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STRUMENTI DIVERSI

OGGI, PER UN MUSICISTA, LA VERA SFIDA CONSISTE NE FAR COESISTERE LA MENTALITA ANALOGICA CON LE TECNOLOGIE DIGITALI, PER EVITARE RIGIDE BARRIERE E SCHEMATIZZ­AZIONI

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Nella musica, i confini sono una questione di coraggio: non è tanto il vincere una paura, ma il saper vedere un limite, uno schema e volerlo superare. Non bisogna sottovalut­arli: sono barriere necessarie a demarcare, ad avere delle geometrie riconoscib­ili. Servono a delineare, a stabilire un punto fermo che divide una cosa dall’altra, e contempora­neamente a unirle. Gli schemi in cui ci confiniamo talvolta sono necessari, servono alla mente per comprender­e ciò che fa. Senza, uno sarebbe più libero ma impazzireb­be perché non riuscirebb­e più a comprender­e dov’è: ho bisogno di confinare la coscienza dentro la mia testa, per sapere dov’è collocata e poterne uscire. L’ho vissuto in prima persona, perché sono dislessico. A scuola ho avuto delle di  coltà enormi. Imparando e usando contempora­neamente diverse lingue, il disturbo si è accentuato. Ciò mi ha portato a ragionare in maniera necessaria­mente diversa. Per me la musica non è un linguaggio codificato, non sono le note o il pentagramm­a. Per me le note e la musica sono pattern, geometrie, colori. Il mio cervello è stato costretto ad andare oltre gli schemi prefissati e i confini per compensare questa carenza, questa dissociazi­one da un linguaggio convenzion­ale. Per me il pentagramm­a e le codifiche sono sempre state un problema, a cui mi sono adattato e che ho superato.

È lo stesso per ogni forma di apprendime­nto: un bambino, quando suona da solo, lo fa in modo istintivo, senza schemi e confini. Liberament­e, colorerà le note a modo suo. Se tu poi gli dici: « Adesso ti siedi e fai così», lo irrigidisc­i. Gli servono dei limiti entro cui muoversi; poi dovrà superarli e dimenticar­li. Lo vedo con mia figlia che balla: se la porto a scuola di danza, impara a comunicare secondo i codici di quell’espression­e. Ma quand’è che ricomincer­à a ballare come prima di prendere lezioni? Quand’è che quel bambino tornerà a suonare come la prima volta? Quando avrà assimilato tutto e dimenticat­o quell’insegnamen­to.

È come il merluzzo che, messo sotto sale, diventa stoccafiss­o. Per tornare a essere commestibi­le, va poi liberato da tutto quel sale. I confini e gli schemi servono per essere superati e messi alle spalle.

Ho cercato, nella mia carriera, di vivere in maniera libera fidandomi delle idee, dei percorsi, degli slanci senza aver paura di sbagliare. Riconoscen­do i confini ma non facendomi ingabbiare. Osare un po’ di più è quella cosa che ti dà la linfa per andare oltre, a venti come a cinquant’anni. Steccati e confini sono netti solo per chi conosce poco la musica. Non basta mettere un distorsore alla chitarra per trasformar­e il pop in rock e ingabbiarl­o in una definizion­e. Si è pop, rock o punk a seconda dei momenti; è uno stato che viene espresso con la simbiosi tra quello che si fa e quello che si è. Io scrivo canzoni per esprimere stati d’animo, non pensando a come possono essere confinate in un’etichetta. Per me non ci sono divisioni culturali nella musica. Le etichette sono barriere e confini che tendono a limitare.

Quest’autunno pubblicher­ò Alchemaya, un disco tratto dallo spettacolo che ho portato in teatro la scorsa primavera. Ho unito un’orchestra con i sintetizza­tori, le mie canzoni con la musica sperimenta­le. Non sapevo quale sarebbe stata la reazione di fronte a una cosa che non ha confini concettual­i, che esce dagli schemi dei generi musicali. Alchemaya è già di  cile da raccontare. L’ho messa in scena e registrata confidando proprio che la sua mancanza di confini suscitasse curiosità e voglia di conoscere: è l’impegno più grosso della mia carriera, molto più di quello che richiede una canzone. Ma non mi a “anno a stare sulla cresta dell’onda, perché considero la cresta come una conseguenz­a di un’onda. Esistono montagne perché esistono le vallate, le seghe esistono e tagliano perché hanno i denti. I limiti servono a comprender­e la musica, certo: ma è come tentare di ingabbiare il cielo. Il pensiero diventa materia, crea confini per dare identità; è un modo per tradurre ma non possiamo fermarci a questo processo. Il Tao Te Ching di Lao Tzu, il testo su cui si fonda il taoismo, comincia col dire: «Tutto ciò che può essere detto non è il vero Tao». Tutto ciò che tu puoi racchiuder­e in una descrizion­e interpreta­tiva del tuo cervello ti porta lontano dalla realtà, dallo stato della coscienza.

Noi occidental­i siamo molto pragmatici, le filosofie orientali sono più metafisich­e: il creare dei confini, delle gabbie per comprender­e la realtà è un processo tipico delle fondamenta del nostro modo di ragionare. Ma interagire con strumenti diversi, con un mondo in continua espansione, aiuta a ridurre i confini. Le filosofie orientali ti insegnano a cedere: per superare i confini bisogna sapere arrendersi, superare i contrasti senza dover modificare ciò che hai davanti. Vale anche per la creatività e per la musica.

Sarà anche perché sono un bassista ma, per me, collaborar­e con altri artisti è un modo per superare i limiti, per lasciarmi andare. Ogni tanto noi cantanti abbiamo la tendenza a rimanere nel nostro orticello; finalmente vedo che, negli ultimi tempi, le collaboraz­ioni sono diventate più frequenti rispetto a dieci anni fa. In quelle situazioni provo a dare il meglio di me, a contaminar­mi per aprirmi alla percezione, per cogliere il momento attraverso lo scambio, il confronto, anche il conflitto. Mi piace l’interazion­e: quando sei in una stanza e con chitarra, basso e un piano crei qualcosa, l’emozione è impagabile. Lavorare con altri attiva lo scambio di sensazioni ed emozioni. La collaboraz­ione con Daniele Silvestri e Niccolò Fabi è stata fondamenta­le: siamo amici da sempre, abbiamo la stessa passione, abbiamo spesso cantato assieme. Ma per fare un disco e un tour ognuno ha dovuto fare un passo indietro. Collaborar­e aiuta ad aprirti alla diversità: in studio Daniele voleva sempre capire i risvolti di ogni accordo e armonia mentre Niccolò era “buona la prima”, con due accordi e la voce aveva già la canzone pronta. Io facevo il tecnico e lavoravo sui suoni. È dal confronto che nasce la creazione artistica; l’essere diversi ha creato un’identità unica. Ma bisogna arrivarci, perché in certi momenti ognuno ha bisogno di a ‰ermare la sua identità. Poi sei più tranquillo e puoi metterti a disposizio­ne dell’altro, tirare fuori il meglio da te e da chi ti sta attorno. Esserci significa essere attento a quello che succede; ma sempre nell’umiltà del rispetto.

Oggi le tecnologie facilitano tutti i processi, dal consumo alla creazione, alla collaboraz­ione. È più semplice fare musica ed è più facile accedere a musiche diverse. Il sintetizza­tore, già ai tempi dell’analogico, era uno strumento che univa: un mezzo che crea sintesi, che produce suono unendo diverse forme d’onda attraverso gli oscillator­i. L’uso dei loop, dei campionato­ri ha reso tutto più intuitivo e immediato, chiunque può fare musica con un software, un Logic, un Pro Tools o un GarageBand gratuito. Ma c’è il rischio che il risultato abbia sempre gli stessi suoni: una musica quantizzat­a, quadrata, scandita dal click dei metronomi digitali.

Il paradosso è che il digitale ci apre alla diversità permettend­oci accesso immediato a ogni cultura musicale e allo stesso tempo ci abitua a una musica troppo pulita. È più facile sentire un’orchestra africana che suona il balafon con i quarti di tono e con un ritmo ondulante ma, per come siamo abituati, ci può sembrare tutto stonato e cacofonico. Il problema però è nostro, non loro. Per superare i confini nella musica, oggi la vera sfida non è usare le tecnologie per correggere gli errori ma far coesistere la mentalità analogica con gli strumenti digitali, lasciare gli errori evitando schematizz­azioni troppo rigide.

Grazie ai miei figli, vedo che i ragazzi hanno una predisposi­zione naturale all’uso delle tecnologie esterne; noi invece abbiamo dovuto adattarci. Vengo da un mondo analogico, ho ancora un cervello con due valvole Telefunken in testa: interpreto tutto ciò che è digitale con un processore che mi è stato introdotto in testa, un po’ a forza, e che mi permette di convivere con questo procedere della tecnologia. Credo che la tecnologia esterna non sia l’elemento sintomatic­o del progresso dell’umanità ma che l’umanità tornerà a produrre esseri in grado di riequilibr­are percezioni e coscienza. È la conseguenz­a naturale della tecnologia esterna. Per questo dobbiamo ancora trovare il modo di campionare la frequenza dell’anima. Il nastro elettromag­netico cattura frequenze altissime, una sovrarmoni­ca pazzesca che si perde nella conversion­e 01-01. Il digitale ci fa ascoltare musica nella testa, senza il passaggio testa-cuore. La parola giapponese kokoro indica testa-cuore come una cosa sola: il digitale non ha ancora la tecnologia necessaria per riprodurre queste frequenze.

L’importante è che la tecnologia si ponga sempre più a disposizio­ne dell’uomo, per superare i confini. La paura invece è che l’uomo ne diventi schiavo, che non si muova più. Che crei dei muri verso l’esterno, invece che abbatterli. Che cambi il modo in cui percepisce la realtà: attraverso uno schermo, non la percezione diretta.

Bisogna far sì che le innovazion­i siano al servizio della creatività e dell’uomo, non viceversa: in musica vince chi osa di più, chi va oltre anche i limiti che paradossal­mente la tecnologia ti impone. Non dobbiamo stratifica­re troppo il subconscio ma lasciarlo più fluido, più morbido, più flessibile, di modo da non creare troppe convinzion­i, barriere culturali e confini.

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