Collettività
sost. ( sing. f.) – La capacità di organizzarsi e agire come gruppo ha consentito al genere umano di elevarsi sopra le altre specie animali. Oggi un ritorno all’individualismo più spinto rischia di toglierci quell’attitudine fondamentale per affrontare le sfide della contemporaneità.
Nella musica, nello sport o nello spettacolo vale la stessa regola: è più immediato seguire le gesta del singolo, ammirarne i traguardi nel momento del successo, incuriosirsi – spesso anche più del necessario – delle vicende personali. Per poi magari assistere agli inciampi e, quasi con gusto morboso, osservarne la parabola discendente. Di fronte a una squadra, a un gruppo musicale, a un soggetto collettivo, scatta un meccanismo diverso. Si instaura una partecipazione più profonda e radicata, si è più disposti anche ad accettare con più naturalezza difficoltà e sconfitte. È intorno alla squadra, non a un solo atleta, che prendono vita forme di socialità che trascendono l’evento sportivo, che diventano identificazione, appartenenza. In alcune occasioni, cultura. Quando un musicista lascia una band, fosse anche il più ininfluente dei componenti, quella non è più una band, ma diventa un’altra cosa, inizia un’altra storia, un’altra narrazione. È raro provare gusto per la disfatta, difficile gioire per lo smarrimento dell’unità e della compattezza di un gruppo.
Forse da qualche parte della nostra memoria genetica sta scritto che la sconfitta del gruppo è la sconfitta di tutti. In effetti, quando i nostri lontani antenati si aggiravano per le foreste da soli o in piccolissime unità, non erano piazzati molto in alto nel grande campionato della catena alimentare. Agli occhi della fauna dei predatori erano un boccone facile: non dovevano certo avere l’aria minacciosa di quegli esseri che, di lì a qualche millennio, sarebbero stati in grado – una volta diventati collettività – di dominare il pianeta. E di determinare la sopravvivenza o meno di qualsiasi altro essere vivente.
È proprio attraverso le nostra capacità di articolare e coordinare le azioni di quantità sempre più ampie di esseri umani, ovvero di dar vita a collettività, che abbiamo superato ogni traguardo sulla Terra. Clan, divinità, miti, legioni, imperi, dinastie, ordinamenti sociali, bandiere, nazioni. Fino al più potente e penetrante strumento che sta alla base di ogni scambio e relazione sociale: il denaro. La nostra evoluzione è basata sulla capacità di organizzare scelte collettive, e di produrre strumenti efficaci per attuarle.
Oggi invece la narrazione del presente è concentrata sull’illusione solitaria, sull’autosufficienza del nostro spazio privato. Di fronte a device che rischiano di sostituirsi alle relazioni in carne e ossa. Mentre ordiniamo cene a domicilio e ci abituiamo a guardare film senza più frequentare le sale cinematografiche. Mentre riceviamo consigli targhettizzati per noi da anonimi algoritmi. Acquistando
«Forse da qualche parte della nostra memoria genetica sta scritto che la sconfitta del gruppo è la sconfitta di tutti»
beni sulle piattaforme online senza nemmeno più aprire la porta di un negozio. Sono tutti comportamenti che tendono a farci smarrire la percezione del bisogno degli altri. Proprio quando, come mai prima d’ora, siamo di fronte a fenomeni – frutto del progresso – pronti a influire in modo irreversibile sul nostro futuro.
Fenomeni che non saremo mai in grado di gestire frammentati in piccole unità, rispetto ai quali le stesse nazioni, sovrane ormai solo negli slogan, risultano essere ininfluenti. Gli esempi? A ogni innalzamento di mezzo grado della temperatura del pianeta corrispondono la desertificazione di migliaia di chilometri quadrati di terra coltivabile nell’Africa Subsahariana e a centinaia migliaia di persone che, non potendo più lavorare quella terra e sfamarsi, cercheranno di raggiungere i nostri confini. L’automazione, a breve, chiederà di ripensare il concetto stesso di lavoro; la ricerca genetica renderà possibile la clonazione di qualsiasi essere vivente; la tecnologia è a un passo dal dare vita a forme di intelligenza superiore a quella umana. Chi affronterà per noi queste emergenze globali? Queste sfide collettive?
Nell’immediato futuro avremo bisogno di riflettere a fondo su come – per esempio – una collettività allargata di 500 milioni di persone, chiamata magari Europa, potrebbe essere più efficace nel governare fenomeni del genere. Che non attenderanno il social-parere solitario di nessuno per manifestare la loro urgenza.
Riflessioni globali, che però partono da alcuni pensieri personali, che provo a mettere in fila. Penso che vorrei suggerire a mia figlia di scegliere uno sport di squadra. Penso che non vorrei più veder sorgere barriere e confini a causa dei piccoli tatticismi della politica. Che vorrei avere fatto di più per evitare la chiusura della libreria del mio borgo. Che mi interessano di più le conversazioni senza l’uso della prima persona singolare. E che, comunque, le band sono sempre state più importanti dei solisti, almeno nella storia della musica che conosco.