Virtual water
agg. + sost. ( sing. ingl.) – È l’indice che misura, per ogni prodotto o servizio, la quantità di acqua utilizzata per produrlo. Un riferimento fondamentale per qualsiasi politica di sostenibilità messa in campo da aziende che importano da paesi a rischio idrico.
Per realizzare una t-shirt di cotone da 250 grammi servono 2500 litri di acqua, un jeans da 800 grammi ne richiede mediamente 8mila. Una sola tazza di caffè può aver bisogno di ben 140 litri di acqua e un’unica mela ne “costa” almeno 125. La virtual
water indica la quantità d’acqua dolce, non necessariamente potabile, che serve per produrre cibo, beni e servizi ovunque nel mondo. È la somma di ciò che è usato per irrigare i campi o per lavare i tessuti spediti da un capo all’altro del pianeta. Importare prodotti a elevato contenuto di “acqua virtuale”, come la verdura e la frutta, permette a un paese di risparmiare sul consumo idrico locale e di destinare risorse preziose per usi civili o produzioni più remunerative. L’altra faccia della medaglia è però tragica: se gli acquisti provengono da paesi che affrontano la siccità, si corre il rischio di aggravare la situazione di carenza idrica. L’Europa tradizionalmente compra beni ad alto contenuto di acqua da zone che ne hanno poca, e alcuni paesi del Nord Africa sono ormai oltre la soglia di guardia. In Tunisia, per esempio, le risorse idriche sono sovrasfruttate e un incremento della domanda di acqua è considerato difficilmente sostenibile. I tunisini, che investono 9150 litri di acqua virtuale per ogni chilogrammo d’olio d’oliva prodotto, dovranno cambiare le loro strategie commerciali per affrontare con più equilibrio i rischi ambientali. Il timore è che l’essere meno competitivi sul mercato internazionale possa impoverire generazioni di agricoltori. Ecco perché nel 2019 l’attenzione verso la
virtual water deve essere massima.