Alberto Mantovani
ANDREA VITALI
NOI VOGLIAMO QUESTA VITTORIA
Raccontato da Nelle sue opere fonde la passione per l’arte giapponese a quella per il cervello, che ha studiato per conseguire un dottorato in Neuroscienze all’Università della Pennsylvania.
Un racconto che parte dai campi della bassa romagnola di colui che doveva diventare un fisico e che, dopo aver toccato con mano la malattia, ha individuato nella terapia immunitaria la nuova frontiera per sconfiggere i tumori
Prima di incontrarlo mi faccio una passeggiata per i sentierini del campus universitario, recentissimo e multietnico, dell’istituto Humanitas a Rozzano, alle porte di Milano. Il sole è calduccio, l’aria frizzantina. Uso aggettivi siffatti perché sono intenerito dalla studiosa gioventù che approfitta della pausa pranzo per tirare una boccata d’aria e qualcuno, raro, anche un tiro di sigaretta. Passeggio anche per quello. Dare aria al mio orbitale, lasciare fuori l’odore del mio vizio. Sto per incontrare il professor Alberto Mantovani, uomo che ha dedicato e dedica la sua vita alla ricerca nel campo dell’immunologia e dell’oncologia, mi piacerebbe passare indenne al vaglio delle sue cellule olfattive.
Così, quando sono nel suo studio, gioco d’anticipo, gli chiedo se per caso è interista. Domanda astuta, mi serve per rompere il ghiaccio ma anche perché il suo viso mi ricorda in un certo senso quello di Giacinto Facchetti. E se anche non lo fosse, interista intendo, il ruolo li accomuna, entrambi schierati a difendere qualcosa. La metafora calcistica, si vedrà, non è poi così tanto fuori luogo. Magro, in camicia e cravatta ma senza giacca, partecipa alla mia abitudine giurassica di usare penna e quaderno per prendere appunti: in quattro e quattr’otto, così, mi mette a mio agio.
Non pesano nelle sue parole e nella gestualità il fatto di essere il ricercatore italiano maggiormente citato nella letteratura scientifica internazionale, i prestigiosi riconoscimenti, come il Robert Koch Award del 2016, il premio triennale dell’organizzazione europea degli Istituti del cancro ricevuto sempre nel 2016 dalle mani della principessa Astrid, né quelli che arriveranno a breve, in aprile a Vienna e in novembre a New York quello che suona più dolce alle mie orecchie, il premio per l’eccellenza in medicina (traduco liberamente così pur non sapendo che tre parole di inglese, nda).
Sbircio di lato, sulla parete alla mia destra dove gli attestati di questi e molti altri riconoscimenti si affollano per vedere se c’è ancora qualche buco dove piazzare i prossimi. Ma il professore mi ha fatto accomodare a un tavolino rotondo, tralasciando il suo posto dietro alla scrivania. Non vedo bene e questo mi suona come un segno, un indizio: quello è il passato e, benché onusto di onori a testimoniare i successi, il futuro non accetta pause di sorta.
Gli allori, insomma, non sono fatti per sedercisi sopra. Come le stagioni in un certo senso, come il successo di un buon raccolto che non arriva per grazia ricevuta. Metafora anche questa, ma opportuna. Stagioni, raccolto, campagna. Radici in un certo senso. Mi ci attacco per portare il professor Mantovani indietro nel tempo alle origini. Le origini dicono Soragna, Suràgna in dialetto parmigiano, piccolo centro della bassa dove hanno casa i genitori contadini: padre mugnaio, madre dedita alla casa e immagino pure lei impiegata in qualche fatica dei campi. Ma sento un profumo in quelle parole, in quelle immagini di bassa evocata. È una carezza accompagnata da un sottofondo di pagine che girano una alla volta, è il tocco dell’essenziale, di una vita che non aveva nulla di fittizio. O non è vero forse che in quel comune c’è una frazione, Diolo, e che in quel Diolo c’era il podere del Boscaccio, abitato dai nonni di Giovannino Guareschi? Ecco perché sento una scossa e per un attimo guardo dalla finestra e vedo un cielo azzurro con qualche nuvoletta. E fingo di non essere ai margini di una metropoli ma sotto quei cieli della bassa.
Mi vien più facile così pensare ai genitori dell’immunologo come a due personaggi di quei racconti: la terra, la “maledizione” dei paesi agricoli, qualche diatriba, politica magari o storie di confini. Ma mai alzare bandiera bianca di fronte al destino perché probabilmente non esiste. E, se c’è, è cosa che ci costruiamo noi, dopodiché, una volta fatto, lo battezziamo così e pace, amen. Per i genitori di Mantovani, tutto ciò significa andare a lavorare dall’età di otto anni per il padre, per la madre interrompere gli studi in quinta elementare. Ma non finisce lì. Durante la chiacchierata il professore usa un’espressione che non attribuirei ai suoi genitori: ascensore sociale. Erano, quelli, tempi in cui si andava pedibus calcantibus. Ma il senso è quello. Per padre e madre le vie del mondo sono infinite, gli ascensori, quelli veri, arriveranno: ma c’è n’è uno che è pronto sin dai tempi di madre Eva e accoglie chiunque vi voglia salire. La cultura, la chiave che al pensiero apre le vie del mondo. Scarpe grosse magari, ma sicuramente cervello fino.
Nella casa avita spadroneggiano letteratura e musica, lirica (ma non ne dubitavo). Il padre ha una predilezione per I miserabili, la lirica è targata genius loci. Arie e battute del maestro di Busseto, Giuseppe Verdi, diventano parte del quotidiano, si parla e si risponde a volte con quelle. Il terreno di coltura su cui crescere il futuro immunologo si crea così, discende dall’intimo dei genitori, è parte attiva della vita quotidiana, sorta di cibo, alimentato di continuo dalle gitarelle in bicicletta che papà e gli zii fanno da Soragna a Parma per ascoltare l’opera al teatro Regio. In senso figurato, se posso dire, anche se non è ancora nato, il professore riceve un’infarinatura. Le basi sono gettate, bisogna andare oltre. Significa Milano. Non è certo una gita di piacere per la famiglia Mantovani, perché su quel trasferimento pesano le conseguenze della grande crisi del ’29 che coinvolge gran parte del mondo produttivo, una goccia di quel gran temporale si abbatte anche su di loro. Ma non li abbatte.
Mi piace immaginare che il padre abbia commentato, dal Rigoletto, «del mio core l’impero non cedo»: estrapolo a caspita dal contesto della romanza e con una certa incoscienza. Ma insisto poiché il Mantovani senior, una volta fattosi milanese, rispolvera l’antica passione o vocazione per la falegnameria: realizza un sogno con tutta probabilità, lo dice il tono con cui il figlio mi racconta questo fatto e le rughette che gli compaiono agli angoli degli occhi rinverdendo un ricordo lontano. Il sogno adesso può cominciare perché è lì, in quel di Milano, che Alberto Mantovani vede la luce. Necessita fare un salto temporale a quell’ottobre 1948 in cui nasce e dipoi agli anni che lo portano al liceo, durante i quali sarebbe facile pensare che nasca l’idea di voler fare, da grande, il medico. Non sarebbe certo un cattivo pensare, ma nel caso del nostro si commetterebbe un, seppur veniale, errore. Il liceo è quello di un altro nume tutelare
dei cieli d’Italia, Manzoni. Ma sotto quel cielo, tra le mura dell’edificio dedicato a don Lisànder c’è un altro nume in carne e ossa. Fisico, nel senso di presente, ma anche in quello più ampio di adepto della materia. Persona di elevate qualità intellettuali, entra con passo pesante (e non mi pento dell’aggettivo usato!) nel mio immaginario grazie alle parole del professor Mantovani. È un personaggio con un’aura tutta sua per uno che, come me, ha sempre studiato a memoria le formulette della fisica, cosa di cui dovrei pentirmi e anche dolermi. Quasi sulfureo quando Mantovani mi spiega che quell’uomo ha lavorato per un po’ con i grandi fisici romani più noti con il nome di ragazzi di via Panisperna: Fermi, Pontecorvo, Segrè, fino a quel Majorana alla cui scomparsa Leonardo Sciascia ha dedicato uno dei suoi tanti, chirurgici romanzi.
La fisica quindi in quegli anni, che è soltanto in minima parte quella stampata sui testi del liceo. La maggior parte sta al di là dell’ultima pagina, è una materia in movimento che vuole curiosità e impegno, capacità di sognare da un lato, dall’altro tenere saldamente i piedi sulla terra e l’occhio all’obiettivo. Non è forse quello che nella famiglia Mantovani hanno sempre fatto? Non sono forse quelli i binari che hanno sempre condotto padre e madre facendo i conti con le difficoltà, i rovesci così da potersi dire «Un bel dì vedremo» che tutto può cambiare? È a quella fisica, ancora fitta di misteri, che l’animo di un giovane Alberto Mantovani si rivolge, innamorandosi com’è giusto che sia a quell’età. Da grande farà il fisico, dunque. E nessuno ha niente da obiettare, men che meno quel professore dai passi pesanti.
Appunto, ne avevo accennato poco sopra e mantengo la promessa al fine, anche, di aprire un siparietto. Appassionato di ascensioni in montagna, forse perché salendo la gravità fa sentire meno il suo richiamo sulle umane cose, l’insegnante in questione pratica l’abitudine di calzare spesso scarponi e con quelli ai piedi di presentarsi in classe. Non è certo un elegantone, quindi, ma ha uno scopo ben preciso che è quello di ammollare via via le calzature, prepararle alle salite. La cosa non disturba il giovane studente che anzi, più avanti nel tempo e per merito d’altri,
prenderà egli stesso confidenza con gli scarponi diventando alpinista di tutto rispetto. Né lo porta a considerare la vena di sana follia che alberga nei cervelli più eclettici. Insomma, la fisica è già saldamente iscritta nel suo destino postliceale. Gli manca solo di iscriversi all’omonima facoltà non appena trascorse le meritate vacanze. Per farmi intendere l’aria che si respira in quel periodo, l’aria che lui respira, Mantovani mi cita un solo nome, quello di Joan Baez. Che è un po’ come dire tutto. We Shall Overcome oppure Here’s to You. Non sono le canzonette che accompagnano le vacanze marine di una qualunque famiglia Brambilla che accumula bagagli sul tetto della macchina e stringe moglie, figli e magari anche una nonnetta dentro l’abitacolo. È piuttosto la colonna sonora di un giovane uomo che sta già cominciando a riflettere sui mali del mondo, sufficienti così senza bisogno di andarsene a cercare altri provocando guerre, perpetuando discriminazioni, speculando sulla pelle altrui. Peace and love, con relativo simbolo. Non so, non ho chiesto in verità, se il neo maturato Mantovani ce l’abbia al collo. Ma so che non parte in vacanza per una riva marina. Preferisce invece trascorrere la sua estate in Inghilterra con un’organizzazione di volontariato e finisce per essere destinato a un campo di lavoro nell’ospedale psichiatrico di Oxford.
Sono, queste, settimane cruciali nel corso delle quali comincia a formarsi, forgiandosi poi in maniera irrevocabile, l’idea di farsi medico. La scoperta, il toccare con mano la malattia, mentale in questo caso. Considerare, come ha dichiarato più volte, che a molti esseri umani capita in sorte una dose a volte insopportabile di infelicità e che se c’è una cosa che deve, può riuscire a renderla sopportabile, ad alleviarla questa è la medicina, non altro. Alberto Mantovani sa che dovrà fare i conti con quel tal professore che conta ormai su di lui, che lo aspetta al rientro dalle vacanze per prenderlo sottobraccio e accompagnarlo nel viaggio accidentato sui sentieri della fisica. Ma la decisione è presa. In quelle settimane l’accanita lettura di testi di patologia generale gli permettono di guardare al corpo umano da un’ottica non scontata. Certo fegato e reni, cuore e cervello condividono forme e misure più o meno uguali per tutti, ma è nell’insieme che vanno a formare la persona, l’essere unico e irripetibile che è l’uomo, colui col quale da questo momento in avanti l’ormai ex fisico in pectore Alberto Mantovani decide di mettersi alla prova.
Non posso fare a meno di pensare, quando sento Mantovani raccontare di queste sue esperienze giovanili, quella in Inghilterra così come quella di poco successiva in Sicilia in occasione del terremoto del 1968, a ciò che il poliedrico Haim Baharier, filosofo, psicanalista e molto altro, ha raccontato in un suo libro intitolato La valigia quasi vuota. Ne è protagonista un geniale clochard, Monsieur Chouchani, la cui claudicanza pare ai più segno dell’imperfezione dell’essere umano mentre lui la esibisce a ricordo di una perfettibilità che non bisogna tralasciare di perseguire. Non cerca pietà il clochard, se mai la compassione che ci fa “patire con”: quindi capire, ascoltare, fare, alleviare se non guarire. Tentare in ogni caso. Il gioco è fatto, uno più uno due. Che è matematica, compagna della fisica, che insieme restano in terra d’Albione. Quando Alberto Mantovani atterra in Italia non ha più mezzo dubbio e si iscrive a medicina.
Ci stiamo avvicinando a ciò che determinerà il futuro, l’incontro con l’immunologia, la sua relazione con il sistema nervoso centrale («Sono due sistemi che comunicano tra loro»), la ricerca delle armi che il nostro sistema immunitario può usare per sconfiggere o fermare la malattia per eccellenza, il cancro. Armi che anche, contrariamente a ogni logica, può non utilizzare. L’incontro che farà di Alberto Mantovani il riconosciuto scienziato che è. Tuttavia, nelle pieghe del discorso, inserisco una curiosità. Sempre d’incontro si tratta e di quelli che altrettanto segnano una vita. Oddio, per farlo la prendo un po’ alla larga. Non so, infatti, di quanto possa violare la privatezza della sua vita ma nemmeno posso, poi, sulla
strada del ritorno a casa, correre il rischio di pentirmi per non aver osato. Davanti a uomini che si pongono di fronte ai grandi misteri della vita non posso, per deformazione acquisita in gioventù, evitare di pensare a coloro che, raccontando prima e poi finalmente scrivendo, ci hanno tramandato dubbi e possibili risposte.
L’amo che lancio ha un’esca che si chiama Omero. Il professore abbocca, e chiedo venia per l’immagine. Ma lo fa apposta perché, afferrata l’esca, trascina l’incauto pescatore in un mare magno, o nostrum, sul quale naviga senza necessità di bussola. Certo non mi aspettavo di trovarlo disarmato, ma con la mia domanda non faccio che aprire un’altra porta sull’ennesima stanza di una vita che, pur avendo le solite ventiquattr’ore quotidiane, ne lascia percepire almeno il doppio. Voglio arrivare al punto e, dopo averlo immaginato sull’isolotto greco dove trascorre qualche giorno di vacanza, sparo. Le donne, professore? Così, tanto per gradire, Penelope paziente oppure la coraggiosa Alcesti? «Ulisse», è la risposta che mi spiazza. « Ma, tra le due, Alcesti». E poi la pietas di Antigone e ancora l’Ecuba il cui grido, « Felice è colui che ignora il dolore nel rincorrersi dei giorni», pare fatto apposta per descrivere al meglio l’aria che si respira all’interno del campus.
Quale figura meglio di lei per introdurre nella chiacchierata un’altra presenza greca in un certo senso? Nicla, ovvero la signora Mantovani, ovvero santa Nicla come infine la definisce il professore accompagnando la sua uscita con un accenno di sorriso: è un indizio, segnala che non ha parlato tanto per dire, l’attribuzione del titolo non esce per caso. Si conoscono giovanissimi mentre scorrono i turbolenti anni della contestazione, la facoltà di medicina è tra le prime a essere occupata, le lezioni si tengono un po’ dove capita, spesso nel salone di un cinema. Nicla, che nella radice del nome porta i segni della vittoria, entra da subito nel destino del professor Mantovani.
E, mi chiedo, è solo suggestione in causa delle citazioni classiche che abbiano appena tralasciato oppure non si può leggere in questa apparizione una sorta di “disegno olimpico”, l’ordine di un qualche Zeus che manda sulla terra Nicla per salvare un suo protetto da un pericolo? Mi spiego. Nicla, cioè, pardon, santa Nicla è una maestra elementare, valdese, che a tutt’oggi svolge ancora opera di volontariato e di sostegno. «Dotata di grande buon senso», l’ha definita il marito in un’intervista. Ed è quest’ultima, intuisco, l’arma con la quale la donna lo salva dal pericolo di farsi monopolizzare dalla professione. Ne mitiga, per esempio, un certo scetticismo nei confronti della religione ma soprattutto, facendolo innamorare, gli offre le colorate passeggiate sottobraccio (il colore lo si metta a scelta) che permettono alla mente dello scienziato di riposare, con buona pace del sistema immunitario e detto senza offesa.
Dai che ci siamo, penso. Perché l’immagine retorica che vado formando nella fantasia è comunque quella dello scienziato, giovane per di più e quindi ancora più imprigionato nella bolla di studi e intuizioni. «Chi dunque», chiedo, « ha rotto gli indugi, chi tra i due ha dato parole alla fatale dichiarazione d’amore?». Non mi meraviglierei se ciò fosse toccato a santa Nicla, pragmatica per necessità. Sarebbe come vedere un film, una commedia di stile americano: novembre, un viale poco frequentato, foglie ingiallite che svolazzano e lei che, col sorriso, prende le redini del gioco. Invece no, pazienza, bando alle fantasie. È il professore infatti che, mi si consenta l’iperbole, mettendo a servizio del sentimento parte dell’intuito che usa e userà nella ricerca, comprende di avere davanti a sé la donna della vita e che sarebbe incauto, quando non francamente dannoso, lasciarsela scappare. Testimone dell’evento, sulla cui attendibilità non si possono nutrire dubbi, è l’Altare di Vuolvino, meglio noto forse come Altare di sant’Ambrogio, capolavoro d’oreficeria dell’epoca carolingia, di cui il professore mostra a una giovane Nicla, per il momento non ancora santa immagino, i lati minori o nascosti. Il lupo
perde il pelo insomma, ma non il vizio: nonostante il momento topico, qualcosa lo spinge a mostrare, a rivelare, a comunicare, volgendo lo sguardo in più di una direzione. Ecco, da quel momento in avanti mi piace pensare che cominci un percorso di vita che viaggia su due binari paralleli. Un sacco di stazioni intermedie, soste a volte brevi, a volte prolungate ma sempre condivise. È il percorso che definisce infine la santità di Nicla e giuro che uso l’appellativo per l’ultima volta hic et nunc, poiché credo che infine si sia chiarito in cosa consista (scherzo coi fanti ma lascio stare i santi): il buon senso classicamente femminile che spesso accomuna molte donne e che a volte corregge certe rotte. Nel caso del professor Mantovani, ne ho già accennato ma repetita iuvant, stare lontano dal rischio di diventare un uomo a “una sola dimensione” pur salvaguardando, proteggendo, sostenendo quella dimensione fondamentale che lo fa essere lo scienziato che è.
Ho detto di binari e di stazioni. Bene, non tutte le stazioni di questo lungo viaggio che dura ancora sono ordinatamente allineate su un solo lato. Da una parte ci sono infatti quelle che segnano le tappe della vita familiare, ludica anche, se vogliamo. Le montagne per esempio che richiamano gli scarponi di buona memoria, quelli dell’insegnante che ha dovuto rinunciare all’idea di avere creato un fisico, segno dell’inesorabile legge della vita, che impone scelte e a volte provoca dolori. Le montagne da vivere, che non hanno regole, decaloghi o comandamenti ma chiedono a chiunque l’onestà di confrontarsi per quello che si è. Ogni abuso sarà punito, e la colpa non potrà certo essere attribuito alla montagna, quale che sia. La montagna è una profferta della signora Nicla che colà, dalle parti della Val d’Aosta, ha un punto d’appoggio. Così, disquisendo di paesaggi naturali, apprendo, ahimè, che tra i tanti il lago e l’acqua dolce non rientrano tra i preferiti della signora. « Perché?», mi scappa dalle labbra. Non c’è risposta, incasso, metto via, proseguo oltre.
Quattro fermate sono dedicate ai figli cui, alla conta attuale, si vanno ad aggiungere otto nipoti. Figli che hanno avuto la piena libertà di scegliere la vita cui dedicarsi e che sono scesi in diverse stazioni per intraprendere il personale viaggio nella vita. Ma che non hanno potuto sottrarsi agli stimoli familiari, stimoli come vaccini che provocano risposte positive, tant’è che l’elenco delle rispettive professioni non è che la dimostrazione piana di come esempi positivi producano altrettali effetti. E non agisce così un vaccino? Endocrinologa la prima figlia con chiare tendenze alla ricerca; maschio il secondo, filosofo (si specula anche lì se non vado errato, cercando di ragionare dietro il visibile perché non tutto ciò che appare è) insediato in un’università rossocrociata; il terzo pure maschio, laureato in economia. Cosa normale, si dirà! Macché, economia, d’accordo, ma sperimentale (e qui, mi dolgo e chiedo per la seconda volta venia, perché pur stando attento non riesco a cogliere i meccanismi di tale economia); chiude il cerchio, forse farei meglio a scrivere il quadrato, la quarta nata che fa l’educatrice e si occupa di soggetti affetti da disagio fisico e mentale.
Ora, poiché questa non è un’agiografia, visto che di santità la famiglia si è già dotata, mi viene il sospetto che dovrei trovare un difetto, almeno uno, nell’uomo che mi sta davanti. Intendo qualcosa che sia in linea con l’accezione più comune che si dà al termine che uso, una mancanza o scarsa propensione a fare qualcosa. La risposta arriva piana e, senza chiedere il permesso, mi accingo a rivelarlo: che il mondo tutto, scientifico o no che sia, sappia che il professor Alberto Mantovani è un pessimo cuoco. Ma dubito che la notizia testé redatta possa contribuire ad aumentare il tasso di suicidi da qui in avanti. Intanto il tempo corre, ne sbircio l’avanzare sull’orologio del professore. La temperatura nel suo studio è sempre costante, mi aveva avvisato sin dall’inizio che standoci un po’ si corre il rischio di finir bolliti, la luce esterna comincia a calare d’intensità, si stinge verso i colori del crepuscolo che accoglie i
progetti della sera e mette, almeno per un poco, in archivio le ansie. Cinema, teatro, l’opera e le mostre, questi sono i capisaldi del suo tempo libero, vissuti nella maggior parte dei casi con la stessa passione, la stessa intensità con cui si dedica alla ricerca. Non uso frasi di comodo, mi basta percepire l’emozione che riveste le sue parole quando racconta di una rappresentazione delle Troiane vista in Epidauro mentre nel mondo, contemporaneamente, si consumava la tragedia dalla ex Jugoslavia e non può fare a meno di rilevare il portato senza tempo delle stesse angosce. Teatro e cinema, opere e mostre quindi. Ma anche letture.
E, se ho lasciato queste per ultime, è solo perché sono curioso di qualche titolo. Tralascio Proust, già citato in altra intervista. Voglio uno scoop e vengo subito accontentato: il Vangelo di san Luca, in greco. « In greco?», chiedo. «Sì, mi risponde, ma con il testo latino a fronte». O be’, penso tra me, cosa di tutti i giorni, chi non l’ha fatto almeno una volta nella vita? « Ma », dico, « volendo scegliere qualcosa di più tranquillo e anche contemporaneo?». «Qualcosa sulla montagna », risponde. Sulle montagne anzi, che di tanto in tanto spuntano nel discorso e che sono tra le prime cose che vede al mattino dalle finestre della sua casa, vista che sarebbe magnifica se non fosse orbata da un edificio che gli sta di fronte e che gli toglie il segmento dove impera il Rosa. Poi, dopo un minimo di ricerca, nella memoria s’intende, spunta tra noi il nome di Gianrico Carofiglio che genera in me solo una punta di stupore poiché non l’avrei detto appassionato al giallo o al noir. Ma quando mi dice il titolo del libro che ricorda meglio, Le tre del mattino, comprendo al volo come la storia, tenera e drammatica insieme dove una malattia lungamente ghettizzata come l’epilessia è la terza vera protagonista insieme a un padre e un figlio, possa averlo colpito. È una rappresentazione, se vogliamo, di ciò in cui il Mantovani crede: comunicare, cercare e ricercare, non arrendersi. E confrontarsi quale uomo non solo di scienza, sia con scienziati del suo mondo sia con i giovani ai quali non nega il resoconto delle sue esperienze. Non intendo solo coloro cui insegna e ha insegnato ma, tout court, il mondo delle generazioni che stanno crescendo che devono sapere come certe acquisizioni non possono essere messe in dubbio. Una? Eccola, i vaccini.
Ed ecco come arte, letteratura, medicina e consapevolezza si intrecciano nella vita quotidiana del professore. Una sua gentile collaboratrice, silenziosa quanto preziosa assistente durante il colloquio, mi fornisce la copia di un recente lavoro del professore centrato sul tema più che attuale dei vaccini e pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Jem. Per avviare il discorso, nell’introduzione, è citato Nemesi, romanzo di Philip Roth, il cui nucleo narrativo è centrato sulla guerra, poiché di guerra trattasi, che un giovane animatore di un campo giochi deve affrontare contro un’epidemia di polio che colpisce i suoi ragazzi. Certo una vita siffatta, dedita alla ricerca, impedisce il contatto diretto col paziente, è inevitabile. Lo dico tanto per dire, per occupare un istante di stallo della conversazione. Ma il professore risponde con una smorfietta sorridente. Lo conferma, non potrebbe essere altrimenti. Però, racconta, ricorda con molto affetto una figura di medico condotto degli anni giovanili, cerusico d’antan, dal multiforme ingegno, cui, dopo le partite di pesca cui anche lui partecipava, veniva destinato il pesce più grosso o prelibato quale segno non di prono rispetto: conferma piuttosto di un rapporto di sostanziale parità laddove il medico si pone di fronte a un malato che è prima ancora un essere umano. Ed è concetto che Mantovani ama ribadire tanto a se stesso quanto a chi lo intervista. E a tal proposito, pur non essendo questa un’intervista classica, ritengo che ormai sia l’ora di dirigere la chiacchiera verso il territorio sul quale il professore primeggia. Anche perché il suo procedere verso la conoscenza ha le caratteristiche di una storia, né più né meno. Quasi un classico, laddove dall’incredulità iniziale, lo scetticismo algido di casta, si arriva per capitoli successivi alla riabilitazione dell’eroe incompreso. Non è forse così quando
negli anni ’70 il professore intuisce che certe cellule schierate a difendere gli attacchi al nostro organismo in realtà si comportavano in maniera esattamente contraria? È in questa fase della sua carriera che si realizza il connubio tra immunologia e oncologia nella pratica quotidiana, quando cioè si svela un particolare aspetto nello sviluppo della patologia tumorale in cui il sistema immunitario non è esente da colpe. L’immunologia ha un vocabolario di base, conciso, rigoroso. Sono tre le parole che lo definiscono e lo fanno unico, singolare tra i vari apparati del corpo umano. “Riconoscimento”: riconosce tutto ciò che è di sua proprietà da ciò che invece non lo è e quando qualcosa di estraneo bussa alla sua porta non gli dà accesso. L’esempio più eclatante è ciò che accade coi trapianti quando vengono rigettati, ma ciò è solo la punta di un iceberg, clamoroso frutto di una diuturna attività, il più delle volte oscura. “Identità” è l’altra parola: indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a se stesso. Così fa un determinato meccanismo molecolare dando modo al sistema di rispecchiarsi. È un po’, detto in soldoni, come prendere il nostro documento, d’identità, appunto, e mettercelo davanti agli occhi. La terza parola chiave è “memoria”. Non è la memoria comunemente intesa, non ha nulla a che vedere con il vissuto esperienziale del soggetto, la sua coscienza. Non è insomma una memoria dalla quale attingere ricordi, ma che comunque di ricordi è piena. E al bisogno anche questi si risvegliano. È questo il meccanismo su cui si basa l’azione terapeutica dei vaccini che simulano in un certo senso un’aggressione estranea, e favoriscono la reazione a suon di anticorpi quando il pericolo si fa reale e può provocare malattia.
Il momento in cui immunologia e oncologia vengono a stretto contatto avviene qui. Il cancro, afferma Mantovani, altro non è che un nemico, un indesiderato per il nostro sistema immunitario, che invece tenta di forzare l’ingresso per entrare e distruggerlo. Sofisticato nemico, dotato di armi subdole in grado di agire indisturbato all’inizio, sfuggendo alla coscienza dell’individuo. Non certo però a quella del sistema immunitario. La capacità di riconoscere il self da altro entra in azione. È un confronto silente quello che caratterizza le fasi iniziali della malattia, durante il quale si possono avere anche lunghe fasi di equilibrio. Instabile però, e il tempo gioca a favore di una rottura che spesso permette al tumore di guadagnare terreno. Perché? Forse è nel destino del sistema immunitario di dover soccombere davanti a un nemico che sembra più forte? O forse? O forse. È a questo punto che il professor Mantovani ha un’intuizione, spostare l’attenzione dello scienziato dalla cellula tumorale e guardarsi intorno. Sino ad allora, spiega, il mirino era perennemente puntato sulla cellula tumorale, lei il bersaglio da colpire e possibilmente abbattere. Nessuno invece s’era preoccupato di scandagliare ciò che le stava intorno, sorta di terreno di coltura in cui aveva possibilità di proliferare. Lo studio di tale ambiente, la “nicchia ecologica” in cui vive, lo ha portato a scoprire che l’ambiente infiammatorio che circonda le cellule cancerose poteva aiutare a comprendere l’insorgere e il diffondersi della malattia, ampliando le possibilità di combatterla. Alcune cellule, che in tale nicchia sono presenti e che dovrebbero combattere l’avanzata del cancro ne sono invece alleate, vengono meno ai loro compiti, lo guardano senza far nulla. Una scoperta che viene accolta con scetticismo perché fa tremare protocolli ben strutturati e che come spesso accade impiega del tempo prima di essere acquisita come il colpo di genio che è. Queste cellule hanno un nome. Sono i macrofagi, corpo cellulare specializzato nel mangiare qualunque schifezza estranea si permetta di varcare i confini del nostro organismo, inglobandola e digerendola così da renderla inoffensiva. Ma, se la carne è debole, lo sono probabilmente anche alcune delle cellule che, di quella carne, sono gli elementi costituenti. Lusingate da chissà quali promesse, forse la prospettiva di essere promosse ad altre linee cellulari più nobili o meno esposte ai rischi o forse da quella di potersi scegliere il menù anziché dover mangiare quello che passa il convento, alcune di queste cellule
si lasciano corrompere, stanno a guardare ciò che succede: e quando ciò che succede si chiama cancro il gioco, facile comprenderlo, si fa duro. Le cellule tumorali strizzano l’occhio a questi loro alleati che Mantovani, con metafora giallista, definisce «poliziotti corrotti», oltre al resto in grado di addormentare colleghi che potrebbero intervenire ma la cui auto di servizio «ha il freno a mano tirato».
Il risultato è che le linee nemiche della malattia, il cancro nella fattispecie, proliferano con tranquillità dentro il loro malvagio terreno di coltura mentre certi macrofagi stanno a guardare. La loro inazione è ciò che il nemico chiede: state buoni, fermi, non fate niente, per noi è sufficiente. Ecco che la lotta al cancro, dopo questa intuizione ormai largamente confermata, si è aperta a nuove prospettive. Alle tradizionali armi se n’è aggiunta un’altra che definisce il futuro della ricerca. Bisogna giungere a sbloccare tutti i freni a mano di quelle auto destinate all’intervento, risvegliare dall’accidia quelle linee cellulari che guardano senza intervenire. Così facendo, la nicchia ecologica di cui s’è detto tornerà a essere un ambiente veramente ostile per la proliferazione delle cellule tumorali. Due “freni a mano” inopinatamente bloccati sono già stati individuati e sbloccati. Ma ce n’è un’altra trentina che catalizza l’attenzione del professor Mantovani e degli scienziati di tutto il mondo che, al pari di lui, si occupano del problema. E che naturalmente con lui hanno continui scambi di idee e opinioni poiché lo scienziato solitario è solo icona cinematografica ma quello che vive e opera nella quotidianità interagisce, si mette in gioco, lotta, forte delle sue competenze senza dimenticare la virtù dell’umiltà. S’è fatta l’ora ormai. Per il professor Mantovani di raggiungere un’aula, un laboratorio, un giovane ricercatore di quelli che coccola e fa crescere per il futuro di una ricerca che non finisce mai. Per me di uscire dal suo studio e dare ancora un’occhiata al campus, pensare alle eccellenze che vi sono e a quelle che vi stanno crescendo. Mi chiedo se quella che avverto è un po’ di invidia. Sì, benevola però, se si può dire.
Affascinante invidia che mi fa guardare a tutta quella gioventù che incrocia i passi sui sentierini, tra i prati ben rasati, e che contrasta con l’impegno, l’intelligenza e il sacrificio un fronte dove invece si schierano disinteresse, egoismo, cinismo, il fronte dei macrofagi corrotti contro cui Mantovani e i suoi adepti continueranno a combattere. Adesso attendo ai margini della rotonda che dà accesso al campus e… sì, fumo una sigaretta, tenendola però nascosta nel cavo della mano. Avverto che ho ancora qualcosa da ricordare per poi riportarlo sulla carta, qualcosa che il professore ha detto durante il nostro colloquio. Non è il rifiuto della definizione «male incurabile» riferita al cancro, rielaborata piuttosto in quella di malattia cronica e non per comodità o per ridurne l’impatto emotivo sull’immaginario. È un’altra cosa, qualcosa di importante che mi ero impegnato a ricordare proprio per concludere queste righe. Finalmente il ricordo riemerge grazie all’incrocio di voci lontane che mi fanno immaginare bambini che approfittano dell’ultimo sole per tirare quattro calci al pallone. Il calcio, appunto, metafora di tante cose. Come la lotta del sistema immunitario contro il cancro. L’immunità non scende a patti con la malattia. Ma scende in campo, gioca la sua partita, secca, o dentro o fuori, quella che vale la vittoria in una finale. Non c’è pareggio. Allora, professore lo prenda come un augurio, mi vien fatto di mormorare uno dei cori più frequenti che si sentono salire dalle curve. « Noi vogliamo questa vittoria ».