of Beauty, Fashion and Disease (Bloomsbury 2017), l’estetizzazione di questa malattia iniziò a intrecciarsi con un nuovo ideale di bellezza fragile ed evanescente, associato a uno spettrale pallore faticosamente conquistato con digiuni e infusi di aceto e messo in risalto da abiti dalle sfumature decadenti dette “ala di corvo” o dal grigio “polvere di ruine”, come dimostrano diversi romanzi, a partire da quello di Alexandre Dumas figlio La Signora delle camelie (1848) e da ritratti come quello che Hayez fece a Cristina Trivulzio di Belgiojoso, una delle protagoniste femminili del nostro Risorgimento (a lei il 15 di questo mese la Fondazione Brivio Sforza dedicherà una statua in piazza Belgiojoso a Milano).
Così, di volta in volta, insieme alla storia cambiano le fogge. E, tra morti e rinascite, fini e nuovi inizi – dalle gonne corte delle garçonne, giovani donne degli Anni Ruggenti, all’anti-fashion dei ragazzi della contestazione –, quella della moda, come già scriveva sull’edizione americana di Vogue nel gennaio 1959 lo storico del costume James Laver, è una vera “Detective Story”.
Come sarà la moda della ripartenza? Secondo Valerie Steele, storica della moda e direttrice del Museum at FIT di New York: «Il Covid sicuramente ha fatto precipitare dei mutamenti già in atto, come l’ascesa del leisure wear e dello shopping on line. Sulla breve scadenza invece potremmo assistere a una reazione alla pandemia con una passione per le feste e un atteggiamento “carpe diem”, un po’ come era accaduto dopo l’epidemia di Spagnola nel 1918-19. Questo lo abbiamo già visto in parte in Cina. Sono comunque convinta che i grandi eventi mondiali influenzino la moda meno di quanto si pensi. I cambiamenti più radicali della moda sono quelli legati a un mutamento dello stile di vita, come quando le donne della middle class sono dovute uscire di casa per andare a lavorare».
Un esempio? Le ragazze emancipate del primo dopoguerra, allora – scrisse Elda Norchi, con lo pseudonimo di Futurluce, su Roma Futurista (30 marzo 1919) – «dalle case dove regnavano donne-bambole, sono balzate fuori (chiusi i cappelli sulla nuca e sostituiti quando occorreva i calzoni alle gonne) le donne-operaie, donne tramviere, donne-carrettiere, donne-spazzine, donne-infermiere, donne-contadine, donne-ferroviere, donne-impiegate».