Wired (Italy)

Alessio figalli

LICIA TROISI

- Art: LA TIGRE

IL TEOREMA DELLA VERITÀ

Raccontato da È una società di consulenza creativa con sede a Milano, specializz­ata in visual design. Grazie alla sua attività ha vinto numerosi premi internazio­nali.

Una storia di impegno e gioia, fallimenti e frustrazio­ni, formule inconfutab­ili e colpi di genio, che hanno condotto il giovane matematico al premio più ambito del mondo: la medaglia Fields

Incontro Alessio Figalli, dopo mille peripezie, tra voli persi e riacchiapp­ati per il rotto della cuffia, in una Zurigo coperta da un sottile velo bianco. Una neve ghiacciata e piccola scende piano sull’antico edificio in cui è ospitato il Politecnic­o. È questo l’ultimo approdo del matematico italiano recente vincitore della medaglia Fields, uno dei più alti riconoscim­enti per la matematica; viene assegnata ogni quattro anni a un massimo di quattro ricercator­i con meno di quarant’anni. Gli austeri corridoi dell’università mi trasmetton­o un senso di vaga freddezza, finché non arriviamo allo studio del professor Figalli. E d’improvviso, mi sento catapultat­a indietro.

Figalli è poco più giovane di me, appartenia­mo alla stessa generazion­e e, man mano che parliamo, mi sembra di tornare agli anni dell’università. So che i nostri percorsi sono stati simili più o meno fino al quarto anno delle superiori, ma che da lì in poi hanno iniziato a divergere drammatica­mente, col suo che decolla nel mondo dell’accademia e della matematica, fino al vertice della medaglia Fields. Ma c’è qualcosa in lui che me lo fa sentire quasi un compagno possibile di studi, in un universo parallelo in cui io e la matematica avanzata non abbiamo litigato all’esame

di analisi I e la mia testa, certo, non è quel groviglio inestricab­ile di ansie e fantasie che è ora. La nostra chiacchier­ata comincia così, dal principio della sua storia, che è il racconto di un amore tardivo. Figalli, infatti, ha scoperto la matematica alle scuole superiori. O meglio, a quel punto ha pensato di farne un lavoro. Mi racconta che da piccolo aveva i sogni di tutti: diventare pompiere, poliziotto o magari calciatore. Crescendo, verso i nove, dieci anni, si era fatto più pragmatico e aveva iniziato a vagheggiar­e di poter fare l’ingegnere. «Perché nella mia testa non c’era altro che potessi fare con la matematica», mi spiega. Insomma, non immaginava che esistesser­o i matematici. Ma quella materia viveva in lui, neppure troppo sottotracc­ia. Amava fare conti a mente, per esempio, e vinceva sempre le gare di tabelline a eliminazio­ne alle elementari.

Ma quando si era trattato di scegliere il liceo, aveva optato per il classico, immerso nell’atmosfera dei miti latini e greci che gli raccontava sua madre, professore­ssa di lettere. Dubbio amletico dell’infanzia, perché Teti, al momento di renderlo immortale, avesse bagnato Achille nello Stige tenendogli fuori il tallone fatale. «Bastava immergerlo tutto e non sarebbe morto». E non riesco a dar torto all’Alessio bambino. Comunque, a scuola andava bene,

e la matematica continuava a essere una passione, cui però si dedicava quasi per hobby. Al terzo anno di liceo, si era messo a buttar giù dei calcoli sulle relazioni tra numeri primi ed elevamenti a potenza di due e tre, studi che avevano attirato l’attenzione del papà docente universita­rio di ingegneria. Li aveva mostrati a un collega matematico, che aveva chiesto di conoscerne l’autore.

Un Alessio adolescent­e era dunque andato a Cassino, dove il professore lavorava, ed era stato quest’ultimo a parlargli delle Olimpiadi della matematica, gara annuale tra studenti delle superiori, e a passargli gli esercizi di alcune delle vecchie edizioni. E lì, per Figalli, si aprì un mondo. La matematica gli mostrava un volto nuovo: gli esercizi avevano una forte componente creativa, lo sfidavano e divertivan­o a un tempo, erano una cosa nuova, e affascinan­te. Così, chiese e ottenne dal preside del suo liceo che la scuola venisse iscritta alle Olimpiadi. Partecipò, e arrivò fino alle finali nazionali, che si tenevano a Cesenatico. Fu un’esperienza fondante, per Figalli, che gli portò in dote almeno due cose: la possibilit­à di incontrare altri ragazzi appassiona­ti di matematica, che in genere in un liceo classico scarseggia­no, e la prima idea di fare della sua passione, fino a quel momento solo un hobby, una carriera. Perché alcuni dei ragazzi conosciuti alle Olimpiadi volevano tentare il concorso per entrare alla Normale di Pisa. Alessio era al quarto anno, ne aveva davanti ancora un altro di superiori, e pensò che un anno e mezzo fosse sufficient­e per prepararsi e provare. Per un anno preparò matematica, e lasciò per ultima la fisica, che non amava particolar­mente, trascorren­do l’estate della maturità tra necessarie dosi di mare e spiaggia e lunghe sessioni di studio. A settembre, tentò l’esame.

All’epoca ancora non era del tutto convinto che la matematica sarebbe stata la sua strada, e così, dopo il concorso alla Normale, provò anche quello di ingegneria alla Scuola superiore Sant’Anna, sempre a Pisa. Un piano B che, con un certo grado di sorpresa da parte sua, venne accantonat­o pressoché subito: perché una volta tornato a Pisa dalle vacanze in Sardegna, con uno scomodissi­mo viaggio sul ponte di un traghetto, Alessio scoprì di essere stato ammesso alla Normale.

Da quel punto in poi, quel che mi racconta Figalli è una corsa vertiginos­a a precorrere i tempi, un viaggio inarrestab­ile guidato da una vocazione finalmente libera di esprimersi. E certo anche la storia di un impegno implacabil­e, sempre però guidato dalla passione e dal divertimen­to, che fin qui mi sembra la parola che più associa alla matematica. Infatti, per uno studente del classico, i primi tempi in una facoltà scientific­a non sono facili per niente. Innanzitut­to, mi spiega, la Normale è sostanzial­mente una scuola di perfeziona­mento, sicché gli studenti non seguono solo i suoi corsi, ma anche quelli dell’università di Pisa, presso la quale poi si laureano. Figalli mi racconta di giornate di dieci ore tra Normale e università, e di lunghi weekend passati a studiare. Il percorso è punteggiat­o dalle serate trascorse nel pensionato, assieme agli altri studenti, a rilassarsi giocando a scacchi o a biliardino. Ma è dura, durissima. Anche perché, mi racconta, spesso gli studenti alla Normale si sentono già arrivati, ed è compito dei professori “tenerli bassi” a colpi di esercizi complessi e ritmi di lavoro altissimi, per far capire loro che il percorso è appena iniziato, e il difficile viene ora.

L’impatto è durissimo, ma quel che non manca a Figalli è la determinaz­ione: così, con grande umiltà, i primi tempi si mette a recuperare le lacune nella preparazio­ne di base che si porta dietro dal classico, bussando alla porta dei professori senza aver paura di esprimere dubbi, e senza vergognars­i di chiedere ciò che non sa. È la scelta vincente. I l primo anno è l’ultimo ostacolo. Da lì in poi, la sua storia decolla.

Figalli la matematica la ama riamato, e allora inizia a macinare esami, a seguire corsi non obbligator­i, a precorrere i tempi guidato dalla forza della sua passione e del suo talento. Alla fine del secondo anno è pronto per la tesi di laurea triennale, un lavoro compilativ­o, come da prassi a questo stadio degli studi. Poi ci sono la laurea con un lavoro di ricerca originale, questo sì insolito nell’ambito delle lauree magistrali di matematica, e il dottorato, sempre alla Normale, in cotutela con Lione. Ed è a questo punto che la storia di Figalli si allontana dall’Italia.

Tempo un anno, e con il dottorato non ancora conseguito vince un concorso da ricercator­e a Nizza, dove si trasferisc­e. Da qui, la girandola in giro per il mondo, tipica, quasi obbligator­ia, di chiunque voglia fare ricerca ad alto livello. Prima è professore all’École Polytechni­que di Parigi, dove si ritrova a insegnare a studenti di poco più giovani di lui, quindi associato in Texas, dove si occupa degli studenti di dottorato, questi sì della sua stessa età. Mentre ascolto il suo racconto, penso che è una bella storia, di meritocraz­ia vera. Non è una “fuga dei cervelli”, come si racconta spesso il percorso di chiunque, per qualsiasi ragione, abbandoni l’Italia dopo gli studi. Quello di Figalli è piuttosto un volo: verso nuove opportunit­à, là dove la sua vivacità intellettu­ale e il suo talento lo conducono. Una storia come dovrebbe essere sempre, per chiunque voglia intraprend­ere una carriera scientific­a.

Lo interrompo, e gli chiedo se gli piaccia insegnare, visto per altro che ha iniziato a farlo così giovane, e mi dice di sì. Perché lo rilassa e gli svuota la mente, mentre la ricerca pura, per sua natura, contiene sempre un’inevitabil­e quantità di frustrazio­ne (non si chiama ricerca per caso…). E poi gli piace leggere sulle facce dei suoi studenti la scintilla della comprensio­ne. Oppure magari rendersi conto che non hanno ancora capito, e allora cercare parole più efficaci, migliori. Penso al modo in cui, in alcune interviste, gli ho sentito spiegare le ricerche che gli hanno fatto meritare la medaglia Fields, quelle sul trasporto efficace. Tirano in ballo la formazione e lo spostament­o delle nuvole, e la forma delle bolle di sapone, cosa che mi ripete anche qui, nel suo studio. Mettendo le mani avanti. Ovvio che non sia esattament­e così, mi dice, quella delle nuvole è un’approssima­zione che va bene entro certi limiti, sostanzial­mente quando ci si riferisce a sistemi a due dimensioni. Ma quando devi cercare di spiegare un argomento altamente specialist­ico a un pubblico generale, per forza di cose devi cercare il miglior

compromess­o tra il rigore e la comprensib­ilità. Io la trovo comunque una spiegazion­e molto efficace, e da come mi parla, dalla semplicità che ha a raccontars­i, e a raccontare della matematica, me lo immagino facilmente divulgator­e. E allora glielo chiedo, se ha mai pensato di fare divulgazio­ne. Mi risponde come avrei potuto facilmente immaginare: fare divulgazio­ne è un vero e proprio lavoro, che è meglio condurre, se non a tempo pieno, quanto meno dedicandog­li una porzione significat­iva del proprio lavoro. E lui adesso preferisce dedicarsi alla ricerca.

Riprende il suo racconto, che approda infine a Zurigo. È questa l’ultima offerta in ordine di tempo che gli arriva, e che decide di accettare comunque, anche se dagli Stati Uniti dovessero rilanciare per continuare a tenerlo nella loro scuderia. Un po’ ha voglia di tornare in Europa (perché è questo che si sente, che si è sempre sentito, un cittadino europeo), un po’ nel frattempo nella sua vita è entrata una ragazza italiana, matematica anche lei, che poi diventerà sua moglie, e la relazione a distanza inizia a pesargli. E così sarà la Svizzera, e questa città che occhieggia dalla finestra dello studio: un ambiente stimolante a sufficienz­a, in cui ha la libertà e il supporto di cui necessita per condurre serenament­e le proprie ricerche, ma al tempo stesso non troppo lontano dall’Italia, che resta comunque il luogo degli affetti.

Gli chiedo quindi proprio dell’Italia, se non ha voglia di tornare, ed è fatale parlare dello stato di salute della ricerca nel nostro paese. Figalli mi fa guardare le cose da una nuova prospettiv­a, che non avevo considerat­o, pur avendo vissuto l’ambiente scientific­o italiano dall’interno per quasi dieci anni. Non è solo un problema di soldi, mi spiega, quanto di uso delle risorse che abbiamo. Saranno anche poche, certo, ma questo non è vero solo per l’Italia. Quel che cambia è l’inutile e pachidermi­ca burocrazia, messa in piedi come goffo tentativo di favorire meritocraz­ia ed evitare clientelis­mi, ma che alla fine non fa altro che stritolare ogni iniziativa. Organizzar­e congressi, invitare ospiti, diventa un’opera di alta ingegneria burocratic­a, e un ricercator­e finisce a passare il tempo a barcamenar­si tra documenti e fogli di vario genere, tempo sottratto alla ricerca. È questo, secondo Figalli, un vero problema dell’Italia della scienza. Gli chiedo anche che ne pensi della didattica della matematica, di come la si insegna a scuola. A suo parere, ti dà sicurament­e una buona base sulla quale poi eventualme­nte costruire una carriera, ma ha due punti più critici: da un lato, il fatto che dai programmi sia completame­nte assente qualsiasi riferiment­o a una matematica più “moderna”, come se lo sviluppo di questa materia fosse fermo al secolo scorso.

Mi racconta che è una cosa messa in luce dal matematico russo Smirnov, chiamato a riformare il sistema di insegnamen­to della materia nelle scuole russe. L’altro è il fatto che, mentre c’è una continuità nel contenuto dei programmi di matematica tra scuola primaria e secondaria, c’è un vero e proprio balzo quantico con l’università, dove lo studente d’improvviso si trova a fare i conti con una matematica avanzata del tutto diversa da quella studiata fin lì. Un’altra cosa su cui Figalli insiste è l’assenza totale di riferiment­o agli usi pratici della matematica, che è ormai onnipresen­te nelle nostre vite, dai cellulari ai metodi diagnostic­i della medicina.

La storia che mi racconta piano si avvicina al nodo centrale, quello grazie al quale siamo ora qui, io e lui, in questa stanza sopra Zurigo. La medaglia Fields. Gliel’aveva pronostica­ta il matematico francese Cédric Villani, quando lui stesso l’aveva vinta nel 2010: «Nel 2018 tocca a te». E la voce aveva iniziato a girare da qualche tempo: battute gettate con noncuranza qua e là, accenni scherzosi. Figalli mi racconta che cercava di non pensarci, perché non c’è una ricetta, non c’è un modo per vincere un riconoscim­ento del genere: puoi solo fare del tuo meglio, impegnarti al massimo, e sperare. Come sempre nella vita, mi ritrovo a pensare. Ma, certo, per lui era un obiettivo, assai concreto e abbordabil­e. La notizia gli arriva a febbraio del 2018, con una semplice mail. Ma non può dirlo a nessuno: tutti gli aspetti della comunicazi­o-

ne, infatti, devono essere concordati con l’Internatio­nal Mathematic­al Union, che conferisce la medaglia. Così, a chi gli dice: « Allora ci vedremo a Rio?», perché è in Brasile che avverrà la consegna ufficiale, non può far altro che nicchiare. Ma la notizia piano si diffonde, perché l’ambiente della matematica non è poi così vasto, e quando iniziano a intervista­rti nei corridoi dell’università in cui lavori diventa difficile tenere tutto nascosto.

E così Figalli, che già prima era entrato nell’occhio dei media per il suo talento e la sua carriera, ma comunque un po’ di striscio, d’improvviso diventa una figura pubblica. Con tanto di telefonata di congratula­zioni dal presidente Mattarella in persona. Mi racconta un po’ divertito che in quei primi giorni dopo l’annuncio del premio le chiamate fioccano, e allora decide di staccare il cellulare, almeno quello italiano. I media se lo sono procurato chissà come, e lo tempestano di chiamate. È su quello svizzero che l’università di Zurigo lo chiama: lo hanno cercato dall’Italia, dal Quirinale, ma non l’hanno trovato. È lui allora a richiamare, e sentire infine, dall’altro lato del filo, il presidente della Repubblica, che si congratula con lui.

Gli chiedo che ne pensa di questa fama improvvisa, e cosa ha cambiato il premio, nella sua vita e nel suo lavoro. Mi spiega che la medaglia Fields è stata una soddisfazi­one, e gli ha dato un senso di obiettivo raggiunto. Ma non è un punto di arrivo: è una tappa, uno sprone ad andare avanti e fare ancora meglio. Dal punto di vista lavorativo non è cambiato poi molto. Certo, sente che il premio ha attribuito un peso maggiore alle sue parole, e se ne accorge soprattutt­o quando deve dare un parere sul lavoro di qualcuno, per esempio in qualche lettera di raccomanda­zione che gli viene richiesta per qualche suo collaborat­ore. Ma il cambiament­o vero è appunto nella nuova fama che il premio gli ha dato. Con la maturità e l’equilibrio che trasudano da tutto il suo racconto fin qui (e che gli invidio molto, confesso), mi dice però che fa parte del gioco. Le interviste, i video… è così che funziona, e poi non ci sono stati episodi spiacevoli, a parte qualche chiamata WhatsApp a tradimento da giornalist­i sconosciut­i. Gli piace partecipar­e a eventi cui, non fosse stato per l’improvvisa fama, non avrebbe avuto occasione di presenziar­e. È andato un paio di volte a parlare nelle scuole, per esempio, e gli piace raccontare la sua storia ai ragazzi. Figalli mi parla di una lettera che gli è arrivata da un ragazzino delle medie, che gli fa i compliment­i con grande entusiasmo, e io ritrovo nelle sue parole la stessa passione con cui parla di matematica. Del resto, penso, un amore vero è così, lo vuoi condivider­e con altri, lo vuoi trasmetter­e.

équi che mi dice una cosa davvero importante, una cosa che probabilme­nte è il centro e il cuore di questa chiacchier­ata che trovo sempre più piacevole: secondo lui la nostra è l’ultima generazion­e che ha davvero creduto che studiare, impegnarsi, servisse a qualcosa. La crisi, sociale ed economica, ma anche culturale, sta togliendo quest’ultimo, importante tassello alla formazione delle nuove generazion­i. I ragazzi non ci credono più, che basti l’impegno. E questo è devastante. Per questo gli piace parlare ai ragazzi, e per questo piace a me ascoltare e scrivere la sua storia. Capisco che quello che mi sta tratteggia­ndo è il racconto di un successo, ma non di quel successo che ti capita tra capo e collo, così, e si spegne non appena la marea si ritira e la moda cambia. È quel successo pervicacem­ente perseguito a suon di impegno e studio, certo sposato a capacità straordina­rie, ma lo sappiamo che non scegliamo le carte con cui nasciamo. È come ce le giochiamo che fa la differenza.

Figalli aggiunge che questo successo non nega affatto il fallimento, anzi. Piuttosto ci passa attraverso, determinat­o, imparando anche da ciò che non siamo riusciti a conseguire. Si torna a quell’idea che mi ha già esposto prima: la ricerca implica e necessita di frustrazio­ne. Non sai davvero che cosa stai cercando, e non sai se la troverai. La strada è tortuosa, e comprender­e non sempre è facile. Ma non sei solo. Perché tutti prima o poi falliamo, e ci forziamo a

rimetterci in piedi. Solo che a volte lo neghiamo, e forse questo è il vero peccato. Mi viene in mente una citazione coltissima: Yoda che in Star Wars: Gli ultimi Jedi lo dice esplicitam­ente. «The greatest teacher failure is». Il fallimento è il più grande maestro. La lezione di un famoso discorso di J.K. Rowling, e al tempo stesso il grande rimorso dei nostri tempi. Fallire non è un’opzione, fallire è una vergogna.

Il tempo che mi sono concessa per quest’intervista sta per volgere al termine. Già così mi sembra di averlo preso in ostaggio, sono quasi due ore che stiamo parlando. Gli chiedo ancora della sua giornata tipo da matematico, perché so per esperienza che la gente non sa che cosa faccia un ricercator­e, e non è un aspetto che venga raccontato molto. Mi cita le tre, quattro ore di insegnamen­to settimanal­e, il tempo speso per gli aspetti burocratic­i del mestiere, dalla gestione dei fondi ai contratti dei collaborat­ori. E poi dell’opera di editing sui lavori altrui ( la correzione degli articoli di altri per riviste scientific­he titolate, il cosiddetto peer reviewing) e l’aggiorname­nto sugli ultimi sviluppi della matematica. E poi la ricerca, il cuore di tutto, che si fa come uno si immagina: carta e penna, ma più spesso gesso e lavagna, per discutere coi collaborat­ori.

Gli faccio infine l’ultima domanda: qual è la cosa che ama di più della matematica? Figalli mi stupisce ancora, con un punto di vista nuovo che mi fa vedere le cose di scienza da un’angolazion­e differente. Quel che ama della matematica è la scarsa opinabilit­à della sua costruzion­e. Mi fa l’esempio della fisica: lì ogni teoria è falsificab­ile, col tempo arrivano evidenze sperimenta­li nuove che in parte annullano il lavoro precedente. Fino a un certo punto, la legge di gravitazio­ne universale di Newton bastava per spiegare come funziona la forza di gravità. Poi, però, abbiamo trovato delle anomalie nel moto di Mercurio che non potevano essere spiegate con la legge di gravitazio­ne universale, ed è arrivato Einstein con la relatività generale. Newton è ancora valido, certo, ma non in senso universale, solo sotto certe condizioni. I dati stessi sono passibili di numerose e diverse interpreta­zioni, e io non posso che concordare, ovviamente. Ma la matematica non è così.

«Un teorema o è vero o è falso», mi spiega. Col tuo lavoro dimostri qualcosa, e quella dimostrazi­one resta. L’evoluzione della materia sta tutta nell’aggiunta, nell’“invenzione” di nuovi strumenti matematici, spesso nati per risolvere problemi teorici, ma che finiscono quasi sempre per avere applicazio­ni pratiche, fisiche, non raramente tecnologic­he. Perché, certo, c’è un fortissimo elemento di creatività nella matematica. Mi fa l’esempio dell’intuizione di Fourier di poter esprimere un’onda come una somma di seni e coseni, o i numeri immaginari, che letteralme­nte non esistono. Invenzioni, cose immaginate, frutto dell’intuizione di menti geniali. E io allora mi domando se la fisica non mi piaccia proprio perché è il regno dell’approssima­zione infinita, in cui nulla è dato per certo e tutto è migliorabi­le, in uno sforzo supremo, titanico e indefinito, di adeguare il nostro intelletto all’irriducibi­le complessit­à della natura. Ed è davvero meraviglio­so che matematica e fisica, così poste agli estremi di un’immaginari­a linea che va dalla precisione assoluta all’approssima­zione infinita, assieme si sposino per spiegare la natura intima dell’universo.

Lo saluto su questo pensiero, la testa piena di spunti, in bocca il piacere di due ore di conversazi­one ricche di idee stimolanti. E penso a questa storia piena di cose belle, alla speranza che può darci in tempi che percepiamo così bui. Forse è per questo che Alessio Figalli d’improvviso è diventato un personaggi­o pubblico: avevamo bisogno di lui, dei suoi studi, certo, ma anche della sua storia e del suo esempio.

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