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L ELEGGI SUL COPYRIGHT SON OSTATE STABILITE NEL 1662. MALARE TE HA CAMBIATO TUTTO. SECONDO IL CE ODI CREATIVE COMMONS OGGI CIASCUNO DI NOI È DETENTORE DI UN DIRITTO D' AUTORE ED È LIBERO DI COPIARE
Aun certo punto, più o meno fra una ventina d’anni, si potrà viaggiare con un volo spaziale suborbitale di tipo commerciale da ogni punto della terra a un altro. Pechino, Città del Capo, Toronto. Qualunque città scegliate, meno di venti minuti. Pensate a quanto diventeranno complesse le leggi, i regolamenti e le procedure che renderanno possibili questi voli spaziali. Saranno accessibili a tutti, non più un’esperienza riservata a un’élite di astronauti. Si viaggerà per migliaia di miglia al giorno, superando confini territoriali a 22mila chilometri all’ora, attraversando un cielo solcato da migliaia di satelliti e dalla Stazione spaziale internazionale. Adesso immaginate di regolare questo nuovo settore prendendo il Codice della strada e aggiungendovi semplicemente la parola «spaziale». È quanto è successo alle leggi sul copyright nell’era del web, degli smartphone e dei social media: abbiamo preso le vecchie norme e abbiamo aggiunto «digitale» e «online». Ha funzionato più o meno come ci aspettavamo.
L’applicazione delle vecchie regole sul diritto d’autore, per esempio, ha provocato situazioni assurde. Quando la pratica della condivisione è esplosa grazie al web, l’abbiamo applicato in modo automatico su tutto. In tal modo, da un giorno all’altro ci siamo trovati di fronte a miliardi di titolari di diritti d’autore, che perlopiù nemmeno sanno di detenerli. Internet ha reso facile ed economico creare database di contenuti e, dato che non c’è più bisogno di registrare i propri lavori, identificarli diventa impossibile. In Italia per esempio non esiste la cosiddetta “Libertà di panorama”, una legge cioè che regoli la possibilità di pubblicare online fotografie di edifici e luoghi pubblici e monumenti.
Ecco cos’è diventato oggi il diritto d’autore. Ma non è certo nato per questo: è stato creato secoli fa per l’era dei libri, non per quella di internet in cui i dati viaggiano per tutto il mondo in un secondo. Oggi la questione è solo un singolo punto di un’infinita lista dei negoziati commerciali, un intricato insieme di accordi in cui sono mischiate cose molto diverse come le tari e sulle esportazioni del settore automobilistico o le quote sulle importazioni degli abiti da u cio da uomo.
Di cile capire come a rontare la questione, anche se va riconosciuto che le leggi sul diritto d’autore non sono state fondate su norme consuete come la raccolta di prove, la ricerca del movente e l’accertamento dei fatti. Dovremmo anzi chiederci come sarebbero se lo fossero state.
Sento dire che le mie considerazioni sull’attuale limitazione della condivisione online non sono corrette, perché in rete tutto sarebbe condiviso. Provate a dirlo a un documentarista che cerca di acquisire i diritti per usare una certa musica nel suo film o a un imprenditore denunciato da un cosiddetto “patent troll”, un tru atore che registra online il maggior numero di brevetti possibile solo per fare soldi; oppure a un remixer che ha ricevuto un avviso di violazione del copyright e una notifica di rimozione delle proprie composizioni. Provate a chiederlo, magari, a uno scienziato che vuole visionare documenti sulla ricerca contro il cancro e si trova di fronte a una sottoscrizione a pagamento dopo l’altra; e provate magari a chiederlo anche all’insegnante di una scuola con pochi fondi pubblici che cerca contenuti per i suoi studenti.
Eppure il diritto d’autore, originariamente, era stato concepito per regolamentare il rapporto fra interesse pubblico e privato. In modo da stimolare l’innovazione, incoraggiare la scoperta, motivare la creatività. Invece oggi sembra uno strumento ideale per riuscire a sfruttare al massimo il lavoro creativo e a ricavare la maggiore quantità di denaro possibile. Fare in modo diverso è considerato una follia, tipo trasformare il vino in acqua. Ignoriamo che la creatività, l’innovazione e la scoperta sono spesso il risultato diretto della libera e piena condivisione di informazioni.
I dati ci dicono invece che dovremmo fare proprio quello, rinunciare ai nostri vantaggi economici. Scrive il docente di business di Harvard Adam Grant nel suo saggio Più dai più hai. Un approccio rivoluzionario al successo: «Chi sarà disposto a dare via per primo si troverà in vantaggio dopo». L’atto del dare, secondo gli studiosi, non solo gratifica chi lo compie ma ispira gli altri a fare altrettanto.
Qualche anno fa ero al Massey College di Toronto per una conferenza del futurologo Stewart Brand sul progetto Long Now Foundation, la creazione di un orologio meccanico studiato per segnare il tempo per i prossimi diecimila anni (“Clock of the Long Now”). Per sviluppare il progetto, Stewart lavora con governi, aziende e multinazionali facendo pianificazioni che coprono un lasso di tempo che va dai 50 ai 100 anni: ha scoperto che, quando si parla di programmazione cinquantennale, le multinazionali smettono di pensare in termini di
prezzi, risultati, profitto, ricavi o perdite e iniziano a ragionare intorno al concetto di comunità. Chiedono informazioni sulla qualità delle scuole e delle infrastrutture, perché determinano sia le competenze che la salute della forza lavoro nel lungo termine, e la loro capacità di attirare i talenti migliori. Diventano dei collaboratori, anche se continuano nel frattempo a promuovere il proprio interesse.
Questo succede sul web, o almeno quanto dovrebbe accadere. Internet è la più potente forma di comunicazione, collaborazione e commercio nella storia dell’umanità, vogliamo davvero che diventi un mero groviglio di servizi a pagamento? Avrebbe dovuto creare un mondo di condivisione e collaborazione, invece abbiamo un diritto d’autore sempre più restrittivo e meno libertà di usare anche i contenuti che in teoria “possediamo”.
È quanto il giurista Lawrence Lessig ripete nel saggio Cultura libera: un equilibrio tra anarchia e controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale: «Siamo una società sempre meno libera». Una situazione vera soprattutto nel settore della creatività e della conoscenza. I titolari di diritti e gli editori tradizionali controllano il modo in cui accediamo alla conoscenza, anche se hanno costruito i propri imperi proprio sull’accessibilità di musica, arte, cultura, folklore e molto altro. «Il passato cerca sempre di controllare la creatività che ha originato», aggiunge Lessig. Per ora possiamo dire che quel passato sta facendo un ottimo lavoro: ha usato la sua influenza per assicurarsi che le leggi sul copyright ci limitino, stravolgendo il concetto stesso di diritto d’autore in modo decisamente deludente e miope.
Ma non tutto è perduto. Creative Commons è un’organizzazione senza scopo di lucro che, grazie a strumenti semplici, permette a chiunque di condividere il proprio lavoro. Non abbiamo cambiato le leggi sul diritto d’autore, le abbiamo hackerate in modo da creare una valvola di sfogo, un set di licenze gratuite in cui gli utenti possono scegliere quali diritti si riservano (interamente o divisi in parti eguali) e a quali rinunciano perché divengano di pubblico dominio. Queste licenze sono inserite nelle piattaforme di contenuti più famose al mondo e possono essere utilizzate in ogni settore, dalla ricerca accademica all’educazione, dalle fotografie alla musica, ai video. Lo facciamo insieme ai nostri utenti, milioni di creatori da tutto il mondo che hanno usato le licenze libere Creative Commons per condividere online 1,2 miliardi di volte ogni tipo di contenuto: video, foto, articoli scientifici, modelli in 3D.
Il risultato è una piattaforma di reale cooperazione in cui ogni autore invita gli altri a collaborare. Una realtà che mostra quanto possa essere potente la condivisione pur all’interno del sistema di regole del copyright.
Una cooperazione che, in tutta sincerità, non dovrebbe essere così di cile. L’istituzione del diritto d’autore ha il fine di favorire creatività e innovazione, non di bloccarle. Dobbiamo smettere di trattarlo come se fosse una proprietà e iniziare a considerarlo un’opportunità. Il copyright, ovvero la facoltà di sfruttare economicamente un’opera dell’ingegno per un periodo limitato di tempo (piuttosto lungo, in realtà) è diverso da qualsiasi altro diritto di proprietà. Anzi, funziona in modo completamente diverso. Ecco tre esempi:
Primo: se rubo il tuo cavallo o prendo un libro dalla tua libreria, tu non ce l’hai più. È diventato mio e non lo puoi riavere a meno che io non te lo restituisca. È stato così per secoli, sia per i cavalli che per la creatività: libri, manoscritti, cd, dipinti. Poi è arrivato internet, la banda larga, la possibilità di immagazzinare enormi quantità di dati in modo economico su hard drive e cloud: la copia e la riproduzione di opere sono diventate una pratica quotidiana più o meno gratuita. Oggi, se ho una copia digitale del tuo libro, tu continui comunque a possederlo. Gli economisti lo definiscono un bene “non rivale”, cioè che se viene usato da una persona non riduce la quantità disponibile agli altri. La maggior parte delle nostre leggi e delle nostre idee sulla proprietà sono al contrario basate sull’idea di scarsità (oltre che di esclusività): con le opere digitali non esiste, a parte quella fittizia creata da noi a scopo di lucro.
Secondo: tutte le opere protette dal diritto d’autore nascono da opere che le hanno precedute. Ciò non vale per i cavalli o i sandwich, ma nemmeno per i libri stampati. Non ci sono i Beatles senza Chuck Berry, non c’è Chuck Berry senza il blues né il blues senza le canzoni folk e gli spiritual degli schiavi africani in America. Ovviamente esistono dei prodotti originali, ma anch’essi nascono dall’iterazione e dall’ispirazione derivanti da altre opere. Ogni cosa è un remix. Per questo il diritto d’autore ha un limite di tempo e abbiamo creato il concetto di “dominio pubblico”, perché in teoria tutti possiamo beneficiare dei lavori che abbiamo contribuito collettivamente a creare. Oggi, però, i termini di tempo del diritto d’autore sono troppo lunghi e le opere diventeranno di pubblico dominio solo molto dopo la nostra morte, quando non saremo più in grado di usarli.
Terzo: il diritto d’autore è stato stabilito nel 1662 per regolamentare la copia dei libri stampati ma, da allora, tutto è cambiato. Tantissimo. Prima doveva essere richiesto e confermato, adesso è automatico per tutti, che lo vogliano o no. Siamo passati da un mondo in cui era riservato a pochi (chi cioè possedeva gli impianti per stampare) a un universo in cui ogni singola persona che sta leggendo questo articolo è considerato un detentore di copyright. Quindi ognuno di voi.
La combinazione di questi tre elementi porta a una conclusione importante: abbiamo bisogno di un nuovo modello di diritto d’autore che serva contemporaneamente all’interesse pubblico e a quello privato. Prendiamo per esempio le leggi sui libri oggi in vigore, visto che la Commissione Europea le sta rivedendo, pensiamo a quello che la tecnologia ha creato e domandiamoci: oggi le scriveremmo allo stesso modo? Se l’obiettivo consisteva nell’aumentare il livello di innovazione, ricerca e collaborazione nelle arti e nella scienza, queste norme sono state utili? Oggi si parla molto dei diritti dell’individuo contro quelli delle multinazionali e del conflitto fra individualismo e bene comune. Ma non è questo il punto. La storia dei successi nella nostra società corre su due binari paralleli: la spinta dei singoli individui e il rispetto – appunto – di quel bene comune. Non si tratta di due idee in competizione; tanto meno dovrebbero esserlo se davvero vogliamo rispondere alle grandi sfide del nostro tempo. Era vero quando Charles Darwin ha scoperto la cooperazione tra gli animali, è vero anche oggi.
Per fortuna stiamo facendo importanti passi avanti. Un numero crescente di istituzioni dotate di responsabilità nei confronti del bene pubblico ( governi, fondazioni, istituzioni no profit) sta adottando politiche diverse e richiede licenze aperte sui progetti legati ai propri investimenti per ottenere il massimo impatto sulla società. La Commissione Europea, per esempio, ha raccomandato la licenza BY di Creative Commons per tutte le istituzioni pubbliche e ha richiesto che, per accedere al programma Horizon 2020, le ricerche finanziate attraverso i fondi dell’Unione siano accessibili a tutti.
Nel campo dell’educazione è il nuovo trend. Non è solo una questione di risparmio sui costi ma anche di potenziale. Sempre più lavori sono disponibili per essere scaricati, copiati, archiviati, condivisi, remixati, aggiornati, editati e redistribuiti. Da tutti. Per sempre. Questo apre la strada alla personalizzazione dei contenuti, che possono essere rivolti a gruppi specifici con storie che ne riflettano le esperienze reali; permette l’immediato aggiornamento di tutto alla velocità di Wikipedia, per assicurare prodotti sempre attuali e, infine ma ancora più importante, alimenta una cultura della collaborazione in cui tutti sono coinvolti e anche risorse limitate possono avere un impatto importante sull’interesse pubblico.
Sono due esempi di come il nuovo approccio “open” si stia facendo strada all’interno di un sistema tradizionalmente chiuso. Ma nella nostra cultura intrisa di individualismo restano molte idee radicate. La storia dell’uomo è fatta di collaborazione e condivisione; ci aspettiamo che gli investimenti pubblici favoriscano il bene comune, quindi meritiamo un approccio innovativo alla condivisione che guardi al futuro, non al passato. Soprattutto dobbiamo rivedere il diritto d’autore, per il bene di tutti.