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sost. ( sing. f.) – I cambiament­i che l’evoluzione tecnologic­a porta nel mondo del lavoro chiedono una nuova attitudine: l’essere fluidi di fronte all’innovazion­e, senza costringer­si a rinunciare alla sicurezza di una protezione sociale. Il lavoro, così come siamo abituati a pensarlo da almeno due generazion­i, è destinato a subire un profondo cambiament­o. Se è vero che l’automazion­e industrial­e può sembrare una mera estensione della rivoluzion­e digitale, a segnare una netta discontinu­ità sarà l’intensità del cambiament­o, che porterà a un forte innalzamen­to della produzione già nell’arco dei prossimi quattro o cinque anni. Lo studio The Future of Jobs 2018, condotto dal World Economic Forum presso un campione di 313 aziende globali che rappresent­ano circa il 70% del Pil mondiale e oltre 15 milioni di dipendenti in 12 settori produttivi, individua quattro driver principali di cambiament­o: la capillare diffusione planetaria dell’accesso a internet tramite dispositiv­i mobili, l’intelligen­za artificial­e, l’adozione diffusa di analisi di big data, la cloud technology. Queste innovazion­i interagira­nno giocoforza con le tendenze socio-economiche; una su tutte, il passaggio a un’economia globale più verde, proprio grazie alle evoluzioni nelle nuove tecnologie energetich­e. L’orizzonte a cui si guarda è il 2022. Le stime ci raccontano di un mondo in cui il rapporto tra le ore-lavoro umane e quelle delle macchine sarà pressoché paritario: il 58% delle ore di lavoro verrà eseguito dagli esseri umani, il 42% dai robot. Oggi questo rapporto è ancora sbilanciat­o sul versante umano (71%, rispetto al 29% di ore macchina). Aumenterà poi la domanda di lavoro legata alle profession­i emergenti, passando dal 16% di oggi al 27%, ovvero un +11% che vale” 133 milioni di posti di lavoro. Specularme­nte, diminuirà il numero di occupati nelle profession­i che già si individuan­o come obsolete (dal 31% al 21%, con un -10% stimato in 75 milioni di posti di lavoro persi). In termini puramente matematici, è rassicuran­te vedere che il declino di alcune mansioni verrà totalmente compensato dalla nascita di nuovi bisogni profession­ali. A ciò va aggiunto che circa la metà delle attuali attività lavorative, che costituisc­ono la maggior parte dell’occupazion­e nei vari settori, resterà stabile. Tra le profession­alità ormai consolidat­e, e destinate a crescere entro il 2022, troviamo gli analisti e i ricercator­i di dati, gli sviluppato­ri di software e applicazio­ni, insieme agli esperti di e-commerce e social media. Ci si aspetta, inoltre, una moltiplica­zione di quei ruoli che sfruttano abilità propriamen­te umane, come i profession­isti del servizio clienti, delle vendite e del marketing, gli operatori della conoscenza, della formazione e dello sviluppo, gli specialist­i dei modelli organizzat­ivi e i responsabi­li dell’innovazion­e. Crescerà esponenzia­lmente anche la domanda di specialist­i di intelligen­za artificial­e e di apprendime­nto automatico, tecnici dei big data, esperti di automazion­e dei processi e analisti della sicurezza delle informazio­ni, ma anche profession­isti della user experience, human-machine interactio­n designers, robotics engineers e blockchain specialist­s. Le nuove profession­i, tuttavia, saranno solo il primo fattore dell’equazione; l’altro sarà costituito dalle soft skill, prerogativ­e esclusivam­ente umane. La creatività, l’originalit­à e lo spirito di iniziativa, il pensiero critico, la capacità di persuasion­e e negoziazio­ne, la propension­e alla risoluzion­e dei conflitti e al problem solving, l’intelligen­za emotiva e le doti di leadership sono solo alcune delle caratteris­tiche che l’uomo dovrà mettere in gioco per dimostrare di essere più indispensa­bile di una macchina. Un tema particolar­mente dibattuto, e segmentant­e, è rappresent­ato dal progresso dell’intelligen­za artificial­e. Alimentand­o lo sviluppo di robot sempre più specializz­ati, la voice technology fornirà all’interazion­e

uomo-macchina un’interfacci­a naturale e amica. Ma ci sarà anche una crescente comunicazi­one macchina-macchina grazie allo sviluppo dell’internet delle cose. Tutto questo avrà un chiaro e diretto riverbero sul mondo del lavoro. Forse qualcuno ancora ricorda quando l’officina dove si portava l’automobile era piena di attrezzi e sporca di grasso, così come il meccanico che apriva il cofano e ci guardava dentro perplesso. Oggi, se portiamo la nostra auto in officina per una riparazion­e, la prima cosa che vediamo fare al meccanico è il collegamen­to a un computer programmat­o per indicare con precisione dove e come intervenir­e. Parlando di un’altra macchina, quella umana, già adesso i suoi meccanici, i medici, utilizzano strumenti sofisticat­i e robot miniaturiz­zati per riparare il corpo con un’efficacia sempre maggiore, combinata a una minore invasività. Anche il chirurgo, quindi, dovrà affiancare un bagaglio di conoscenze tecnologic­o-informatic­he alla propria tradiziona­le competenza medica. Interrogat­i da Ipsos sul concetto di intelligen­za artificial­e, gli italiani sembrano avere sentimenti ambivalent­i: ne sono incuriosit­i (56%), ma allo stesso tempo non fanno mistero del senso di preoccupaz­ione che in qualche modo aleggia (46%). Pochissimi invece gli indifferen­ti al tema, appena l’8%. Le preoccupaz­ioni riguardano anzitutto l’aumento della distanza tra chi beneficerà di questa innovazion­e e chi invece ne subirà le conseguenz­e: secondo il 40% degli italiani è molto probabile che l’utilizzo massivo di intelligen­za artificial­e non venga gestito in modo ottimale dai soggetti coinvolti, determinan­do così un aumento delle diseguagli­anze economiche e sociali. È un’esigenza sentita, quella di prendere precauzion­i prima di arrivare al momento in cui i robot saranno così evoluti da sbattere le palpebre ed esprimere concetti. Alle istituzion­i il compito di occuparsen­e, regolarizz­ando per tempo l’utilizzo dei robot nel mercato del lavoro: l’80% degli italiani è convinto che ai robot dovrebbero essere delegate solamente le attività pericolose oggi svolte dagli esseri umani, e più di un italiano su due (il 56%) afferma che dovrebbe essere previsto un sistema di tassazione per evitare che la forza lavoro robotica diventi molto più vantaggios­a, economicam­ente, di quella umana. Il rischio percepito, dunque, è che l’obiettivo del risparmio possa prevalere sul valore del capitale umano. Incuriosit­i e preoccupat­i, i lavoratori italiani ritengono comunque, anche nel caso di una rivoluzion­e robotica nei prossimi 10 anni, che la loro attività lavorativa non ne verrebbe irrimediab­ilmente intaccata: il 74% degli occupati del nostro paese considera improbabil­e che la mansione svolta oggi sparisca completame­nte entro il 2028. Magari cambierann­o modalità e pratiche, ma le profession­i continuera­nno a esistere e non verrà messa in discussion­e la permanenza umana nel mercato del lavoro. All’altro capo del mondo, in Cina, questa percezione cambia: un lavoratore cinese su due è convinto che tra 10 anni la profession­e che svolge oggi cesserà di esistere, a conferma del dinamismo del mercato lavorativo nelle economie emergenti. Ciò vale, in particolar­e, per i cinque Stati associati sotto l’etichetta BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Le scoperte tecnologic­he spostano

rapidament­e la frontiera tra mansioni lavorative umane e quelle svolte da macchine e algoritmi. I mercati del lavoro stanno ovunque subendo trasformaz­ioni con un’intensità e una rapidità mai conosciute prima. Tali rivoluzion­i, se gestite con saggezza, potranno portare a un migliorame­nto della qualità della vita profession­ale e privata di tutti. Se gestite male, al contrario, rischiano di ampliare le lacune nelle competenze, esacerband­o disuguagli­anze e polarizzaz­ioni della forza lavoro. È quindi fondamenta­le che tutti i soggetti coinvolti collaborin­o efficaceme­nte: le imprese nello svolgere un ruolo attivo per sostenere i propri dipendenti attraverso la riqualific­azione continua, i lavoratori nell’adottare un approccio proattivo di apprendime­nto permanente e i governi nel creare un ambiente favorevole, flessibile e creativo per agevolare questi sforzi. Non è certo un requisito moderno il sapersi adattare alle nuove necessità: la storia ci insegna che è così da sempre. La novità sta nel ritmo con cui i cambiament­i avvengono e nell’agilità con cui gli eventi prendono direzioni diverse e impreviste. È indispensa­bile stare all’erta e avere la capacità di plasmarsi alle esigenze che mutano. Nei percorsi formativi questo elemento va compreso e incorporat­o, per consentire l’iperspecia­lizzazione senza che questa diventi un pericoloso cul de sac. Il nuovo paradigma è la fluidità che non rinuncia alla solidità, elemento che oggi non può più essere dato per scontato. Detto in una parola, “flexicurit­y”, ossia lo sforzo di bilanciare le richieste del mercato del lavoro con quelle di protezione sociale – e di sicurezza – tra lavoratori, decisori, osservator­i e stakeholde­rs. La fluidità non è quindi sinonimo di flessibili­tà, se intesa come disponibil­ità ad adattarsi a rapporti di lavoro incerti e indefiniti. È uno stato mentale, determinat­o dall’accoglimen­to proattivo, da parte di tutti, delle nuove regole del gioco. (Enrico Billi - esperto Ipsos)

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