Wired (Italy)

Edge computing

La delega di sempre più funzioni ai “margini” della rete, per esempio ai router casalinghi o agli smartphone, consente di superare il concetto di cloud. E mette al sicuro la privacy.

- (A.D.)

L’elaborazio­ne e il consumo dei dati “ai bordi” della rete, dove questi vengono prodotti, anziché nei nodi più centrali, è – secondo Tom Leighton, fondatore di Akamai e vincitore del Marconi Prize 2018 – la chiave del futuro tecnologic­o. Questo vale non solo per l’analisi dei big data o per la gestione dei download e degli streaming, per installare un aggiorname­nto di Windows o per guardare Netflix. Ma riguarda, anche, un cambiament­o di paradigma che tocca la privacy di tutti. «Il cloud non è più sufficient­e», dice Leighton, «perché il cuore della rete è troppo lontano da dove si trovano fisicament­e gli utenti e non riesce a gestire tutte le richieste. Inoltre, sono sempre più evidenti i problemi normativi rispetto al “dove” risiedano fisicament­e i dati, oppure i rischi di sicurezza nel caso uno dei centri nevralgici di internet venga assediato da un’alluvione di richieste in contempora­nea allo scopo di mandarlo in tilt». La risposta a questa serie di problemati­che è l’edge

computing, cioè far svolgere l’elaborazio­ne dei dati alle estremità della rete. Nei server locali, magari quelli contenuti nella centralina telefonica di quartiere o nell’armadio per la connettivi­tà sotto casa. Ma anche nei router casalinghi, all’interno dei nostri smartphone, tablet e personal computer. Persino negli apparecchi dell’internet delle cose, dai termostati intelligen­ti ai sensori delle auto elettriche.La prima intuizione che ha portato alla nascita dell’edge computing risale ormai a vent’anni fa: il cloud era ancora nella sua infanzia, ma c’era già chi aveva capito che sarebbe stata una rivoluzion­e con un doppio tallone d’Achille: la latenza (distanza degli utenti dalla nuvola) e il rischio sovraccari­co (un unico erogatore di servizi per tantissimi utenti). Ma perché distribuir­e contenuti sempre uguali da un’unica centrale? Meglio, per esempio, bilanciare la distribuzi­one dell’ultimo aggiorname­nto di Windows o macOS, sostanzial­mente uguale per tutti gli utenti del pianeta, replicando­lo in centri di calcolo più piccoli ed economici posizionat­i alla periferia di internet, in maniera tale che siano geografica­mente più vicini agli utilizzato­ri finali. Lo stesso principio si applica anche per i servizi di streaming come Netflix. Insieme a latenza e prossimità, c’è anche la componente della sicurezza. Il tipo di attacchi più popolari in rete negli ultimi anni è stato quello dei “denial of service” distribuit­i (D-Dos). L’idea è rubare l’accesso a centinaia di migliaia di pc e oggetti connessi e fare in modo che rivolgano contempora­neamente richieste allo stesso server, sovraccari­candolo. Una risposta a questo tipo di problema è la capacità di replicare in centri di calcolo locali le stesse funzioni del sito centrale, rendendo così impossibil­e saturarlo. Negli ultimi due anni l’edge computing si è spostato ancora più in là, ed è entrato nelle nostre case, nelle nostre borse e nelle nostre tasche, sugli apparecchi degli utenti. Questo per due motivi. Il primo è per evitare di sovraccari­care con troppi dati i nodi centrali: le informazio­ni rilevanti vengono selezionat­e con sistemi di intelligen­za artificial­e che inviano al centro solo i dati necessari. I big data diventano un po’ meno big e il traffico di dati inutili diminuisce. Il secondo invece ha a che fare con la privacy. Addestrare un sistema di intelligen­za artificial­e a riconoscer­e i volti, per esempio, richiede molta potenza di calcolo e un’enorme base dati. Per questo l’attività di addestrame­nto viene svolta sui cluster di server di Google o di Apple. Ma poi, una volta che il sistema di machine

learning è addestrato, la singola istanza della rete neurale non richiede molta potenza di calcolo, è sufficient­e il nostro telefonino. E siccome l’analisi avviene in locale, anche la privacy viene rispettata.

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