Brexit
sost. ( sing. neolog. ingl.) – Il referendum con cui la Gran Bretagna ha deciso l’uscita dall’Ue non ha chiuso la questione. Ma ne ha aperte decine. Perché, ancora oggi, nessuno sa che cosa significhi questo neologismo che ha creato ire ed entusiasmi. Se non che è il frutto (disastroso) di un modo amatoriale di fare politica che, oggi, i cittadini non si possono più permettere. L’analisi dell’autore di La famiglia Winshaw, La banda dei brocchi e del nuovissimo Middle England.
All’inizio, non era chiaro che il termine Brexit sarebbe diventato popolare. Nel 2012, due nuove parole erano entrate nella lingua inglese: “Brexit” e “Brixit”. Brexit era stata coniata da Peter Wilding, il fondatore del think tank British Influence, ed era apparsa su Twitter il 15 maggio 2012. Un mese più tardi, però, in un articolo dell’Economist era comparsa la parola Brixit, e la banca d’affari Nomura aveva pubblicato un report che suggeriva agli investitori della City: «Una Brixit appare sempre più probabile». Così, per un breve periodo, le due parole hanno combattuto per affermarsi, un po’ come – negli anni Ottanta – la sfida tra i vecchi formati Vhs e Betamax. Perché alla fine abbia vinto Brexit nessuno lo sa. In realtà, dovrebbero esistere cinque, sei o persino più parole per definire questo fenomeno perché, come stanno imparando gli inglesi a proprie spese, nessuno sa che cosa sia la Brexit. Neppure le 17 milioni e 400mila persone che hanno votato a favore. Quella che due anni fa sembrava una semplice domanda con due possibili risposte – «Ritieni che la Gran Bretagna dovrebbe abbandonare l’Unione Europea?» – ci ha infilati in un labirinto con tante diramazioni e sentieri che possono condurci in qualsiasi direzione. E nessuna persona affidabile a guidarci.
Alcuni pensano che gli inglesi abbiano votato per la Brexit per ragioni xenofobe. Altri pensano che sia una questione di sovranità. Per altri, si trattava di mercato libero. Per altri ancora, anni di austerity hanno fatto sentire gli inglesi impotenti o arrabbiati. E questa è una parte del problema: ci sono state una miriade di ragioni alla base di questo risultato. 17 milioni e 400mila persone, 17 milioni e 400mila ragioni. Proprio l’altro giorno, leggevo di una donna che aveva votato Brexit perché seccata dal fatto che avessero chiuso i bagni pubblici nella cittadina in cui viveva.
Il risultato di questo voto imperfetto e complicato è ancora in piena fase di negoziazione. Magari, quando leggerete questo articolo, sarà già stato trovato un accordo tra la Gran Bretagna e l’Ue. Ma ne dubito. I nostri leader annaspano. Uno zoccolo duro di deputati conservatori eurofobici – noto eufemisticamente con il nome di European Research Group, o Erg – sembra esercitare uno strano potere ipnotico sul primo ministro britannico. Il loro obiettivo (un divorzio completo e irrevocabile dall’Unione Europea) è condiviso dai giornali di destra più espliciti e influenti: il Sun, il Daily Telegraph, il Daily Mail.
La voce di queste persone è tanto potente, e tanto amplificata, e sembra tanto irresistibile per un primo ministro che – non dimentichiamolo – soltanto
«L’Ue ha mantenuto la pace e creato prosperità nella maggior parte dell’Europa nell’ultimo mezzo secolo: scommetto che prima o poi la Gran Bretagna vorrà farne di nuovo parte»
pochi anni fa professava di essere una forte sostenitrice della nostra adesione alla Ue, che è facile scordarsi di come la maggior parte degli inglesi non la pensi affatto così. La maggior parte degli inglesi, mi verrebbe da dire, prima del referendum non aveva mai ragionato sull’adesione della Gran Bretagna all’Ue, e non vuole pensarci ora. Quando David Cameron guidò la campagna per il “Remain”, non era davvero importante che cosa sostenesse nei suoi discorsi. L’unico messaggio che sembrava arrivare alle orecchie delle persone era: «C’è qualcosa per la quale io vorrei fortissimamente che voi votaste, anche se non è chiaro perché dovrebbe convenirvi». Dato che all’epoca Cameron non era particolarmente amato nel paese, o non lo era la ristretta, privilegiata classe politica che sembrava incarnare, molti hanno semplicemente votato “No” per registrare un deciso quanto generico senso di malcontento. Erano incazzati. Non con l’Ue, ma con la vita in generale e con Cameron e con la classe politica in particolare.
Quel referendum, alla fine, poneva un quesito apparentemente semplice, perciò la maggior parte di noi ha votato di pancia, senza pensarci più di tanto. I sostenitori del “Leave” ci avevano detto che uscire dall’Ue era una cosa facile, priva di conseguenze economiche dolorose, e che appena qualche settimana dopo avremmo difficilmente notato la differenza, salvo che avremmo tutti goduto di maggior libertà e prosperità. Il ministro per il Commercio Liam Fox ci aveva detto che l’accordo con l’Ue sarebbe stato «uno dei più facili nella storia dell’umanità». Si trattava di ciniche menzogne; non credo che la popolazione inglese fosse così stupida da crederci. Più probabilmente, era già un momento in cui nessuno dava più retta a nulla. Quello che si aspettavano, dopo aver votato il 23 giugno 2016, era che i politici stessero zitti e si mettessero a lavorare per portare a termine la Brexit.
Purtroppo, non esiste una Brexit. Esistono tante Brexit. Un numero apparentemente infinito di Brexit. E ci inganniamo se crediamo che sia facile capire la differenza tra quella “modello Norvegia” o una “modello Canada” (io di certo non la capisco...), per citare due delle opzioni di cui si parla. Le complessità implicite nella discussione sulla circolazione delle merci sfuggono alla maggior parte delle persone, che hanno vite già abbastanza complicate senza doversi occupare di questo genere di questioni. La Brexit che gli inglesi (o, meglio, il 52% dell’elettorato inglese che è andato a votare) desiderano davvero è piuttosto chiara. Vogliono quella che i sostenitori del “Leave” avevano promesso: una Brexit che renda la Gran Bretagna più prospera, che ci lasci decidere da soli le nostre leggi (cosa che già facevamo) e che limiti l’immigrazione mettendo fine alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Europa. Ma c’è un piccolo problema con questo genere di Brexit, ed è che non esiste. Non è mai esistita.
Ciclicamente, ogni qualche mese, il governo inglese va a Bruxelles per incontrare i negoziatori dell’Ue e chiede se per caso abbia iniziato a esistere, e ogni volta la risposta è la stessa: no. E ogni volta che questo accade, tornano dagli inglesi lagnandosi di essere stati “bullizzati” o “umiliati” dall’Ue. La Brexit che gli inglesi sono stati convinti a votare era un unicorno: un animale senza dubbio meraviglioso e desiderabilissimo. Ma mitologico. Il nostro governo correrà grossi guai quando le persone si accorgeranno che si tratta solo di un comune cavallo con un corno finto incollato sulla fronte.
Quindi, che cosa possiamo imparare dalla Brexit già adesso, prima ancora che il processo si sia concluso? Secondo me, che il livello amatoriale del sistema politico inglese non è più all’altezza del proprio compito. David Cameron è stato superficiale a proporre un referendum su un tema così divisivo senza pretendere che raggiungesse una maggioranza netta (diciamo almeno del 60%). Il risultato è che si produrrà una rivoluzione sismica nelle sorti del mio paese sulle basi di una minuscola maggioranza che sarebbe tranquillamente considerata entro una forchetta d’errore da qualsiasi autorevole sondaggio d’opinione. Ma, così facendo, Cameron si è semplicemente comportato come hanno fatto gli inglesi per secoli, “improvvisando”, senza prenderla troppo sul serio, dando per scontato che avrebbero finito per ottenere ciò che volevano perché, diciamocelo, la maggior parte delle cose nelle loro vite da privilegiati è andata bene in passato.
È lo stesso senso di dilettantismo ed eccezionalità che abbiamo portato al tavolo delle negoziazioni: sì, lo sappiamo quali sono le regole dell’Ue, e sappiamo che di solito non possono essere infrante, ma… dai, siamo inglesi! Abbiamo regalato al mondo Shakespeare e James Bond e i Beatles – ci meritiamo un trattamento speciale. È questa che sembra essere la base dell’approccio. Dove ci porterà, nessuno lo sa. Ma sembra certo che, in un modo o nell’altro, entro marzo dell’anno prossimo avremo lasciato l’Ue. E se, come sospetto, la nostra separazione sarà economicamente dannosa per la Gran Bretagna, allora non ci vorrà molto prima che inizi una nuova campagna – condotta principalmente da persone giovani – per farci rientrare nei ranghi. Perché nonostante tutti i suoi difetti, l’Ue ha mantenuto la pace e creato prosperità nella maggior parte dell’Europa nell’ultimo mezzo secolo: scommetto (e naturalmente è solo una scommessa) che prima o poi la Gran Bretagna vorrà farne di nuovo parte, e la nostra temporanea separazione verrà vista come uno stupido errore. Se, in questo processo, avremo imparato che il tanto amato dilettantismo inglese, che in passato ha funzionato così bene, non è più adatto per il mondo moderno, allora avremo davvero avuto un beneficio concreto, e durevole, dalla Brexit.