Dentro Lo Sguardo
Nelle sfilate phygital, in parte dal vivo e in parte in streaming, lo spettatore non è passivo ma protagonista: sono le prime pagine di un racconto che, dice la critica, promette sorprese.
Vi diamo subito la nostra previsione, discretamente convinti di non sbagliarci: phygital is here to stay. Pochissimi ospiti in presenza, tantissimi in digitale live, non di rado coinvolti con inviti ad hoc, engagement social, perfino inviti consegnati a mano e accompagnati da fiori e omaggi, in una scala differenziata di contiguità con il brand ma con una base narrativa comune.
Il futuro delle sfilate assomiglia molto al loro passato, e recupera i ritrovi en petit comité, for the happy few, come si diceva ai tempi di Lady Duff Gordon alla quale si deve la formula quasi sacrale delle presentazioni di vestiti, la loro rap-presentazione in forma e cadenza processionale. Per i milioni di spettatori che nell’ultimo anno e mezzo hanno imparato ad apprezzare le collezioni di moda trasmesse in diretta senza accontentarsi più delle immagini oggettivamente bruttissime che noi giornalisti, ospiti e in uencer postavamo durante e dopo lo show, le sfilate saranno non solo integrali e trasmesse live, ma non di rado prenderanno forme e firme cinematografiche tali da rendere l’esperienza perfino più coinvolgente di una passerella in presenza. Dell’ultima collezione uomo di Zegna e di MSGM, per esempio, abbiamo sperimentato la doppia formula – modelli e capi in presenza illustrati dai direttori creativi Alessandro Sartori e Massimo Giorgetti poco dopo la visione collettiva del film –, realizzando che la visione di quei quindici minuti di riprese di architetture milanesi e specchi d’acqua ci aveva permesso di comprendere il significato delle collezioni e i loro obiettivi quanto la successiva narrazione orale; che, anzi, quei tagli e quelle inquadrature erano state fonte
di ispirazione e suggestione perfino superiori alle parole, inevitabilmente sintetiche, degli stilisti. Delle successive sfilate couture A/I 2021-2022, viste quasi tutte in digitale per ragioni personali, non ci pare di aver perso altro che l’opportunità di ammirare e visionare i capi da vicino, chance di certo non trascurabile ma comunque da sempre offerta a pochi; in compenso, le riprese di Luca Guadagnino, e stiamo dunque parlando
di Fendi, hanno saputo assecondare il lavoro di Kim Jones e metterlo in valore con l’occhio ragionato della cinepresa, che è mediazione tecnica e semiologica superiore a quella dell’occhio umano e della sua percezione soggettiva. Come sappiamo, i film indirizzano lo spettatore, lo guidano, selezionano per lui che cosa guardare e talvolta perfino come recepirlo; lo sguardo del regista è il prezzo che si paga per godersi non questi, ma qualunque film, nonché il loro valore aggiunto. Ma al tempo stesso è lo spettatore il fulcro di questa selezione: non è recettore passivo, bensì agente primario di questo percorso, come scriveva Francesco Casetti in quel caposaldo della semiotica che è Dentro lo sguardo (Bompiani, 1986). Poi si potrebbe discutere a lungo su quali siano gli scopi della cinematografia pura e di questa, che agli scopi artistici unisce inevitabilmente quelli commerciali, che è un po’ la domanda che si è posto Pierpaolo Piccioli di Valentino con il suo straordinario progetto Des Ateliers, andato in scena a Venezia a metà luglio e che è riuscito nella non facile impresa di compenetrare il lavoro di artisti contemporanei con le abilità della sartoria… Ma a questa domanda nessuno potrà mai rispondere, nemmeno chi, come noi, ritiene che l’arte per l’arte, fondamento dell’Estetismo, sia una chimera. E per restare nell’ambito di argomenti spinosi, forse vale la pena di spendere due parole sulla straordinaria opportunità di razionalizzazione che il Covid ha offerto al sistema. Nessuno lo confermerà mai, ma la pandemia ha agito sul modello organizzativo che la moda aveva adottato negli ultimi anni come la celebre, provvidenziale scopa del don Abbondio manzoniano.
Non sono finiti affatto gli show. È finito quello che gli osservatori esterni al sistema definivano “il circo della moda”, con una buona dose di ragione. La pandemia ha reso evidente anche alle più generose fra le aziende e i brand di moda che le sfilate oceaniche, allestite per ottocento, mille persone sotto tendoni ampi come piazze cittadine, stadi, fabbricone dismesse, erano un incubo per il traffico che generavano in città, per l’inquinamento che producevano anche in termini di materiali usati (vedi oggi il progetto di riciclo di Prada), per le misure di sicurezza che si rendevano necessarissime ben prima e ben più di quelle sanitarie, per l’oggettiva inutilità di calibrare il proprio linguaggio e il proprio messaggio per un pubblico al tempo stesso così ampio e così ridotto. Lo stesso budget di una di quelle faraoniche sfilate, fonte di infinite pressioni sulle pr, può essere adesso agevolmente ricollocato e suddiviso per parlare adeguatamente a pubblici diversi. Non tutti i brand sapranno farlo adeguatamente subito, molti non gradiranno l’esclusione dalla sfilata “in presenza”. A tutti resterà l’opportunità di capire finalmente qualcosa.