Post-verità
sost. comp. ( sing. f. lat. + ita.) – Il fenomeno populista, la ridotta fiducia nei media tradizionali e la coesistenza nel discorso politico, pubblico e sui social network di diverse narrazioni della realtà hanno fatto venir meno quello spirito critico necessario per orientarsi nella massa sempre più ampia e caotica della comunicazione.
Per lungo tempo ci siamo abituati a considerare la democrazia come una conquista definitiva e irrevocabile. Questo soprattutto nei “trenta gloriosi”, gli anni dello sviluppo e del boom economico. In seguito, però, la crescita si è progressivamente ridotta, il panorama internazionale si è profondamente modificato, passando dal bipolarismo al multipolarismo, e sono cresciuti, in termini sia economici sia di influenza politica, paesi che non sono certo esempi di democrazia. La velocità con cui il mondo si muove, poi, ha introdotto un tema critico per le procedure democratiche di formazione delle decisioni, che appaiono fin troppo lunghe e complesse per fronteggiare una realtà in cui i tempi di scelta si comprimono sempre più. L’allentarsi del legame sociale e le profonde trasformazioni del mondo del lavoro hanno modificato la struttura delle relazioni interpersonali. La tecnologia e i media digitali, infine, consentono una relazione diretta con i leader, marginalizzando le forme classiche di delega, tanto da spingere qualcuno a profetizzare l’inutilità, a breve, dello stesso Parlamento. Risultato di tutti questi fenomeni convergenti? La democrazia è percepita come un sistema che mostra falle e appare inadeguato ai cambiamenti in atto. C’è in tutto questo un elemento da sottolineare, fortemente correlato a tale cambiamento di prospettiva: è il linguaggio. La schiettezza e l’approccio diretto sono apprezzati, e anche in questo si può vedere una critica implicita al modo di comunicare paludato della democrazia storica: il tema del linguaggio e dei suoi veicoli è quindi di grande rilevanza, formale e sostanziale. Non a caso, uno degli elementi che caratterizzano l’attuale compagine di governo è l’utilizzo sistematico dei social network per la comunicazione, anche istituzionale. Questa modalità consente di rapportarsi ai propri elettori, ai propri amici e fan, in maniera immediata, tanto in termini temporali quanto relazionali. Permette una comunicazione paritaria, dove tutti possono interloquire. In questo senso “democratizza” il leader, lo rende normale.
L’insediamento del governo Conte in Italia segna una rottura che sembra essere definitiva, portando a compimento processi di lungo periodo che stanno a fondamento del cosiddetto fenomeno populista. Un cambiamento che inizia nei primi anni Ottanta con il distacco tra élite e popolo, combinato con la progressiva modernizzazione e secolarizzazione del paese. In parallelo, la politica tradizionale tende progressivamente a ridursi a pura
espressione di interessi di parte, quando non addirittura personali. Ci sono poi altre tre evoluzioni determinanti: l’individualizzazione, il presentismo e il direttismo. Il singolo diviene misura delle cose e compie quella torsione per cui le opinioni del cittadino comune valgono quanto quelle dello scienziato di fama. Con il presentismo si intende il progressivo appannarsi della memoria storica, spesso delegata al web o a strumenti esterni, e non più (o sempre meno) raccontata e rinfrescata dalla politica e dalle forze intermedie. Direttismo è invece ciò che consente al navigatore sul web di confrontarsi direttamente con i leader e con gli esponenti di partito, in quel processo che elimina le intermediazioni e rende il politico specchio del cittadino. Infine, con un trend indotto dai precedenti, si assiste alla banalizzazione del linguaggio, che ora richiede brevità, velocità e semplicità.
Questi processi mutano il perimetro nel quale si muovono i mezzi di informazione e ne riconfigurano il ruolo nella vita delle persone, con un fenomeno per molti aspetti paradossale: pur essendo esposti a una massa sempre maggiore di informazioni, a cui si dedicano più tempo ed energie, la sensazione diffusa è quella di “saperne meno di prima”. La coesistenza nel discorso politico, pubblico e mediale di diverse narrazioni della realtà, che confliggono sul “realmente accaduto”, ha infatti spostato il contraddittorio dal piano dell’interpretazione di una narrazione (tutto sommato) condivisa al piano della narrazione stessa. Il concetto stesso di verità viene così messo in discussione, in quanto non rilevante ( post-truth, postverità) oppure perché inconoscibile nei fatti.
La causa va ricercata nel depotenziamento dei meccanismi interni ed esterni che in passato consentivano di ricomporre le informazioni in “informazione”. Il relativismo a cui assistiamo è sicuramente dovuto alla dispersione e diffusione delle fonti delle diete mediali di oggi, che affiancano e sostituiscono i mezzi tradizionali con i social network, le search e i siti dei newsbrand. Ma anche alla difficoltà, nella massa, a distinguere notizie vere e
fake, intendendo con questo termine anche le informazioni manipolate, iperbolizzate, malriportate o partigiane. Questo sottende la perdita di quei riferimenti esterni capaci di orientare e consentire l’attivarsi dello spirito critico individuale, catalizzato dal modo in cui fruiamo delle informazioni. Le leggiamo in modo superficiale, limitandoci al titolo o alla pratica dello skin reading, rimaniamo chiusi nella filter bubble delle nostre comunità digitali, soffriamo di un
confirmation bias che ci porta a ignorare o a ribaltare le informazioni che contraddicono le nostre convinzioni, scegliamo a cosa credere e che cosa condividere usando, più che la razionalità, la parte istintiva e irriflessa del nostro cervello, quella che Daniel Kahneman nel suo libro Pensieri lenti
e veloci chiama “system 1”. Di fronte a questa modalità di interazione
con le informazioni, il riconoscimento sempre più scarso – se non addirittura il fastidio – nei confronti dell’expertise tecnica e culturale conduce alla perdita dei meccanismi che ci inducevano a portare a riferimento fonti esterne. Il divario élite-popolo entra quindi in sommatoria con l’individualizzazione, ridefinendo la nostra relazione con il giornalismo e i canali informativi. Il modo in cui i mezzi d’informazione tradizionali vengono chiamati in causa dall’attuale discorso politico, come controparti e con frequenti accenti cospirazionalistici, ha contribuito alla perdita di fiducia che mina la loro funzione di punto di riferimento. Le responsabilità non sono solamente esterne al sistema dei media: i modelli di business e di revenue basati su click e viralità, il taglio dei fondi per fact checking e giornalismo critico, nonché la difficoltà ad adattare lo stile informativo al modo in cui le persone fruiscono le notizie, sono fattori del tutto interni al sistema, e il cambiamento – culturale e di approccio – che consentirà di contrapporsi al relativismo informativo non sarà affatto semplice. I cambiamenti sottostanti a quello che chiamiamo “populismo” rivelano fenomeni strutturali cui non si potrà dare risposta semplicemente contando su un ritorno al passato. Richiedono, al contrario, un profondo riassetto delle logiche politiche, decisionali, culturali e relazionali. Una vera rivoluzione rispetto alle forme Novecentesche, proprio per consentire al dibattito razionale di tornare ad avere un ruolo centrale nella formazione delle opinioni.