Shock
sost. ( ingl.) – Per rispondere al cambiamento sono necessari: formazione, un nuovo welfare, la capacità della politica di misurare in maniera diversa i bisogni delle persone e un “ministro del Futuro”.
DI : Enrico Giovannini Economista e statistico, ex ministro del Lavoro
Normalmente, associamo questo termine a un evento negativo. In realtà, gli esperti si aspettano un futuro caratterizzato da shock, ovvero da forti non linearità, da cambiamenti improvvisi, non necessariamente negativi. Sappiamo che avremo shock negativi legati al cambiamento climatico e che la rivoluzione tecnologica può determinare uno shock negativo per molte persone, ma positivo per altre. Analogamente, ne rischiamo uno politico con le prossime elezioni europee, che però può essere evitato con una reazione forte verso una maggiore integrazione dell’Ue. Dobbiamo imparare a guardare la realtà in modo integrato. Le persone oggi sono spaventate da un Cerbero con tre teste: globalizzazione, cambiamento climatico e tecnologia. Davanti a questi scenari, che possono cambiare con una velocità repentina, dobbiamo sforzarci di dar vita a strumenti e politiche che consentano alle persone di cavalcare l’onda senza esserne travolte.
La principale risposta al cambiamento è la formazione: abbiamo bisogno di mettere in campo tutti gli incentivi necessari, e addirittura cambiare gli standard contabili, con cui giudichiamo un’impresa o un paese, considerando la formazione e l’educazione non un costo, ma un investimento fondamentale (eventualmente sostenuto da benefici fiscali), perché questo sarà l’unico strumento che aiuterà le persone, le imprese e i territori ad adattarsi a un mondo che cambia.
Un cambiamento che è già in atto nel mondo del lavoro. Probabilmente, nel futuro avremo tre categorie di persone/lavoratori: la prima sarà quella ad alta qualificazione, con elevato livello salariale. La seconda sarà composta da lavoratori a basso reddito che svolgeranno attività non automatizzabili. Poi ci sarà una terza categoria, vedremo quanto grande, di persone totalmente “fuori dal giro”, che dovranno avere l’opportunità di vivere in modo dignitoso, avere una vita socialmente soddisfacente, e anche contribuire ai consumi, così da generare una domanda adeguata di beni e servizi realizzati dai robot.
Quel che si sta verificando nel mondo del lavoro è l’inizio di un possibile shock sociale e istituzionale di enormi proporzioni, che dovremo essere in grado di governare. Come? Secondo alcuni, una possibile risposta è data dalla redistribuzione non solo del reddito, ma anche della proprietà dei mezzi di produzione. C’è per esempio chi suggerisce di tassare i robot, cioè tassare un fattore cruciale della produzione per generare risorse orientandole alla formazione e alla corresponsione di un reddito minimo. Qualunque sia la strada scelta, se nel futuro assisteremo alla crescita di lavoro che verrà realizzato in forme diverse rispetto al mercato
tradizionale, i rischi di assistenzialismo sono molto alti e questo pone sfide cruciali alla politica e alla pubblica amministrazione. Per esempio, sarà necessario un sistema di welfare che strutturi la resilienza nelle persone. Un reddito minimo basato sulla condizione di povertà e a percorsi di riattivazione delle persone è uno strumento verso cui tanti paesi si stanno orientando, ma se si immagina questo meccanismo come aggiuntivo rispetto ad altri strumenti, non si avranno mai le risorse necessarie per attuarlo e per gestirlo. Al contrario, se questa “rete di ultima istanza” è collegata a politiche attive del lavoro e alla formazione continua, allora diventa possibile cominciare a smontare alcuni pezzi dell’attuale welfare e usare tali risorse per avviare una sorta di “garanzia per la resilienza”.
Si collega a questo tema un altro possibile shock: quello legato all’invecchiamento della popolazione. Dobbiamo essere pronti a mettere in campo politiche fiscali che incentivino la natalità oppure gestiscano in modo strategico i movimenti migratori, magari pianificando misure capaci di attrarre professionalità che contribuiscano all’innovazione, e quindi a mantenere una prospettiva elevata di qualità della vita. Le condizioni dello sviluppo economico e sociale futuro richiedono però anche nuovi strumenti per misurarlo. Personalmente, mi batto da anni per andare oltre il criterio del Pil. La tecnologia sta cambiando gran parte della nostra vita “extra Pil” e abbiamo bisogno di immaginare misuratori del benessere che mostrino come i cambiamenti tecnologici abbiano effetti positivi o negativi sulla nostra condizione complessiva. Qualche anno fa, all’Istat realizzammo il Bes, un sistema di indicatori che valutano il benessere equo e sostenibile, strumento ora entrato anche nella programmazione finanziaria. A mio parere, il futuro dovrà essere equo e sostenibile, oppure non ci sarà futuro. Molte delle crisi che registriamo intorno a noi sono segnali di una non sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. La tecnologia ha un ruolo cruciale nel far fare al mondo un salto verso un futuro sostenibile, ma non basta: abbiamo anche bisogno di governance innovative, nella politica e nelle imprese. A livello di istituzioni, potremmo per esempio dotarci di un “ministro del Futuro”, che valuti l’effetto delle politiche di oggi sul livello di benessere della popolazione di domani. Le imprese, dal canto loro, dovrebbero rendicontare il loro impatto sulle dimensioni ambientali e sociali dello sviluppo, e andrebbero rivisti i criteri contabili per dare rilievo a una nuova risorsa rinnovabile che oggi viaggia al di fuori di ogni regolamentazione, i dati, che oggi sono rappresentati nei bilanci delle imprese in modo inappropriato. Serve immaginare una funzione di produzione “Klemd”, che alle tradizionali voci capitale (K), lavoro (L), energia (E) e materiali (M) aggiunga i dati. Finché misuriamo il valore dei dati attraverso la pubblicità, non abbiamo categorie utili per gestirli, negoziarli e anche tassarli correttamente.