IN NOME DEL FIGLIO
I VACCINI CONTRO LE PRINCIPALI MALATTIE INFETTIVE NON SONO UNA SCELTA BENSÌ UNA RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEI BAMBINI E DELLA COLLETTIVITÀ, E IL CONFINE TRA SCIENZA E WEB, SOCIA L NETWORK EFAKENEWS PUÒ ESSERE ANCHE TRASPARENTE E MOBILE, MA DEVE ESSERCI
Ivaccini sono una questione di confine tra scienza, società e democrazia. Oltre che un eccellente modello per spiegare la di erenza tra scelte individuali e responsabilità collettive, tra coinvolgimento della cittadinanza nelle decisioni politiche e rispetto delle competenze, tra verità post-fattuale e democrazia. In un’epoca governata dalla comunicazione di usa e non gerarchica del web, sono vissuti come un vetusto principio di autorità degli “esperti”, un argine di esclusione antidemocratico; se non, addirittura, come un meccanismo cospirativo per nascondere “scomode verità” a scapito degli interessi del bene comune. L’attenzione di sempre più ampi strati della popolazione verso temi di rilevanza sociale, insieme alla trasparenza e all’ampia disponibilità delle fonti permessa da internet, è un segnale estremamente positivo del desiderio di partecipazione politica da parte della cittadinanza nelle democrazie più avanzate.
Ma un conto è considerare i cittadini informati, insieme al giornalismo, il nuovo cane da guardia contro gli eventuali abusi di potere e corruzione; un altro è accettare le controinformazioni che proliferano nella rete come una nuova, liberatoria forma di giacobinismo delle “competenze” e dei “tecnici” – le cui teste tagliate, ce l’ha insegnato la storia, non potranno che lasciare il posto alla società del risentimento, dell’incompetenza e del populismo. Più che abbattere i confini, la democrazia liquida 2.0 potrebbe renderli migliori, ovvero più trasparenti e mobili. Per farlo, però, occorre un patto generazionale. Iniziamo dai vaccini e dai loro tre confini.
Primo, i vaccini funzionano solamente come fenomeno collettivo. Se un genitore non vaccina i propri figli ne mette a rischio l’incolumità, di cui è responsabile di fronte alla legge. Rispetto a quelli immunizzati, infatti, i non vaccinati sono enormemente più suscettibili al contagio delle riemergenti malattie infettive (morbillo, meningite, pertosse, varicella, per esempio): lo dimostrano gli ultimi focolai, in cui oltre il 90% degli individui colpiti non era stato immunizzato. Questo significa che i figli dei genitori contrari alle vaccinazioni agiscono nella società come serbatoi biologici (sintomatici o asintomatici, a seconda del patogeno) dell’agente infettivo, e ciò ha almeno due gravi conseguenze. In primo luogo, possono infettare con altissima probabilità tutte le persone fragili e indifese non vaccinabili per età (nel nostro paese, i bambini in età pre-vaccinale sono circa 120mila) o perché rese immunodepresse da trapianti, malattie oncologiche oppure autoimmuni (circa 1.500 persone): una popolazione cioè paragonabile a quella di Bergamo o di Monza, a rischio decesso in caso di contagio. Ricordiamocelo sempre. In secondo luogo, gli individui non vaccinati possono contagiare anche i vaccinati. Questi infatti sono immunizzati contro un ceppo standard dell’agente infettivo, che però si di erenzia da quello naturale circolante da individuo a individuo – è la logica di camu amento e mutazione caratteristica di virus e batteri: se i microorganismi rimanessero sempre identici, infatti, verrebbero riconosciuti dal sistema immunitario e debellati nel giro di qualche generazione.
Per questa ragione, l’Organizzazione mondiale della sanità richiede che le coperture vaccinali raggiungano il 95% della popolazione. Per questa ragione è illogica la posizione di chi ritiene l’immunizzazione una semplice scelta individuale: al contrario, è un fenomeno che funziona se, e solo se, diventa collettivo. Può essere obbligatoria o raccomandata ma non è una scelta; se mai una responsabilità sociale. In uno stato di diritto, per quanto libertario e individualista, le libertà non sono illimitate, né scelte soggettive possono ledere l’incolumità altrui. Non è lecito percuotere o derubare qualcuno, gridare « Al fuoco!» in un assembramento o eliminare i freni della macchina per provare l’ebbrezza del rischio; tanto meno è lecito causare dolore o danni intenzionali ed evitabili ai propri figli, di cui non disponiamo liberamente essendo loro individui dotati di diritti. Tra un soggetto e la collettività esistono dei limiti legali che vanno rispettati, tanto più se riguardano una malattia trasmissibile e in potenza letale. La storia della medicina, in modo talvolta tragico, racconta l’importanza dei confini per impedire il contagio, siano essi naturali come fiumi, montagne e deserti, o artificiali come i lazzaretti, la quarantena o i cordoni sanitari. Oggi è sparito il concetto di contagio, e con esso quello di confine, solo perché è sparita la percezione sociale del rischio infettivo. Eppure, è proprio grazie all’uso estensivo della vaccinazione fatto dalle precedenti generazioni che sono state debellate le più importanti malattie infettive che in passato hanno decimato la popolazione mondiale. È quindi grazie agli sforzi dei nonni che oggi, paradossalmente, genitori dai 35 ai 50 anni possono permettersi di rifiutare in modo così esteso i vaccini. Tra i tanti confini culturali abbattuti dall’attuale generazione, uno dei pochi ad aver retto è, purtroppo, quello che ha impedito la trasmissione intergenerazionale del rischio delle malattie infettive.
Secondo, i vaccini e il sistema immunitario sono fenomeni complessi. Nel web sembra svanito il limite della complessità di un argomento e delle competenze necessarie a discuterne. È il fenomeno, molto discusso, noto come disintermediazione: la riduzione cioè del ricorso alle competenze e agli intermediari nei temi di rilevanza sociale, siano essi immunologi o politologi, in seguito alla di usione di internet, che ha facilitato il contatto diretto fra i cittadini e prodotti d’acquisto o dati tecnici (per esempio quelli sulle reazioni avverse da farmaci). Sono in tanti a salutare questa novità come la realizzazione della democrazia diretta; occorre però valutare l’e ettiva capacità di giudizio dell’homo sapiens (se non possiede strumenti tecnici e conoscenze specifiche) e l’architettura delle scelte dei cittadini. Molti studi di neuropsicologia cognitiva e ingegneria sociale sostengono che una parte considerevole della popolazione non sceglie in modo razionale guardando i dati e che sbaglia sistematicamente quando analizza probabilità, calcola rischi/ benefici ea ronta una pletora di contraddittorie informazioni rischiose. Ebbene, le illuminanti ricerche sulla “razionalità limitata” del premio Nobel Daniel Kahneman e dello psicologo Gerd Gigerenzer ci dicono che gli esseri umani compiono errori sistematici, fanno cioè scelte sub-ottimali, perché guidati da pregiudizi cognitivi (detti bias) frutto di un lungo passato evolutivo che non ha selezionato la nostra specie per gli attuali, complessi, problemi sociali.
In particolare, molti cittadini tendono ad avvertire come rischiose le innovazioni tecnologiche, specie quelle in ambito biomedico, le rifiutano oppure ne posticipano i frutti ricorrendo al principio di precauzione. Come dimostrato dal modello della “cognizione culturale” di Dan Kahan, la percezione del rischio (per esempio su nanotecnologie, cambiamento climatico, vaccini) non è omogenea in tutta la popolazione ma polarizzata su posizioni estremiste; si distribuisce cioè secondo una logica settaria (i “cluster tribali”) basata sulla condivisione di valori politico-culturali. Un esempio? Avendo a che fare con l’esordio sessuale, negli Stati Uniti il vaccino Hpv contro il papilloma virus negli adolescenti viene considerato poco rischioso dai democratici e molto pericoloso dai repubblicani; il rapporto si inverte, quanto a percezione dei rischi, per quanto riguarda il cambiamento climatico e il porto d’armi. Molte ricerche inoltre ribadiscono che i genitori no-vax appartengono alla fascia più istruita, benestante della popolazione e che formano le proprie credenze non consultando gli esperti ma navigando sul web – dove trovano informazioni in eccesso, contraddittorie, false, rischiose e, dicono le statistiche, più siti contrari che favorevoli ai vaccini pediatrici. Soprattutto sui social network. Una vasta letteratura conferma poi che si tratta di una porzione di popolazione particolarmente incline al pensiero magico e complottista, con sfumature paranoidi. Essi sono cioè inclini tanto al “bias di conferma” (ricercano e selezionano solo le informazioni che confermano le proprie convinzioni) quanto al “bias del ritorno di fiamma” (davanti al debunking, notizie “correttive” basate su prove, che certificano le falsità o le inesattezze delle loro credenze, non cambiano l’opinione di partenza, anzi la rinforzano).
Su di loro infine agisce anche la recente moda naturista (si pensi all’omeopatia) che tende a sviarli dagli alti benefici dei vaccini in favore dei rischi sugli avventi avversi (i più bassi dei farmaci in commercio). Per capire la predittività di queste analisi basti pensare a fenomeni politici come Brexit o ai recenti decessi sia per mancata vaccinazione che per scelta di cure alternative al cancro o per semplici otiti. Un’immagine plastica che ben rappresenta l’odierna percezione delle competenze, siano esse politiche, scientifiche o tecniche: nel 2016 il Movimento 5 Stelle ha chiesto, tramite il web, di vagliare le candidature a sindaco di Roma – una capitale di tre milioni di abitanti martoriata da gravi problemi. Ne sono arrivate circa duecento con relativi curricula quasi tutti privi di esperienze nell’amministrazione capitolina.
Terzo, la di usione delle fake news, di cui i vaccini sono vittime eccellenti, deve trovare un confine. Per salvaguardare la democrazia. In seguito a eventi internazionali come la Brexit e l’elezione del presidente americano Donald Trump, il tema della “post-verità” ha gradualmente guadagnato il centro del dibattito politico. Dalla cosiddetta “Donazione di Costantino” ai “Protocolli dei Savi di Sion”, le false notizie e la propaganda sono spesso state utilizzate per manipolare la percezione sociale e orientare le scelte politiche. Ma la post-verità rappresenta qualcosa di diverso. Non è solo un contesto comunicativo «in cui i fatti oggettivi sono meno influenti, nella formazione della pubblica opinione, del richiamo alle emozioni e alle convinzioni personali», secondo la definizione di Oxford Dictionaries che ha elevato post-truth a parola chiave del 2016. No, è anche una nuova condizione sociale in cui l’informazione globalizzata, pur raggiungendo in modo capillare i singoli individui, è ormai carat-
terizzata da un’inedita velocità di propagazione che la distribuisce a ondate virali tra gruppi di appartenenza ( cluster) tra loro contrapposti, che rilanciano continue controinformazioni e smentite reciprocamente ignorate (bias di conferma e di ritorno di fiamma). Le fonti sono spesso prive di geografia e autore (quindi di cili da perseguire dal punto di vista giuridico) e le competenze vengono trascurate se non addirittura sbeeggiate (disintermediazione e “bias del false balance”).
Su scala quotidiana, le teorie del complotto e le false notizie alimentate dalla rete arrivano a modificare l’apprendimento delle nuove generazioni alterandone la capacità di giudizio e l’analisi delle fonti dei testi digitali, come rivelano due indagini internazionali. Una, dell’Università di Stanford, dimostra che l’82% dei liceali nordamericani, nativi digitali, su internet non è capace di distinguere l’autenticità di un’immagine o di capire se un testo è sponsorizzato; basa la credibilità della notizia sul numero di condivisioni e di like ricevuti, non su provenienza e autorevolezza delle fonti. Dall’altra, promossa dal governo francese, emerge che il 51% dei cittadini d’Oltralpe sono interessati ai temi complottisti e ben il 36% dei giovani tra i 15 e i 24 anni ritiene che esista una società occulta che governa il mondo. Questo dato ha spinto il governo a inaugurare nel 2016 una campagna per le scuole intitolata On te manipule! (“Ti manipolano!”) per sensibilizzare studenti e insegnanti con materiali pedagogici.
Da un punto di vista storico, la post-verità è interpretabile come un ciclico ritorno di anti-intellettualismo, frutto recente del meno recente relativismo post-moderno che solo ora mostra la sua pericolosità nel rifiuto delle competenze, nell’inquinamento delle regole del normale discorso democratico e nel demagogico sostegno di nuove forme di democrazia diretta oerta dal web.
Come dunque confinare le false notizie, almeno su argomenti di sensibilità sociale come i vaccini? Qual è lo stile più utile? In Italia si è aperto un acceso dibattito, specie a seguito del successo senza precedenti dei post su Facebook del virologo del San Ra aele Roberto Burioni (raggiungono oltre cinque milioni di utenti), da alcuni ritenuti autoritari e ansiogeni. Queste critiche si basano su due note teorie della comunicazione sanitaria: rispettivamente quella del deficit model, secondo cui una buona divulgazione medico-scientifica non consiste nel riempire il gap informativo tra esperti e cittadini; e quella del fear appeal, che ritiene inecaci i messaggi mirati ad aumentare la percezione del rischio sanitario in caso di comportamenti ritenuti da correggere perché non salutari. La vulgata sostiene che queste teorie siano da scartare, ma le cose sono più complicate.
La letteratura scientifica degli ultimi anni, grazie a estese meta-analisi, ha rivalutato questi approcci scoprendo che hanno fallito quando sono stati utilizzati in contesti sperimentali sbagliati (le immagini ansiogene dissuasive sulle sigarette viste tutti i giorni non hanno alcun eetto ma in molti altri contesti funzionano benissimo) e con campioni di utenti troppo generici (a proposito di vaccini, un conto è comunicare con genitori esitanti, un conto è con i contrari radicali).
Le neuroscienze cognitive hanno oerto molti dati interessanti per capire che il problema non è rappresentato dalle teorie comunicative giuste o sbagliate, bensì dai bias cognitivi cablati nel nostro cervello. L’immagine di un bambino in condizioni critiche a causa del morbillo funziona o meno a seconda che il genitore sia esitante o radicale e che prima gli sia stato o meno “attivato” il “bias del ritorno di fiamma” con informazioni correttive e sfidanti le sue credenze di base. L’uso di storie personali di amici e conoscenti ( person-centred narrative) funziona non solo per veicolare paure no-vax, come sinora pensato, ma anche per convincere su temi pro-vax, visto che stimola la base tribale che governa credenze e valori morali. Anche l’obbligo e la raccomandazione vaccinale funzionano a seconda dei valori socio-culturali della cittadinanza a cui si applicano, nonché della storia vaccinale del paese, dell’età degli utenti e della percezione del rischio sociale per le malattie infettive.
Le teorie dei sociologi della scienza e dei comunicatori scientifici, infine, dovrebbero tener conto degli aspri dati empirici e valutare quanto abbiano funzionato in un paese come il nostro, in cui le coperture sono in costante calo negli ultimi due decenni; ma anche degli eetti che approcci diversi, tra cui quello di Burioni, hanno ottenuto in breve tempo persino nel dibattito politico. Web e social media hanno infatti nuovi stili di comunicazione che dovrebbero essere tenuti in conto. Sino a tempi recenti erano gli anti-vax ad avere grande visibilità ma l’“eetto Burioni” e quello dei siti di genitori pro-vax, come per esempio Teamvax, hanno ottenuto almeno due risultati insperati, che potremmo definire shepherd e iceberg e ect: hanno cioè oerto una guida alla maggioranza dei genitori favorevoli all’immunizzazione (oltre l’80%), sino ad allora isolati e non connessi
in rete, e hanno mostrato a livello mediatico che la parte sommersa dei favorevoli era assai più rilevante di quella fuori dall’acqua, più visibile solo perché più rumorosa.
Questo doppio e etto può nell’immediato aver polarizzato la discussione tra genitori pro e contro vaccinazioni ma una comunicazione meno divisiva e più bilanciata, improntata al dialogo, avverrà solo dopo che le istituzioni e la cittadinanza avranno preso coscienza dei rischi e delle dimensioni delle parti in gioco. Il cinque per cento di genitori radicalmente contrari, e l’uno per cento dei medici dubbiosi, non possono tenere sotto scacco un intero paese su un urgente tema di sanità pubblica, la cui sottovalutazione ha già lasciato sul campo decine di decessi, spesso bambini, per mancata immunizzazione.
Le teorie che danno per vincente sul medio o lungo termine il dialogo con i no-vax radicali – perlopiù teorie informatiche anguste, unicamente centrate sul bias del ritorno di fiamma – omettono almeno tre fattori. Cioè che demistificare le bufale online e su altri media aiuta a rinforzare l’informazione corretta per l’85% dei pro-vax, argina l’avanzata delle persone non vaccinate ( vaccine-refusal) creando un’opzione informativa per quel 10% circa di indecisi ( vaccine-hesitant) potenzialmente suscettibili al proselitismo dei no-vax radicali, e conferma quello che le neuroscienze cognitive ipotizzano da più di un decennio, ovvero che la comunicazione sul web tende alla polarizzazione e che i novax radicali (che, ricordiamolo, sono circa il 5 per cento) sono di cilmente convincibili, a causa non certo del debunking ma dei bias cognitivi.
Sui vaccini serve dunque un patto generazionale. I “nonni” ci hanno trasmesso alte coperture ma non la cultura del rischio delle malattie infettive; la generazione attuale, quella dell’odierna classe dirigente, sta pagando pegno, però sarebbe irresponsabile se reiterasse lo stesso errore buttando sulle spalle dei posteri questa mancata percezione. Nell’immediato è da salutare con estremo favore la legge che prevede il coinvolgimento da parte delle Asl dei genitori dubbiosi e l’introduzione come parte tecnica dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) nei processi in ambito biomedico: in tal modo si eviterà che nei tribunali vengano discussi falsi documenti e opinioni mentre verranno favorite la letteratura accreditata e prove scientifiche. Per il futuro invece occorre inserire nei programmi didattici scolastici alcuni strumenti chiave basati sulle neuroscienze: per esempio i venti concetti suggeriti dal noto psicologo dell’intelligenza James Flynn, in grado di tener lontane le future generazioni da fake news, bias cognitivi, teorie del complotto e demagogia. Oggi la cittadinanza è esclusa da decisioni tecniche sulle grandi innovazioni tecno-scientifiche ma con lo sviluppo del pensiero critico e scientifico non è impossibile immaginarne domani un coinvolgimento. A patto che dimostri, tramite corsi specifici e test, un su ciente grado di competenze.
Il web è uno strumento conoscitivo meraviglioso; a rontati con i giusti strumenti, tutti i confini appena menzionati possono essere rimossi o, meglio, diventare trasparenti e mobili: cioè persistere solo per chi dimostra di non condividere i principi del metodo scientifico e della prova basata sulle evidenze.