INSTAGRAM STORIES
IL CO-FONDATORE DELL' APP DI FOTO PIÙ FAMOSA DEL MONDO RACCONTALE SUE ORIGINI, LO SVILUPPO DELLE FUNZIONI DI SUCCESSO E LA SFIDA CON SNAPCHAT
INTERVISTA A
Mike Krieger FONDATORE DI INSTAGRAM
TESTO
Maurizio Pesce Giornalista di Wired
ART
Asger Carlsen Fotografo danese
Ottobre 2010: l’iPhone era uscito da tre anni, Android già cresceva e si faceva strada l’idea di avere sempre con sé una fotocamera. Per foto non private. «Con Instagram, volevamo aiutare la gente a raccontare le proprie storie attraverso le immagini, anche se ancora non sapevamo come». L’imprenditore brasiliano Mike Krieger è il co-fondatore – insieme a Kevin Systrom – dell’app che ha rivoluzionato la fotografia e la condivisione delle immagini. All’interno della prima versione c’erano il check-in, un mini gioco, premi da sbloccare e persino una funzione per organizzare le uscite con gli amici. L’app aveva dimensioni mostruose. «Poi ci siamo concentrati su un solo aspetto. E “Fai meno cose, ma meglio” è diventato il nostro slogan». In due mesi Instagram era già stata scaricata da un milione di persone. Sette anni dopo, appartiene a Facebook e porta avanti una sfida con Snapchat. «È un concorrente interessante, che ci costringe a migliorare sempre: basta pensare solo al flusso di idee che rimbalzano da una parte all’altra».
Qual è il ruolo di un simile concorrente: una fonte d’ispirazione, un prodotto con cui confrontarsi o, semplicemente, un altro player? C’è spazio per tutti? «La ragione per cui abbiamo aggiunto le Storie a Instagram è semplice: tante persone – tra le quali molte provenienti dal mondo della moda – ci hanno spiegato che caricando più di una foto di un determinato evento rischiavano di infastidire i follower e intasare la timeline. Per loro la soluzione consisteva nel postare una sola immagine e commentarla, invitando il pubblico a seguirli su Snapchat. Abbiamo quindi portato quell’esperienza dentro Instagram e l’abbiamo fatta nostra». Ispirazione o semplice copia? Qual è il confine che le separa? «Se ripercorri la storia della tecnologia in Silicon Valley, capisci che guardare al di là del proprio steccato in cerca di un’ispirazione per migliorarsi – o di erenziarsi – è una prassi costante. Prendiamo le nostre Storie: ok, il formato l’ha inventato Snapchat ma se l’avessimo semplicemente preso, copiato e piazzato all’interno di Instagram, non avrebbe funzionato. È stato importante chiedersi come adattarlo al resto dell’app inserendo gli hashtag e le citazioni, che per noi sono fondamentali, e valutando di volta in volta se gli sticker e gli eetti che aggiungiamo rispondono ai nostri criteri d’uso o sono semplici scopiazzature».
Un altro limite che condiziona le persone è l’orgoglio. Ai tempi del lancio, Instagram continuava ad andare in crash e vi siete rivolti ad Adam D’Angelo, ex chief technology ocer di Facebook. Quant’è dicile chiedere aiuto anziché chiudersi sul proprio prodotto? «L’engineering è un mezzo per raggiungere uno scopo. Io ho studiato una combinazione tra programmazione e design, Kevin un’altra fra programmazione e scienze del management: non siamo sviluppatori tradizionali, e ciò aiuta a essere più umili. Se avessimo studiato informatica pura, forse avremmo avuto un problema a chiedere aiuto... Sono onesto con gli sviluppatori che assumo: dico che li ho presi a bordo perché sono più bravi di me. Il mio ruolo? Organizzare e far lavorare tutti insieme per raggiungere lo scopo. In Instagram un altro motto è: “Sii umile, ma sicuro di te”».
Avere idee ben precise può anche essere un limite? Quant’è dicile programmare qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevi immaginato all’inizio? «Con quel tipo di limite è di cile mettersi in relazione, soprattutto mentre la squadra sta crescendo. Quando si è in due puoi far cambiare radicalmente direzione alla tua società in una giornata. Come abbiamo fatto con Instagram, del resto. In questi giorni sarebbe più di cile, perché abbiamo centinaia di persone a bordo. E poi ho realizzato che noi assumiamo gente appassionata di Instagram, per cui cambiare diventa spaventoso. Un esempio? Un anno e mezzo fa ci siamo aperti alle foto rettangolari – una scelta che, col senno di poi, sembra la più ovvia ma che, ai tempi, ci aveva molto preoccupati – e tutti erano sicuri che avrebbe rovinato il prodotto. Credo che, a questo punto, il nostro ruolo in quanto fondatori consista nell’abbattere questo tipo di barriere e rassicurare il gruppo». Qual è l’equilibrio tra sistemare il presente e costruire il futuro? «Ci sono stati momenti in cui questo bilanciamento non è stato il nostro forte: troppo proiettati sul futuro, aggiungevamo novità su novità. Ora che possiamo dividere la forza lavoro su diversi prodotti, siamo in grado di distribuire meglio anche le priorità – correggere gli errori o migliorare le prestazioni, per esempio – lasciando tempo anche per le cose nuove. Una cosa abbiamo imparato negli ultimi sei mesi: in termini di apprezzamento generale dell’app, aggiustamenti e miglioramenti nelle prestazioni sono importanti quanto le nuove caratteristiche».
Secondo Cliord Nass, professore tuo e di Systrom a Stanford, Instagram non è un successo tecnologico ma un trionfo di design e psicologia. In un prodotto, dove finisce la tecnologia e inizia invece l’aspetto umano, l’esperienza? «Mi sono laureato in Sistemi simbolici, un mix di linguistica, psicologia e filosofia. Probabilmente, anche in altre università esistono programmi simili, ma l’unico dottorato che li combina tutti in uno è questo che, per come lo vedo io, insegna due cose: come funzionano le macchine – da quella di Turing alla programmazione di base – e come pensano gli esseri umani dal punto di vista psicologico e comportamentale. Ma, soprattutto, impari a fare la sintesi tra queste due discipline: visto che capisco cos’è possibile dal punto di vista ingegneristico e di cosa c’è bisogno da quello umano, dovrei essere in grado di tirar fuori un prodotto innovativo e interessante. Una laurea ideale, per un imprenditore. Sono d’accordo con Nass: di per sé la tecnologia, che neppure dovrebbe essere visibile, è interessante solo se può essere utilizzata per risolvere problemi reali».