Container

sost. ( sing. ingl.) – Sono il cloud del futuro: network di server fisici sui quali sarà possibile rendere virtuali solo i software. Un sistema che facilita la gestione e presenta anche vantaggi dal punto di vista della sicurezza.

Il cloud non è un’entità astratta, nuvolosa. Invece, come aveva detto una volta Steve Jobs, «è il computer di qualcun altro». Anzi, milioni di server che rispondono alle interrogazioni dei nostri computer, telefonini e apparecchi smart ogni volta che ci connettiamo in rete. All’interno dei server, però, per ottimizzare i carichi di lavoro e poterli bilanciare passandoli anche da un centro di calcolo all’altro, girano server virtuali. Con un problema: le macchine virtuali sono veri e propri server logici, impegnativi da configurare, complessi da mantenere, dispendiosi in termini di prestazioni. Pesantezza di calcolo e pesantezza di gestione. Non sarebbe meglio ridurre lo strato virtuale al minimo necessario? È per rispondere a questa domanda che entrano in scena i container. Cioè singole applicazioni o servizi completamente virtualizzati e interscambiabili, che possono essere creati e mossi in interi sciami attraverso i centri di calcolo della rete. Le “nuvole” di domani infatti sono composte da grappoli di server fisici sui quali vengono virtualizzate solo le singole applicazioni software. Merito di Linux e della sua capacità di isolare un programma e tutte le risorse che gli sono dedicate come se galleggiasse nell’aria. Il futuro è chiaro: i container sono estremamente flessibili, sicuri e molto più semplici da configurare, creare e gestire di una macchina virtuale. Possono essere avviati e spenti alla bisogna, tanto che vengono gestiti come “sciami” tramite software specializzati: Kubernetes, il più popolare, dirige le attività di migliaia di server come un direttore d’orchestra. AWS di Amazon, Google Cloud, ma anche Docker e altri sono quelli che scommettono più di tutti sui container. È la tecnologia per realizzare le nuvole del futuro.