Gap
Secondo il World Economic Forum serviranno 217 anni per colmare il divario di opportunità che ancora separa uomini e donne. Soprattutto in campo scientifico e tecnologico.
Era il 1973 quando Elena Gianini Belotti pubblicò per Feltrinelli Dalla parte delle
bambine, un saggio che esplicitava i condizionamenti culturali imposti alle donne, sin da piccole. Nel libro, che ebbe all’epoca una vasta eco mediatica, si sottolineava come le tradizionali differenze di carattere e inclinazione tra maschi e femmine non fossero dovute a fattori innati, bensì a stereotipi e pregiudizi particolarmente radicati nella società e nella cultura, tramandati (spesso inconsapevolmente) alle nuove generazioni già nella primissima infanzia attraverso favole, stampa, televisione, modi di dire, luoghi comuni, scuola e famiglia. Ragionamenti che sono ormai ampiamente superati, verrebbe da pensare, ma ne siamo proprio sicuri? L’European Institute for Gender Equality (Eige) studia l’uguaglianza di genere con un approccio comparato a livello europeo. L’analisi avviene attraverso sei macrodimensioni: istruzione, lavoro (incluse le possibilità di carriera e di accesso alle professioni), denaro (reddito medio,
gender pay gap, rischio di povertà), salute, tempo (attività di cura familiari e domestiche rispetto a quelle ricreative, sportive e culturali) e potere, intendendo con quest’ultimo termine l’accesso a posizioni elevate sia nella vita pubblica sia nelle aziende private. Le osservazioni per singola area vengono poi sintetizzate in un unico numero, un indice da 0 a 100, dove 0 rappresenta la distanza massima tra i due generi e 100 l’assoluta parità. L’ultimo indice Eige ha evidenziato, a livello europeo, un’evoluzione di soli 4 punti in 10 anni (da 62,0 nel 2005 a 66,0 nel 2015): un risultato decisamente al di sotto delle aspettative. L’Italia nel 2015 si è posizionata al 14esimo posto, sotto la media Ue e con 10 punti di differenza rispetto a Francia e Regno Unito, sebbene con una posizione decisamente più favorevole rispetto a dieci anni fa. I parametri migliorati sono soprattutto l’istruzione e il potere. Una spinta probabilmente è arrivata anche dal cosiddetto sistema delle quote rosa, spesso criticato, che però tra il 2008 e il 2015 ha permesso di passare dal 5,9% di rappresentanza femminile a oltre il 30%, se si considerano i consigli di amministrazione e i collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche. Anche nell’ambito della rappresentanza politica ci sono stati miglioramenti, seppur insufficienti: nel 2013 è stato eletto il Parlamento con più donne della storia italiana; durante il governo Letta (2013) le donne hanno ricoperto quasi un terzo dei ministeri e con quello Renzi, per la prima volta, si è raggiunta la parità di genere tra ministri (50% donne e 50% uomini). Con l’attuale governo Conte si è tornati a una presenza femminile molto bassa, di sole 5 donne su 18 ministri. Ma è nelle dimensioni del lavoro e dell’uso del tempo che permangono grandi differenze. Sempre riguardo all’indice Eige, nell’ambito del lavoro all’Italia è stato attribuito un valore di 62,4, ben più basso rispetto al 76,6 del Regno Unito, al 72,1 della Francia e al 71,4 della Germania, per non scomodare l’82,6 della Svezia. Ancora più significative sono le differenze relative alla gestione del tempo, per il quale l’Italia registra 59,3, collocandosi decisamente al di sotto di tutti gli altri grandi paesi europei. La carenza di servizi per la conciliazione tra vita professionale e familiare, nonché l’ineguale distribuzione del lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia, sono tra le cause più note di questi fenomeni. Non a caso l’Istat segnala che il 20,9% delle donne – e solo l’8,6% degli uomini – abbia rinunciato a un particolare incarico lavorativo, che avrebbe desiderato accettare, a causa degli impegni familiari. Gli stereotipi di genere condizionano scelte e comportamenti di donne e uomini in modo sottile, spesso senza che chi è condizionato
ne sia consapevole. Per esempio, in Italia la metà delle donne afferma di non avere la stessa libertà degli uomini nel perseguire i propri sogni e aspirazioni, con una percezione di sé analoga a quella delle donne turche. In Spagna a pensarlo è invece solo una donna su quattro. Lo afferma l’indagine internazionale Ipsos condotta in 24 paesi del mondo su un campione di 8822 donne dai 16 ai 64 anni. Un condizionamento che persiste. Nel giugno dello scorso anno Ipsos ha posto a 400 studenti delle scuole medie la fatidica domanda: che lavoro vorrai fare da grande? Nessuna sorpresa: la maggior parte dei ragazzi ha dichiarato di voler fare l’ingegnere, mentre tra le ragazze la professione più ambita resta l’insegnante. E tutto ciò appare fin troppo naturale quando si ha la convinzione, da parte di entrambi i generi, che i ragazzi siano più bravi nelle materie scientifiche mentre le ragazze in quelle umanistiche. Se questa è l’opinione che i ragazzi hanno di loro stessi in adolescenza, non sorprendono i dati Eurostat sulla segregazione delle donne in alcune facoltà universitarie specifiche. In Italia questo fenomeno è particolarmente accentuato: un esempio su tutti sono le facoltà legate all’area dell’educazione, dove per ogni studente uomo troviamo 11,8 studentesse donne. L’esatto contrario accade nelle facoltà relative all’area Stem ( Science, Technology, Engineering and Mathematics): tra scienze, tecnologie, ingegneria e matematica, per ogni uomo iscritto nel nostro paese le studentesse si fermano a 0,6. E non solo, nell’ultimo decennio nell’Unione Europea è addirittura diminuita la percentuale di donne laureate in facoltà Stem, passando dal 23% al 22%. La rivoluzione digitale ha cambiato molti aspetti della nostra quotidianità, anche lavorativa, ma al momento non sembra essere una leva per contribuire al perseguimento dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Eurostat ci dice che i giovani europei dai 16 ai 24 anni, maschi o femmine che siano, sono ugualmente esperti nell’utilizzo delle tecnologie digitali nella loro vita quotidiana. La differenza sta invece nella percezione di quanto ci si senta sicuri delle proprie abilità digitali: il 73% dei ragazzi si ritiene competente nell’utilizzo di dispositivi tecnologici, a fronte del 63% delle ragazze. La bassa fiducia in se stessi va di pari passo con un livello di aspirazione più basso verso i lavori in campo digitale (Ict). Nel nostro continente la Bulgaria, l’Estonia, la Romania e Malta sono i soli quattro paesi in cui le adolescenti esprimono un interesse apprezzabile verso questo tipo di professioni, che comunque si aggira tra l’1% e il 3% appena. Questa divisione di genere nelle aree Stem e Ict si riflette sul mercato del lavoro, dove la quota delle donne in occupazioni d’ambito tecnologico è ferma al 14%, quasi senza cambiamenti nell’ultimo decennio. Considerando queste come le professioni più richieste sul mercato del lavoro, nonché con stipendi più elevati, sarebbe strategico creare le condizioni per un miglior posizionamento delle donne all’interno di questo mercato. Ciò potrebbe fare da volano per l’occupazione femminile, in tutta Europa e in particolare in Italia. Nonostante rilevanti miglioramenti, nel Belpaese si continua a rimanere ai livelli più bassi sia come incidenza occupazionale sia in termini di salary gap: ogni tre manager solo uno è donna, e guadagna in media il 33% in meno dei colleghi maschi. I lavori nell’Ict non offrono soltanto stipendi più alti (lo dimostrano i dati sulle paghe femminili) e maggiori possibilità di carriera, ma presentano condizioni più favorevoli, in particolare in termini di qualità del lavoro e di flessibilità oraria, favorendo perciò un maggior equilibrio tra vita personale e professionale. Occorre dunque alimentare il circolo virtuoso del “donna chiama donna”, perché la maggior concentrazione di occupate nell’area Ict si registra proprio dove già c’è un’elevata presenza femminile. Sono passati più di 45 anni dal saggio di Elena Gianini Belotti, ma pare che la strada da percorrere sia ancora lunga e difficoltosa, molto più di quanto si possa immaginare. Il World Economic Forum ritiene che, al ritmo attuale di cambiamento, serviranno ben 217 anni per colmare il gender gap. Gli italiani, interrogati esplicitamente, pensano invece che questo gap verrà bilanciato in 30 o 40 anni. Un errore di valutazione che, se letto in chiave ottimista, può apparire come una speranza nelle nuove generazioni.