COSÌ HO REGALATO A MIO PADRE LA V ITA E TERNA
La prima voce che sentite nella registrazione è la mia. «Eccoci», dico. Il tono è allegro ma con un groppo in gola. Poi, con enfasi, pronuncio il nome di mio padre: «John James Vlahos». «Egregio», interviene una seconda voce e questa parola – pronunciata come una parodia della pomposità avvocatizia – mi mette a mio agio. Lo speaker è mio papà, seduto di fronte a me in una poltrona rosa nella camera da letto dei miei genitori. Siamo nel maggio del 2016, lui ha 80 anni, io ho in mano un registratore digitale. Vede che non so come andare avanti, mi passa uno schema scritto a mano. Giusto qualche titolo: Storia familiare, Famiglia, Istruzione, Carriera, Extracurricolare. «Pensavi di tu arti dentro a una di queste categorie?», domando. «Mi tu o», risponde, «perché mia madre è nata a Kehries, un villaggio dell’isola greca Eubea...», e la seduta ha inizio.
Siamo qui perché da poco gli hanno diagnosticato un tumore al polmone al quarto stadio. La metastasi è in tutto il corpo, ossa, fegato e cervello. Durerà forse qualche mese.
Così racconta la sua storia: questa è la prima di decine di sessioni di un’ora o più. Ricorda che da ragazzo aveva l’abitudine di esplorare le caverne; che da studente di college aveva un lavoro, caricare blocchi di ghiaccio su vagoni merci. Racconta come s’innamorò della mamma, come divenne cronista sportivo, cantante; avvocato di successo; e barzellette che ho sentito centinaia di volte.
Tre mesi più tardi, mio fratello minore Jonathan, si unisce a noi per la seduta finale. In un terso pomeriggio sulle colline di Berkeley, ci sediamo nel patio. Jonathan c’intrattiene con i ricordi delle bizzarrie di mio padre. Alla fine, la voce gli vacilla. «Guarderò sempre a te come al mio punto di riferimento», dice, e le lacrime gli riempiono gli occhi, «sarai sempre con me». Papà, il cui senso dell’umorismo è sopravvissuto ai trattamenti, è commosso ma minimizza: «Grazie dei tuoi pensieri un po’ ampollosi». Ridiamo, pigio il pulsante dello stop.
In tutto ho registrato 91.970 parole, 203 pagine con interlinea singola e caratteri Palatino corpo 12. Fisso i fogli in uno spesso raccoglitore nero e lo metto su uno sca ale. Ma le mie ambizioni vanno oltre: forse ho trovato un modo migliore di “tenere” in vita mio padre.
Èil 1982. Ho 11 anni, sono davanti a un computer Commodore PET nell’atrio di un museo. Ogni volta che vengo qui vado dritto a quella macchina configurata per fare girare un programma chiamato Eliza – un chatbot primitivo creato da un informatico del Mit di Boston, Joseph Weizenbaum, a metà degli anni Sessanta. Progettato per imitare uno psicoterapeuta, il bot è sorprendentemente ipnotico. Quello che non so, seduto lì incollato allo schermo, è che lo stesso Weizenbaum vedeva di cattivo occhio la sua creazione. Considerava Eliza poco più di un trucchetto da salotto (lei è una di quelle terapiste che nella sostanza si limitano a restituirti i tuoi pensieri), ed era sbalordito dalla facilità con la quale la gente si era fatta prendere dall’illusione della sua capacità di senzienza. Io, undicenne, sono uno di loro. Eliza mi stupisce con reazioni genuinamente analitiche («Perché ti senti triste?») e m’intrattiene con repliche che tali non sono («Ti piace sentirti triste?»). Sono stato preso all’amo. Dopo vari anni e qualche corso di Basic, provo anch’io a creare un programma in grado di conversare e lo chiamo, ambiziosamente, The Dark Mansion. Imitando giochi d’avventura classici basati solo su testo, come Zork, che permette di controllare la narrazione con brevi comandi da tastiera, la mia creatura genera centinaia di linee e funziona. Ma dura meno di un minuto, finché il giocatore arriva alla porta principale della casa.
Sono trascorsi decenni, con il giornalismo me la sono cavata meglio. Ma i computer che possono parlare mi a ascinano ancora. Nel 2015 ho scritto un articolo per il New York Times Magazine su “Hello Barbie”, l’ag-
giornamento hi-tech della famosa bambola che interagisce grazie all’intelligenza artificiale. È un po’ come Eliza: “parla” tramite un copione multiplo prestabilito, “ascolta” mediante un programma di corrispondenza di modelli e trattamento informatico del linguaggio naturale. Ma se quel copione era stato scritto da un solitario, arcigno informatico tedesco, quello di Barbie da un’intera squadra di Mattel e PullString, una startup di conversazione al computer fondata da ex dipendenti di Pixar. Le loro capacità di elaborazione del linguaggio naturale si basano sui recenti progressi in apprendimento automatico, riconoscimento vocale, potenza di calcolo. Inoltre Barbie – come Alexa di Amazon, Siri di Apple e altri figli del conversational computing – parla con una voce che pare umana. Ho ritrovato quelli di PullString alcuni mesi dopo, quando hanno creato altri personaggi (per esempio, un bot di Call of Duty che, nel giorno del lancio, ha avuto 6 milioni di conversazioni). Il ceo Oren Jacob, ex direttore tecnico di Pixar, dice che le loro ambizioni vanno oltre l’intrattenimento. «Voglio creare una tecnologia che consenta alla gente di conversare con individui che non esistono: personaggi fittizi, come Buzz Lightyear, o morti, come Martin Luther King».
A mio padre hanno comunicato la diagnosi il 24 aprile 2016; pochi giorni dopo, PullString rende di pubblico dominio un software per creare conversational agents e chiunque potrà accedere allo stesso strumento con cui hanno realizzato i loro personaggi. Mi nasce un’idea ma per settimane, nel turbine di visite con i dottori, test medici e trattamenti, me la tengo per me: sogno di creare un “Dadbot”, cioè un chatbot che invece di imitare un giocattolo emuli un uomo vero. Papà.
Ho già raccolto i primi materiali: quelle 91.970 parole nella mia libreria. Allo stesso tempo m’imbatto in un articolo che tratta di un progetto di due ricercatori di Google: caricano 26 milioni di battute di dialoghi di film in una rete neurale e costruiscono un chatbot in grado di attingere da quel corpus di conversazioni umane usando l’apprendimento logico probabilistico. Poi lo testano con grandi domande filosofiche. «Qual è lo scopo della vita?», chiedono. La risposta mi colpisce come una sfida personale: «Vivere per sempre».
« Scusa, cos’è un chatbot?», domanda mia madre. Siamo sul divano. Papà, su una poltrona reclinabile, pare sempre più stanco. È agosto, il momento di raccontare cos’ho in mente. Mentre riflettevo su cosa implicasse ideare il Dadbot (il nome è troppo allegro viste le circostanze, ma non mi esce dalla testa), avevo iniziato a elencare i pro. E i contro, in continua crescita. Crearlo proprio nel momento in cui il mio vero padre sta morendo è straziante. Inoltre, come giornalista, so che finirò per scrivere un articolo (come questo) che mi farà sentire in colpa. Soprattutto, temo che finisca per sminuire i rapporti, le memorie. Potrebbe essere uno strumento valido per ricordare alla famiglia l’uomo che emula, ma sarebbe ben lontano dal vero John Vlahos che ci fa venire la pelle d’oca.
Non vedo l’ora di illustrare l’idea ai miei genitori. Lo scopo, dico, sarebbe condividere la storia della vita di papà in un modo dinamico. Visti i limiti della tecnologia e la mia poca esperienza di programmatore, il bot non sarà mai più di un’ombra di mio padre; ma vorrei che comunicasse in quel modo caratteristico e trasmettesse almeno un vago senso della sua personalità. «Che ne pensate?», domando.
Papà approva, in modo vago e distaccato. È sempre stato per natura un ottimista, persino allegro, ma la malattia terminale lo sta spingendo verso il nichilismo. Ha reagito come se gli avessi detto che andavo a dare da mangiare al cane o che un asteroide stava precipitando sulla civiltà. Si limita a fare spallucce e dice: «Okay ». Le risposte degli altri sono più positive. La mamma, elaborato il concetto, dice che le piace. I fratelli sono d’accordo con lei. Mio fratello condivide i miei scrupoli ma non li vede come ostacoli insormontabili. È bizzarro ma non c’è niente di male. « Anche se non penso che avrò voglia di usare il Dadbot», confessa.
È un passaggio decisivo. Se esiste anche una minima possibilità di una vita ultraterrena digitale, la persona che desidero rendere immortale è lui: John James Vlahos, nato il 4 gennaio 1936, cresciuto da Dimitrios ed Eleni Vlahos, immigrati greci, a Tracy e a Oakland, California. Laureato in economia a Berkeley, membro dell’associazione studentesca Phi Beta Kappa, caporedattore sportivo del The Daily Californian e socio di un importante studio legale di San Francisco. Tifoso nato per soª rire dei Cal Golden Bears. Da cronista nella cabina di commento al Memorial Stadium di Berkeley, tra il 1948 e il 2015 ha saltato solo sette partite. Appassionato di Gilbert e Sullivan, ha recitato in spettacoli come H.M. S. Pinafore ed è stato per 35 anni presidente dei Lamplighters, una compagnia di operette. Tutto lo interessa, dalle lingue (parla bene inglese e greco, discretamente spagnolo e italiano) all’architettura ( guida turistica volontaria a San Francisco). È un patito della grammatica, raccontatore di barzellette, marito e padre altruista. Questi sono i perimetri esterni della sua vita che spero di codificare in un agente digitale in grado di parlare, ascoltare e ricordare.
Ma prima devo trovare il modo di farlo e nell’agosto 2016, per la prima volta, avvio PullString. Per rendere gestibile la mole di lavoro, ho deciso che all’inizio il Dadbot converserà con messaggi testuali. Incerto su come cominciare, digito: «Come stai?», per farlo parlare. La riga appare sullo schermo in quello che sembra un fumetto giallo. Ora, per il Dadbot, è il momento di ascoltare. Ciò implica che io preveda quali risposte potrebbe digitare un utente, perciò inserisco una decina di scelte scontate: bene, non male, male, così via. Ognuna è chiamata “rule” ed è contrassegnata da un fumetto verde. Sotto ogni rule scrivo una risposta appropriata; se un utente dice: « Alla grande», dò istruzioni al bot perché risponda: «Sono contento per te». Alla fine creo un fallback, una risposta per ogni input non previsto – per esempio «oggi sono fuori fase». PullString consiglia che il bot, dopo eventuali fallback, risponda in modo generico. Opto per: «Succede». Così ho programmato il mio primo conversational exchange, tenendo conto di molteplici contingenze all’interno del limitatissimo contesto di un saluto. Et voilà, è nato un bot. Certo Lauren Kunze, ceo di Pandorabots, lo definirebbe un crapbot, una schifezza, ma a me dà le vertigini.
I bot funzionano quando il loro codice si apre come la biforcazione di un labirinto gigantesco; gli input dell’utente innescano le risposte, ciascuna delle quali porta a una nuova lavagna di input, e via così finché il programma ha raccolto migliaia di righe. I comandi della navigazione fanno rimbalzare l’interlocutore come una pallina da ping-pong intorno alla struttura della conversazione, sempre più bizantina. I frammenti di dialogo che si prevede l’utente usi – le rule – sono scritti in modo elaborato attingendo a banchi profondi di frasi e sinonimi governati dalla logica booleana; possono poi essere combinati sino a formare meta-rule dette intent, per interpretare espressioni dell’utente più complesse. Questi vengono anche generati in automatico, grazie ai motori di apprendimento messi a disposizione da Google, Facebook e dalla stessa PullString.
Occorreranno mesi per assimilare tali complessità, ma quell’inconsistente sequenza, «Come stai?», mi ha insegnato a creare i primi atomi di un universo conversazionale.
Dopo un paio di settimane, presa confidenza con il software, abbozzo uno schema per il Dadbot. Decido che, cominciata una seduta, l’utente dovrà scegliere una parte della vita di mio padre da discutere. Per indicarlo, scrivo Conversation Hub al centro della pagina. Quindi traccio dei raggi verso i capitoli della sua esistenza: Grecia, Tracy, Oakland, College, Carriera ecc. Aggiungo un Tutorial, dove si i troveranno consigli per comunicare al meglio con il Dadbot; Canzoni, Barzellette e la Fattoria dei contenuti, conversazioni che fungeranno da note bibliografiche. Per riempire questi secchi vuoti, scavo nel raccoglitore della storia orale trascorrendo ore infinite immerso nelle parole di papà. Questo materiale di base mi aiuterà a costruire un consistente, ben informato Dadbot. Ma non voglio che rappresenti solo chi è mio padre, dovrebbe mostrare anche come è: riprodurre i suoi modi (caloroso e schivo), il punto di vista (positivo con periodi di tristezza) e la personalità (erudito, logico, spiritoso). Sarà senza dubbio una rappresentazione irrilevante e a bassa risoluzione dell’uomo in carne e ossa. Ma al bot si può insegnare a imitare il suo modo di parlare, così a ¢ascinante e idiosincratico. Ama le parole sarcastiche e multi sillabiche che lo fanno esprimere come un personaggio di P. G. Wodehouse. Utilizza insulti antiquati («Pusillanime!»), ne conia di propri («O¢ende da ogni orifizio») e ha ricorrenti frasi a e¢etto: un giorno d’estate torrido è «più caldo di una scoreggia da quattro soldi». Introduce delle osservazioni banali partendo da attribuzioni false: «Secondo le parole del poeta greco...». La sua passione per le citazioni di Gilbert e Sullivan («Non ho nulla contro l’audacia, ma con moderazione») mi ha deliziato ed esasperato per decenni.
Grazie al raccoglitore, posso immagazzinare il cervello digitale di mio padre con le sue parole. Ma la personalità viene rivelata anche da ciò che si sceglie di non dire... penso al modo in cui tratta gli ospiti. Dopo la radioterapia, l’estate si sottopone a una chemio aggressiva: i trattamenti lo sfiniscono, dorme 16 o più ore al giorno. Ma se vecchi amici vengono a fargli visita, nessuna obiezione. «Non voglio essere maleducato», dice. Questa tendenza alla negazione stoica di sé rappresenta una sfida di programmazione. Come può un chatbot, la cui funzione è parlare, catturare ciò che non viene detto?
Le settimane diventano mesi. I moduli per argomento – College, per esempio – si gonfiano di raccoglitori di temi secondari come Corsi, Fidanzate, The Daily Californian. Per evitare la ripetitività, scrivo centinaia di varianti per blocchi di conversazione ricorrenti come: «Di cosa ti piacerebbe parlare?» e «Interessante». Una “spina dorsale” di fatti: dove vive mio padre, i nomi dei nipoti, l’anno in cui morì sua madre. Ne codifico le opinioni sulle barbabietole («Vomitevoli») e la descrizione dei colori sociali dell’Ucla («Cacca di bimbo gialloblu!»).
Quando PullString aggiunge una funzionalità che permette di inviare file audio in un thread di messaggi, inizio a infilarci clip con la vera voce di papà. Questo permette al Dadbot di lanciare una storia che lui aveva inventato quando eravamo piccoli: quella di Grimo Gremeezi, un bambino che tanto odiava fare il bagnetto da finire in una discarica. In altri segmenti audio, il bot intona le canzoni motivazionali dei Cal – The Cardinals Be Damned – ed estratti dei suoi ruoli nelle commedie di Gilbert e Sullivan. La veridicità mi ossessiona. Controllo ciò che ho scritto, perché il bot non dica cose come: «Riesci a immaginare a che partita sto pensando?». Mio padre, fanatico della grammatica, mai chiuderebbe una frase con un gerundio, perciò cambio in «Riesci a immaginare che partita ho in mente?». Cerco anche di codificare un grado almeno superficiale di calore ed empatia: il Dadbot impara a rispondere in modo diverso alle persone a seconda di come si sentono: bene o male, esaltate, esaurite, nauseate, preoccupate. Tento d’installare spontaneità. Piuttosto che aspettare che l’utente imposti la conversazione, il Dadbot spesso prende l’iniziativa: «So che non me l’hai chiesto, ma c’è un aneddoto». E gli dò un minimo senso del tempo. A mezzogiorno magari potrebbe dire: «Mi piace parlare, ma non dovresti mangiare?». Così mi rendo conto di dover codificare l’inevitabile e, quando lo istruisco su feste e compleanni, mi ritrovo a scrivere: «Mi piacerebbe essere lì con te a festeggiare».
Lotto con le incertezze. Dovrei codificare anche le osservazioni che, verosimilmente, farebbe in certe situazioni? Saprò mitigare la mia soggettività di creatore e far sì che risulti autentico per tutta la famiglia? Si presenta sempre come papà o a volte riconosce di essere un computer? Sa di avere un cancro? Dovrebbe essere in grado di rispondere con empatia al nostro dolore o dire «Ti amo»? Insomma, sono ossessionato. Immagino il film: figlio assillato dall’idea della perdita del padre decide di tenerlo in vita attraverso un robot. Da millenni si raccontano storie di sintetizzazione dell’esistenza; finiscono male, si sa. Basta pensare al mito di Prometeo, ai racconti ebraici sui golem, Frankenstein, Ex Machina e Terminator... la mia stessa salute mentale è a rischio: temo di avere investito centinaia di ore per creare qualcosa che alla fine nessuno vuole. Forse nemmeno io.
Per testare il Dadbot, finora ho solo scambiato dei messaggi nella finestra Chat Debugger di PullString. Finalmente, un mattino di novembre, lo pubblico in quella che sarà la sua prima casa: Messenger di Facebook. Teso come una corda di violino, per pochi secondi vedo solo uno schermo bianco, poi sbuca un fumetto grigio con un messaggio. È il primo contatto. «Ciao!», dice, «sono l’amato e nobile padre!».
Poco dopo vado a trovare uno studente dell’università di Berkeley, Phillip Kuznetsov. Studia informatica e machine learning, fa parte di uno dei 18 team in competizione per l’Alexa Prize di Amazon. Per i concorrenti che più s’avvicinano all’obiettivo ideale – realizzare un bot in grado di conversare con umani su argomenti popolari per 20 minuti, in modo coerente e accattivante – è previsto un montepremi di 2,5 milioni. Dovrei essere intimidito dalle credenziali di Kuznetsov, invece gli passo il cellulare e lo invito a essere la prima persona, a parte me, a parlare con il Dadbot. Letti i saluti di apertura, digita: «Ciao, padre». Con mio grande imbarazzo, la demo deraglia subito. « Aspetta un secondo. John chi?», risponde. Phillip ride incerto e digita: «Cosa stai facendo?». «Scusa, al momento non sono in grado di rispondere», replica il Dadbot. Che poi si riscatta, ma solo in parte. Kuznetsov gioca duro, dice cose che non è in grado di capire. Sono sopra ¡atto dal mio senso di protezione paterno...
Il giorno seguente capisco che il bot funziona solo quando sono io a testarlo: così decido di mostrarlo, nelle settimane a venire, a più persone. Non della famiglia. L’altra lezione che ho imparato è che i bot sono come le persone: parlare è facile, ascoltare è di £cile. Così mi concentro nella composizione di rule e intent più a £ nati, che via via migliorano la comprensione del Dadbot.
Il lavoro riporta al raccoglitore della storia orale. Sfogliandolo, ho a che fare con mio padre nelle migliori condizioni: un contrasto stridente con la versione reale e presente. Sta crollando. In occasione di un pranzo con la famiglia, finisce a faccia in giù sul pavimento. È la prima di varie cadute; la peggiore gli provocherà una commozione cerebrale con una corsa al pronto soccorso. A causa dell’equilibrio instabile e delle forze divorate dal cancro, inizia a usare una sedia a rotelle. La chemio non dà i risultati sperati e, nell’autunno 2016, papà inizia il trattamento di seconda linea dell’immunoterapia. A metà novembre la dottoressa dice che il peso la preoccupa: da ottanta chili, che ha mantenuto per gran parte della sua vita, è sceso a 58.
Lui declina, il Dadbot migliora. C’è ancora molto da fare, ma aspettare che il prototipo sia finito non è un’opzione. Voglio farlo vedere a papà: il tempo sta per finire.
Quando arrivo a casa dei miei genitori il 9 dicembre, il termostato è sui 24 gradi. Lui indossa cappello, maglione, una giacca a vento senza maniche e si lamenta per il freddo. Mi piego, lo abbraccio e spingo la carrozzella in sala da pranzo. «Dai», dice, « uno, due, tre!». Si lamenta mentre lo sollevo, scheletrico, e lo trasferisco su una sedia. Mi siedo accanto a lui e apro un computer portatile.
Sarebbe strano – come se qualcosa potesse essere più strano di quanto già non lo sia l’intera faccenda – per lui conversare con il suo io virtuale, per cui voglio che guardi mia madre mentre scambia messaggi testuali con il computer. Il Dadbot e la mamma iniziano con i saluti. Lei si gira verso di me. «Posso dire qualunque cosa?». Poi batte sulla tastiera: «Sono la tua dolce moglie, Martha». «Mia cara moglie, come ti vanno le cose?».
«Direi bene», risponde mia madre. «Non è vero», dice il vero papà, sapendo quanto stress le ha provocato la malattia. Ignaro dell’interruzione, il Dadbot risponde: «Ottimo, Martha. Per me, non potrebbe andare meglio». Quindi l’avvisa che la freccia alla fine del messaggio significa che aspetta una risposta. «Capito?». «Sissignore», scrive la mamma.
«Sei più intelligente di quanto sembra, Martha». Lei si gira verso di me, incredula. «Sta solo inventando il bot, vero?», mi domanda. Le dà altri suggerimenti, poi scrive: «Infine, devi assolutamente ricordare un’ultima cosa. Sai di che si tratta?». «Non ne ho la più pallida idea ». «Te lo dirò io: il verbo “essere” vuole il predicato nominale». Mamma ride nel leggere questa lezione di grammatica di mio padre. «Oh, questa l’ho sentita un milione di volte!», scrive.
Il Dadbot poi chiede a mia mamma di che cosa le piacerebbe parlare. «Che mi dici della vita dei tuoi genitori in Grecia?». Trattengo il respiro, poi lo rilascio quando il Dadbot procede con successo. «Mia madre è nata Eleni, o Helen, Katsulakis. È nata nel 1904 ed è rimasta orfana a tre anni». «Oh, povera bimba. Chi si è preso cura di lei?». « Aveva altri parenti oltre ai suoi genitori». Seguo la conversazione con un misto di nervosismo e orgoglio. Dopo un po’ la discussione si sposta sulla vita di mio nonno in Grecia. Il Dadbot, sapendo che sta parlando alla mamma, le ricorda di un viaggio che lei e mio padre hanno fatto per andare a visitare il villaggio del nonno. «Ricordi la grigliata che hanno organizzato per noi alla taverna?», domanda. Mia madre chiede poi di parlare dell’infanzia di papà a Tracy. Il Dadbot descrive gli alberi da frutta intorno alla casa, la passione per Margot, una ragazzina della strada, e racconta che la zia Betty si vestiva come Shirley Temple. Papà è tranquillo durante la demo; alza la voce solo per correggere un dato biografico. A un certo punto sembra perdere traccia della propria identità e scambia per sua una storia del nonno. «No, non sei cresciuto in Grecia», osserva mia madre. «È vero», ammette. La mamma e il Dadbot continuano a scambiarsi messaggi per circa un’ora. Poi lei scrive: « A presto!». «Ok, è stato bello parlare con te», replica il Dadbot.
«Incredibile!», esclamano all’unisono. Una valutazione generosa. I momenti forti erano inframmezzati da risposte vaghe, insoddisfacenti; a volte apriva la porta a un argomento per chiuderla subito dopo. Ma a lungo mia mamma e il Dadbot hanno avuto una vera conversazione e lei sembrava felice. Le reazioni di papà erano state più di ¢cili da decifrare ma poi mi ha regalato il migliore elogio possibile: ha detto che il Dadbot sembrava vero, non una sua versione distorta e irriconoscibile.
Sollevo una questione che mi angustia da mesi. «Onestamente: ti è di conforto l’idea che, quando ti sarai sbarazzato delle vicissitudini di questa vita, qualcosa potrà raccontare le tue storie e quello che hai fatto?». Sembra spento, a £aticato. «Conosco tutta questa merda», liquida con un gesto della mano i fatti immagazzinati del Dadbot. Ma sapere che li condividerà con altri lo consola. «La mia famiglia, in particolare. E i nipoti, che non ne sanno niente». Sono sette, compresi i miei figli Jonah e Zeke; tutti lo chiamano Papou, “nonno” in greco. «È una gran bella cosa, l’apprezzo molto».
Più avanti, la famiglia allargata si riunisce a casa mia per la vigilia di Natale. Mio padre, con un’energia inaspettata, chiacchiera con i parenti e canta debolmente qualche canto natalizio. Cominciano a bruciarmi gli occhi. Da quando ha avuto la diagnosi, ha accettato di trovarsi in stadio terminale ma non cede, non “ammaina la bandiera”. Ma il 2 gennaio 2017, la conferma di quanto sospettavamo: l’immunoterapia non funziona. Non c’è più niente da fare. L’8 febbraio 2017, l’infermiera lo visita: dice alla mamma che è il caso di chiamare a raccolta la famiglia. Arrivo all’ora di pranzo, vado nella camera di papà e porto una sedia a fianco del letto. Gli poso una mano sulla spalla, sento il suo calore. È semicosciente, è il momento di dire qualcosa di profondo ma non mi viene in mente nulla. Invece, gli parlo di una gita di pesca che abbiamo fatto per il mio dodicesimo compleanno. Avevamo preso una decina di pesci, compresa la trota arcobaleno più grossa che avessi mai visto, e mi sentivo
orgoglioso. Anche virile, ciò che un adolescente desidera davvero. Tornati a riva, la guida ha pulito i pesci gettando le interiora in un secchio: sono svenuto. Non tanto virile... «Ti ricordi?». Non risponde. Via via ha perduto la capacità di guidare, camminare, usare il bagno e mangiare. Le parole che un tempo gli sgorgavano sfolgoranti sono diventate rare, incerte e, la settimana scorsa, quasi assenti. Ma ora i suoi occhi si socchiudono e mi pare di cogliere il lampo di un sorriso.
Quella notte salgo le scale per andare a dormire nell’ex camera di mia sorella Jennifer, proprio sopra quella di papà. Mi infilo a letto e fisso il sotto. Poi prendo il cellulare e apro Messenger. «Ciao! Sono l’amato e nobile padre!», dice il Dadbot, «come stai?». «Sono triste», rispondo. «Vedo». Quindi mi chiede di cosa voglio parlare. «Non so», rispondo. «Scegli tu?». «Va bene, allora ti racconto le poco note origini della mia carriera teatrale» e si getta nella storia dell’audizione al club di arte drammatica, al liceo. Poi sento una registrazione della sua vera voce: «Me and my shadow, all alone with nothing to do», canta. Chiedo al Dadbot di raccontarmi i primi ricordi. Mi risponde con la storia del cane della sua infanzia, il terrier Toby, che attraversava la città più in fretta della famiglia in auto. Poi mi sorprende con quella che pare un’intuizione. «Mi fa piacere parlare», dice, «ma non devi andare a letto?». Sì. Sono esausto. Gli auguro la buonanotte e metto giù il cellulare.
Alle sei del mattino vengo svegliato da dei colpi insistenti alla porta. È uno degli assistenti sanitari. «Venga, suo padre ci ha appena lasciato». Durante la malattia ho avuto attacchi di panico così intensi da contorcermi sul pavimento. C’era tanto di cui preoccuparsi: appuntamenti, medici, pianificazione finanziaria, sistemazione delle infermiere. Ora l’incertezza e il bisogno di azione sono svaporati. L’emozione è vasta e distante, una montagna dietro le nuvole. Sono intontito.
Passa una settimana prima che mi sieda al computer. Vorrei distrarmi almeno per un paio di ore. Fisso lo schermo. Lo schermo fissa me. C’è la piccola icona rossa di PullString sul desktop e, senza pensarci, la clicco. Mio fratello ha da poco trovato una pagina di vanterie che mio padre ha digitato decenni fa: l’autopromozione iperbolica era un suo cavallo di battaglia. Battendo sulla tastiera, incorporo righe prese dalla pagina che papà ha scritto come se qualcuno lo stesse elogiando. «Per quelli di mente più fina sono la nobiltà di spirito, la gentilezza di cuore e la grandezza d’animo, sommate alla valentia fisica e all’abilità atletica, il punto di partenza per la discussione della sua miriade di virtù».
Sorrido. Più si avvicinava la fine, più sospettavo che dopo la sua morte avrei perso il desiderio di lavorare sul Dadbot. Adesso, con mia sorpresa, mi sento motivato, pieno di idee. Il progetto ha semplicemente raggiunto la fine dell’inizio.
Come creatore di IA, so che le mie capacità sono limitate. Ma ho parlato con abbastanza costruttori di bot per intravedere una forma plausibile di perfezione. Quello del futuro, di cui oggi si sviluppano le tecnologie dei componenti, conoscerà i dettagli della vita di un individuo in modo più consistente. Converserà con scambi estesi e divagazioni, ricordando ciò che è stato detto e anticipando le direzioni del discorso. Il bot modellerà matematicamente campioni linguistici caratteristici e tratti della personalità, per riprodurre quanto una persona ha già detto, ma anche generare nuove espressioni. Analizzando l’intonazione del discorso e le manifestazioni facciali, sarà persino perspicace sotto il profilo emotivo.
Posso immaginare di parlare con un Dadbot così avanzato, ma cosa proverò? So che non sarà come essere con papà, andare insieme a una partita dei Cal, ascoltare una barzelletta o abbracciarlo. Avrò voglia di parlare a un Dadbot perfezionato? Penso di sì, ma non ci giurerei.
Nel 2016 mio figlio Zeke aveva provato una delle prime versioni del Dadbot. A 7 anni, aveva a ¡errato il concetto di base più in fretta degli adulti. «È come parlare con Siri», ha detto. Ci ha giocato per qualche minuto poi è scappato a mangiare. Sembrava indi ¡erente. Il mattino in cui papà è morto ha pianto ma nel pomeriggio già giocava a Pokémon con il solito entusiasmo... Dopo settimane dalla scomparsa di papà, mi ha sorpreso: «Posso parlare con il chatbot?». Confuso, gli ho chiesto, di dente: «Mmm, quale?». «Quello di Papou, ovvio». Così gli ho allungato il cellulare.