Analogico
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agg. ( sing. m.) – La torta della nonna, una carezza, il suono di un pianoforte. La nostra vita è ricca di esperienze che non possono essere tradotte in linguaggio digitale senza perdere una parte della loro bellezza. Non significa cadere nella malinconia del “ritorno al passato”, ma conservare la sensibilità per il tocco umano delle cose. Mi rendo conto che possa risultare ironico, o semplicemente una cosa da matti, credere che “analogico” sia la parola del futuro. Musicalmente (e non solo) parlando, però, sento che la ricerca della bellezza necessiti di un contatto costante tra l’essere umano e ciò che l’essere umano direttamente dalle sue emozioni traduce e produce. È senza dubbio l’era del digitale, e anche gli strumenti musicali possono avere forme differenti ed essere apparentemente più comodi e intuitivi, ma, se ci guardiamo intorno, notiamo che dalle felpe Fila alle macchinette fotografiche usa e getta Kodak, qualche segnale di radicamento o di ritorno al passato, ai rassicuranti anni ’90, si vede. Un motivo ci sarà... Viviamo in un mondo sempre più frenetico e veloce. Frase già detta e ridetta milioni di volte, anche dalla sottoscritta, ma che vi devo dire? È vero! Le nuove tecnologie stanno via via sostituendo abilità e azioni che prima venivano svolte in maniera diversa, manualmente o attraverso strumenti, diciamo così, più rudimentali (quindi anche il mio problema di non saper cucinare nulla di decente è già stato potenzialmente risolto dai robot da cucina e dal semplice delivery...). Strumenti che assolvevano la stessa funzione che oggi deleghiamo alla tecnologia: rendere la vita più pratica, avere più servizi, avere più tempo per fare altro. Oggi con un comune telefono si possono fare decine di attività che per essere svolte, fino a ieri, richiedevano mezzi “inarrivabili”. Rimanendo nell’ambito della produzione musicale, penso per esempio allo studio di registrazione, che adesso sta racchiuso in un’app del cellulare. Se la tecnologia ha imposto alla produzione musicale un balzo in avanti, ha anche modificato in maniera importante le abitudini di ascolto. Fino a poco più di un decennio fa, eravamo abituati ad ascoltare la musica con diversi dispositivi e modalità, dai cd alle cassette, agli ancora più vecchi vinili, tornati di moda. Ciò che il nuovo modo di approcciare le nostre canzoni preferite ha mutato più profondamente è la filosofia della lentezza, della circolarità e dell’ascolto organico. Da quanto tempo non ci si siede più in macchina, in un autobus o anche sul divano di casa e si ascolta un album dall’inizio alla fine? Si è abituati ad ascoltare pezzi di sottofondo, a skippare (in gergo tecnico) da un brano all’altro senza nemmeno finirlo, si preferisce la cultura della playlist. È tutto molto bello, o meglio, molto comodo, ma anche molto disorientante.
La svolta, il vero passo nel futuro, consisterebbe non nello scegliere un nuovo mezzo per fare o fruire la musica, ma in un nuovo modo di viverla, di apprezzarla, e di conseguenza anche di farla. Questo salto filosofico può costare
«È emblematico il fatto che siano sempre meno le persone che iniziano a studiare uno strumento classico, a fiato o a tastiera come un pianoforte. La musica non è vista come una disciplina utile, quando invece lo è, eccome»
apparentemente più fatica a tutti i protagonisti del canale comunicativo, ma determina una qualità fisica, sonora e – oserei dire – pure poetica, che un contesto prettamente digitale non potrà mai offrire. È emblematico il fatto che siano sempre meno coloro che iniziano a studiare uno strumento classico, uno strumento a fiato o anche semplicemente uno a tastiera come un pianoforte, come è altrettanto emblematico quante poche persone abbiano una cultura musicale, anche solo a livello scolastico. La musica non è mai vista come una disciplina “utile”, mentre in realtà lo è, eccome. Si potrebbe aprire un capitolo di seicento pagine sulle proprietà terapeutiche della musica, per chi la ascolta e ne beneficia, o anche semplicemente per chi attraverso la musica ha la possibilità di esprimersi.
Ma ciò che trovo affascinante e prezioso riguarda in questo caso l’aspetto tattile. Un sintetizzatore che opera tramite circuiti analogici, emblema di questo concetto, non è un pianoforte, un violino o qualsiasi altro suono “reale”, naturale: riproduce una serie di elementi di sintesi sonora, ma rimane pur sempre uno strumento musicale, anche se con il cuore di macchina. Il tutto determina una presenza, un dialogo, uno studio, un’elaborazione mentale, un contatto diretto tra il musicista e il dispositivo. Non si tratta di qualcosa che, per quanto permetta infiniti margini di creazione, si sostituisce al pensiero e all’intelligenza musicale dell’autore, come accade per gli strumenti digitali. L’analogico ha un orecchio sempre attento all’universo del futuro e alle sonorità che il futuro riserva, ma preserva il legame originario tra musicista e strumento. Sarebbe forse il caso di ritornare al libro di ricette della nonna, ambito sempre più lontano e arcaico, quasi come un corale di Bach o un brano pianistico dell’Ottocento. Nulla è più come prima, ogni cosa è figlia del proprio tempo, eppure vive anche grazie al suo passato, di cui è il frutto. Puoi avere una crostata di mirtilli pronta e servita in mille modi, senza prepararla e infornarla a casa tua, con pazienza e dedizione. Ma, nel 90 per cento dei casi, la crostata lenta e paziente della nonna sarà sempre più buona di quella portata pronta dal delivery. La musica è così: può essere un qualcosa che si sviluppa nel tempo o può durare solo qualche secondo, ma rimane comunque un atto creativo. E, come ogni atto creativo, è una specie di storia d’amore: ha bisogno di contatto.