beatrice venezi
MICHELA MURGIA
LA SINFONIA DELLA FARFALLA
Raccontata da Torinese, in arte Picci, è uno dei talenti emergenti della Motion Graphic italiana. Con il progetto Filling Spaces ha voluto esprimere il colore della musica.
CÕè buio tutt’intorno, ma io guardo davanti. Alle spalle ho duemila e trenta persone sedute e sento il fiato trattenuto di ciascuna, dal piano della platea all’ultimo dei loggioni da dove mi vedono minuscola. Ora che l’ultima eco dell’applauso di ingresso si è posata sento venire da ognuno dei presenti un silenzio rigido d’attesa, una richiesta plurale di perfezione così solida che se fossi più ingenua potrei credere di appoggiarmici di schiena senza cadere. Invece si cade eccome da questo podio, e il peso di quell’aspettativa senza indulgenza ha spezzato l’animo di direttori assai migliori di me. Non accadrà con il mio. I sopravvissuti non sono così facili da spezzare, difendersi lo sanno fare già e la sfida che mi attende io la conosco bene.
Quando ho rotto le pieghe del velluto di quinta per andare verso il centro del palcoscenico, l’ho sentita proprio lì dove mi aspettavo che fosse: a ogni passo di tacco sul legno della passerella ho percepito la curiosità per la bestia rara, lo scandalo bonario per la donna che dirige al posto degli uomini, l’indulgenza paternalista per la più giovane d’Italia a tenere la bacchetta in mano. Il podio rosa. Il maestro è una signora. Armonia femminile. Il peso di ogni titolo di giornale cade da anni su chi sono e mai su quello che so fare. L’esito è esiziale e nessun uomo ne ha conosciuto mai il prezzo,
che pure è evidente: io sono qui, non ho imperato ancora una nota, ma tutti in questo teatro hanno già misurato la lunghezza e il colore del mio vestito, l’acconciatura che porto, i gioielli che ho scelto, il portamento, la forma del mio corpo e la rotazione irrequieta del polso nel passo.
La pretesa d’armonia su di me comincia prima di ogni nota e so che in fondo fare quei pochi metri fino al podio è già metà del concerto. Se arrivi ancora forte all’ultimo di quei passi resta solo l’altra sfida ed è l’unica vera, la sola di cui mi importi sul serio: l’orchestra. Dimentico le attese nel buio e guardo solo loro.
Li ho innanzi, centoventi maestri di strumento, e conto le membra tese e gli occhi fissi a me come spilli ordinati. Non è scaltro davanti agli spilli aprire le braccia come ali di farfalla, ma è quello che faccio e che voglio fare. La linea della bacchetta nella mano destra s egnerà il tempo uguale per tutti. La mano sinistra marcherà invece lo spazio di ciascuno e che altro è il potere, alla fine, se non la facoltà di condurre qualcun altro nel tempo e nello spazio? Sono potente e non c’è un altro motivo perché io sia qui. Se mi chiamano farfalla è solo perché l’unica potenza che sanno riconoscere è quella dei predatori. Ce n’è un’altra, però, e da questo teatro stasera non uscirà nessuno senza averla vista.
La partitura in concerto è di quelle da far impallidire chiunque faccia il mio mestiere: è la Sesta sinfonia di Tchaikovsky, il testamento spirituale di un uomo geniale che ha musicato la propria morte prima di viverla davvero nove giorni dopo. Lo amo come pochi altri, Tchaikovsky, e credo sia anche per la sua strana parabola di vita, tragica e scintillante insieme come a volte lo sono le catastrofi. Meritava di morire nel suo letto anziano e amato, invece se lo è portato via il colera appena cinquantenne, dopo una vita così difficile che tra gli esperti c’è ancora dibattito sul fatto che abbia bevuto l’acqua contaminata dal virus per incidente casuale e non invece per volontà di suicidio. Ma ha davvero importanza scoprirlo? Quando un compositore come quello scrive il proprio requiem, il resto della sua vita sembrerebbe una simulazione anche se durasse in eterno. Da sempre trovo in lui ispirazione, ma non solo per la genialità della musica. Misantropo, depresso e omosessuale in un paese e in un tempo in cui queste cose non rientravano nemmeno nella categoria delle simpatiche eccentricità, Tchaikovsky è uno di quei “geni nonostante tutto” che tolgono ogni tentazione di dare la colpa alle circostanze per non essere riusciti a mostrare per intero il proprio talento. Il suo lavoro è una lezione di buon senso e disciplina e insegna che non ci sono limiti a quello che puoi fare, se non sei tu a volerli. Io di limiti rispetto solo quelli scritti sulla partitura e il resto è spazio aperto che occupo come ritengo. Anche per questo non mi metto i pantaloni sul podio, ma vesto come piace a me e poco importa che i puristi storcano il naso. C’è una legge non scritta che vige ovunque nei mondi in cui il potere e il prestigio agiscono insieme: se una donna commette la malacreanza di occupare un posto di comando che storicamente è stato degli uomini, deve almeno avere la delicatezza di ingegnarsi per somigliare a un uomo il più possibile. È così dagli anni ’80 e anche se io non ero ancora nata negli anni ’80, la moda di allora mi è sempre sembrata raccontare più di sociologia che di tessuti e tagli. Nei film del periodo le donne che uscivano di casa per andare a fare lavori finalmente di prestigio indossavano tailleur con brutte giacche da uomo arrangiate al femminile che le dichiaravano in carriera, competitive e “con le palle”, clavicole allargate dalle spalline di gomma piuma e forme nascoste nelle pieghe dei revers. A tutt’oggi non mi viene in mente una sola donna che abbia ricoperto una leadership politica nel mondo occidentale senza accettare di travestirsi da maschio. Angela Merkel, Margaret Thatcher e Hillary Clinton non sono mai state viste in circostanze ufficiali con un vestito, come se ci fosse nell’eleganza delle donne potenti qualcosa che mina la loro autorevolezza. Ma gli anni ’80 non sono i miei e io oggi non negherò la mia forma per il timore che qualcuno neghi la mia sostanza. Di non essere maschio non intendo scusarmi, meno che mai sul podio, dove la debolezza è disarmonia e la disarmonia non conosce sesso.
La bacchetta è sollevata in aria e non ha ancora dato il via all’esecuzione del primo movimento, ma so che se volessi potrei anche non usarla. La direzione dell’orchestra non si fa con le mani, ma col carattere. Il mio maestro me lo ha ripetuto fino allo sfinimento mentre studiavo i gesti cercandone di miei. Per migliaia di ore negli anni del conservatorio ho guardato le registrazioni dei grandi direttori, ma erano tutti così distinti nella loro gestualità da farmi pensare che davvero avesse ragione il maestro: per farsi seguire dall’orchestra le qualità erano altre. La prima volta che vidi un direttore d’orchestra ero bambina e replicavano alla tv un vecchio Requiem di Mozart del 1962. Su podio c’era un Von Karajan già vecchio che dirigeva i Wiener a occhi chiusi, senza bacchetta, con gesti minimi al limite della non interpretabilità e le labbra che seguivano le parole, praticamente tutto quello che quando studi direzione ti dicono che sarebbe meglio non fare. Col collo proteso e la testa candida che svettava dal colletto alla coreana, Von Karajan sembrava invece un rabdomante che avesse fiutato la linea carsica dell’acqua, una creatura dotata di potere magico che avver-
tiva l’armonia per istinto, fidandosene come degli occhi che non usava. C’era in lui qualcosa di magnificente e affidabile allo stesso tempo e non facevo nessuna fatica a comprendere perché i coristi e i musicisti lo guardassero senza sosta. Non sapevo ancora dare un nome a quel carisma, ma da quel momento lo avrei sempre riconosciuto, fuori e dentro al podio. La lezione più intensa però me la diede Riccardo Chailly senza neppure saperlo, in un video che circola ancora in rete, sbalorditivo per la natura del suo contenuto, giacché non avrebbe nemmeno dovuto registrare quello che conteneva. Era una ripresa della prova generale di un concerto di Mozart per pianoforte realizzata nel 2009, il numero 20, e la solista che lo eseguiva con l’orchestra era Maria João Pires. Per un equivoco di comunicazioni tra l’agenzia dell’artista e il teatro, João Pires era venuta preparata su un concerto diverso da quello che si stava per eseguire e l’attacco della prima nota l’aveva colpita come un fulmine insieme alla consapevolezza dell’incubo in cui si stava trovando: essere sul palcoscenico con il pubblico in sala, l’orchestra in buca e in testa tutt’altra esecuzione. È stato guardando le immagini del suo viso scioccato che ho compreso che “esecuzione” può voler dire tante cose su un palcoscenico e una contempla non un concerto, ma una condanna a morte. Un direttore d’orchestra con meno carattere, una volta capita la delicatezza della situazione, avrebbe interrotto la prova, ma Chailly, che con João Pires aveva fatto lo stesso concerto appena un anno prima, non ci pensò nemmeno a fermare il movimento delle mani. Sorridendo, senza smettere di dirigere e con una placida sicurezza di sé che non ho mai più dimenticato, incoraggiò la pianista a ricordare il concerto esatto e a sentirsi sicura nel farlo. You can do it! You can do it! Maria João Pires, che era quasi catatonica dallo spavento, lo guardò, si fidò e gli obbedì. Chiudendo gli occhi pose le mani sul pianoforte e a memoria suonò come se avesse lo spartito davanti, eseguendo alla perfezione il concerto in corso. Straordinaria professionista lei, commentavano i miei compagni al conservatorio guardando il video nei corridoi. Quale incredibile direttore lui, pensavo invece io diciottenne, incantata da quell’infusione di sicurezza.
Con un golfino e una salvietta intorno al collo come uno che passeggi in un parco, Chailly dominava con gesti regolari i cento maestri dell’orchestra, ma con gli occhi e la voce aveva contemporaneamente ammansito il terrore della solista e le aveva trasmesso la calma necessaria a fare quello che credeva di non poter fare. È lì che ho capito che i direttori d’orchestra non dirigono strumenti, ma persone. Per questo i tempi e i modi della partitura spesso corrispondono ad atteggiamenti umanissimi, rivelatori di un umore che appartiene tanto alla musica quanto a chi l’ha scritta e a chi la suona. Adagio, piano, pianissimo, forte, fortissimo, allegro, andante, moderato sono caratteri dei viventi; se però dovessi sceglierne uno per me, sarebbe “ostinato”. Ostinato è una bella parola che non compare spesso in una partitura e anche le persone, se possono decidere, preferiscono definirsi determinate, costanti o progettuali, perché ostinato è un termine che ha qualcosa di percussivo e insistente a cui nessuno vorrebbe essere associato. Tchaikovsky non ha avuto questa paura quando ha composto la sinfonia per il suo funerale e meno male, perché la morte che presentisce è ostinata e la vita che le resiste non lo è meno. Nel primo movimento della sinfonia questa lotta intestina tra forze monumentali e opposte è resa da un intreccio di legni, archi e ottoni che è stato a lungo la mia ossessione, perché in qualche modo misterioso ho sentito sempre che mi somigliasse. Ogni musicista ha passione e costanza, ma quel che faccio io richiede di sentire proprie quelle di ciascuno e comporle in una figura melodica interiore moltiplicata per tutti gli strumenti insieme, incessante quanto serve che lo sia, quindi ostinata. Sei ostinata, mi ripeteva la mia professoressa alle medie quando mi incaponivo in matematica su qualcosa che non veniva come io la volevo, e sapevo che non era un complimento. Ci sono voluti ventotto anni perché
quello che era un difetto personale diventasse un potere collettivo, orchestrabile fino alla massima perfezione possibile, in un equilibrio di percezione e controllo. Se fossero le parole chiave della sola direzione d’orchestra, sarebbe poco male. Ma la percezione e il controllo sono chiavi della stessa vita che la musica imita e temo sia a causa di queste due parole che ci sono pregiudizi sulle donne nel mio lavoro, perché pensate insieme ne significano una sola e quella parola è potere. Non sei potente se comandi, ma comandi in modo potente se capisci e controlli. Nessuna orchestra ti rispetta solo perché hai la bacchetta in mano e questo l’ho capito dalla prima direzione, quando il mio maestro mi mise d’improvviso davanti al golfo mistico e mi disse: oggi dirigi tu. Nuotare o bere, guidare o seguire, governare o perdere il controllo. Non ci sono vie di mezzo quando sali sul podio.
Però forse non è vero che questo l’ho capito alla prima direzione. Forse l’ho capito molto prima. Quando avevo otto anni c’era un vicino di casa che aveva un cane, un grosso mastino nero che stava libero nel suo giardino. Si sentiva forte oltre lo steccato e abbaiava con furia a chiunque passasse lungo il marciapiede, seguendo i passanti per tutta la linea del confine mentre ansava fino a non aver più fiato per latrare. Molti cercavano di farlo tacere minacciandolo, ma dentro il suo spazio il cane non obbediva a nessuno e moltiplicava l’aggressività. Altri più saggiamente cambiavano lato della strada per non dover subire lo stress di quell’assalto, davanti al quale lo steccato sembrava una protezione debole, una formalità più per il padrone che per il cane. Quando andavo a scuola mi terrorizzava. Abbaiava esattamente all’altezza della mia testa e lo vedevo a spicchi tra un’asse e l’altra, mezzo cane e mezzo incubo, fissarmi con gli occhi marroni spiritati. Premevo le mani sulle orecchie, camminavo più veloce che potevo e solo quando avevo superato il giardino tiravo il fiato e riprendevo lentamente a respirare. A volte lo sognavo di notte. Un giorno, però, mentre uscivo di casa, ho visto fare una cosa a una donna, una signora con una borsa della spesa, che mi precedeva sul marciapiede: quando il cane sentì il passo invadere quello che riteneva il suo territorio cominciò ad abbaiare con violenza come al solito, ma lei in risposta non accelerò e non distolse gli occhi. Con un sospiro si fermò invece esattamente in corrispondenza del punto dove l’animale le latrava addosso e senza una sola parola lo fissò. Non aveva una postura minacciosa, non alzò le mani e non fece nemmeno il cenno di avvicinarsi di più allo steccato per imporre la sua altezza alla bestia che, per quanto mastino fosse, cane era davanti a un essere umano e cane restava. Si limitò a guardarlo placida e lui lentamente smise di abbaiare. Non si accucciò spaventato e non rinculò, ma rimase zitto davanti a quella tranquillità silenziosa, come se avesse capito che non c’era ragione alcuna di minacciare chi in quella situazione aveva sia la percezione sia il controllo. Mi sembrò un miracolo. Non provai mai a fare lo stesso, ero solo una bambina e la sola idea di fissare negli occhi quella fiera tra le linee dello steccato mi sembrava folle, ma averlo visto fare a un’altra persona, una donna serena e determinata, mi lasciò la certezza che si potesse fare, bastava solo crederlo possibile. Anni dopo, davanti a certe platee scettiche o a un’orchestra con pregiudizi (più di una ne ho incontrata), riprovai lo stesso terrore della bambina che ero stata e a darmi la forza di alzare la bacchetta fu l’immagine ferma di quella donna.
Ora la mia più grande paura, il cane che ringhia dietro le sbarre orizzontali della partitura, è la tragicità del primo movimento della sesta, con la sua bellezza lugubre e cupa, annuncio di una fine che non ammette fretta né approssimazione. Se si può morire eleganti è perché Tchaikovsky ci ha spiegato come fare, impartendo una lezione indimenticabile a tutti quelli venuti dopo, da Stravinsky a Debussy, da Prokofiev a Ravel, e a noi con loro. Non esistono altre sinfonie come questa nella storia della musica classica e questo è vero per vari motivi. Il prin-
La bacchetta è sollevata in aria e non ha ancora dato il via all’esecuzione del primo movimento, ma so che se volessi potrei anche non usarla. La direzione dell’orchestra non si fa con le mani, ma col carattere
cipale è che è la prima che termina con un tempo lento che non strappa l’applauso, ma lascia interdetti e muti, privati del crescendo che renderebbe gloriosa e memorabile anche la peggior fine. Quando ero bambina mia nonna mi faceva pregare la Madonna perché venissimo protette dalla morte improvvisa. Non capivo il perché avremmo dovuto pregare per scongiurare qualcosa che invece mi sembrava così desiderabile: morire sul colpo senza soffrire, senza nemmeno accorgersi, come in un sonno o in un lampo, perdere la coscienza tutta intera.
C’è voluta la musica, questa musica, per capire che la fine improvvisa è una dissonanza senza compimento che in chi rimane determina un trauma insanabile e priva chi scompare del tempo necessario per mettere a punto il più prezioso degli alfabeti: quello dell’addio. La morte giusta non dovrebbe durare meno di una sinfonia di Tchaikovsky. Ho sempre uno strano disagio quando il pubblico applaude al termine del lungo silenzio che questa composizione richiede. Siamo esecutori virtuosi, è giusto e bello essere apprezzati, ma al termine della sesta esprimere il plauso con l’applauso rivela una povertà di codici espressivi, uno stato senza luogo opportuno, come ridere a crepapelle a un funerale, piangere dolorosamente a un matrimonio, maledire a un battesimo o dormire a una festa. La cosa sensata sarebbe portarsi tutti via insieme quel silenzio così faticosamente costruito, conservarlo perché non sia turbato e rispettare il suo peso sul cuore, come se la sua esecuzione fosse compiuta davvero solo quando anche l’ultimo dei presenti abbia scelto di non metterci sopra troppo in fretta qualcosa d’altro. Invece in quell’applauso che non vede mai l’ora di esplodere avverto ogni volta il sollievo di una civiltà impaurita che combatte la morte a scongiuri, il demonio con le acque sante e la propria scomparsa a colpi di selfie. Qualche volta è un peccato che il direttore comandi solo i movimenti dell’orchestra.
Non dura mai abbastanza questo attimo di pensieri, non più del respiro che incamera il fiato prima del battere, eppure ci scorrono dentro molte cose. L’istante che precede il primo gesto è una sintesi di intenzione. Una parte di me, nella ricerca della lentezza d’inizio, è già proiettata al secondo movimento della sinfonia, ai suoi illogici toni lieti e aperti segnati da quell’allegro con grazia che tanto somiglia al lampo di bellezza sublime a cui certe donne sui cinquant’anni accedono misteriosamente dopo essersi lasciate alle spalle le incongruenze della gioventù. È una morte che ha ancora il tempo di sognare la vita, quella di Tchaikovsky, impastandosi della sua dolcezza ma sentendoci già dentro i suoni minacciosi di un dolore vicinissimo. Ho diretto tante volte l’opera, per una toscana cominciare con Puccini è persino banale, ma la sinfonica è qualcosa di davvero ulteriore, un atto di immaginazione pura dove non esiste libretto a condurre la logica, né costumi e scene a distrarre chi ascolta dai funambolismi dell’orchestra. Il tempo rarissimo dei 5/4 di quel movimento (anche questo mai usato prima in una sinfonia) fuoriesce come un valzer dagli strumenti, costringendo tutto il teatro a ballare mentalmente una danza macabra con scheletri annunciati. I conservatori ti preparano alla tecnica della musica, ma nessuno ti prepara all’emozione che ne deriva e alla quantità enorme di disciplina che richiede. La prima volta che ho diretto ero troppo preoccupata di non sbagliare un movimento e non deviare nemmeno un istante dalla strada sicura della partitura. Avevo assistito a così tanti concerti in cui i direttori si prendevano libertà inspiegabili rispetto alle intenzioni dei compositori che mi ero ripromessa che quando sarebbe toccato a me avrei saputo tenere sotto controllo la libidine dell’anarchia, la voglia delirante di far
suonare Verdi come me, Puccini come me, Mozart come me. Ero convinta che fosse lì, dentro allo spartito assegnato a ciascuno, che la disciplina andasse maggiormente esercitata. Mi sbagliavo, ma per capirlo ci sarebbero volute molte altre direzioni, una più difficile dell’altra, fino a quella in cui sali sul podio e per la prima volta non senti più la paura di sbagliare la tecnica e puoi lasciarti andare all’emozione. È lì che si nasconde la vera trappola: in te. Quando arriva quel momento la musica che credevi di conoscere benissimo ti si rivela magmatica e insidiosa e il cuore che fino a un istante prima era solo una pompa idraulica comincia d’improvviso a comportarsi come un criminale sconosciuto che era rimasto nascosto in un anfratto in attesa dell’agguato al passante distratto. Dicono le statistiche che sia sulla strada di casa che succedono gli incidenti più gravi, perché chi guida crede di essere al sicuro su un tracciato che conosce perfettamente. La prima volta che l’emozione mi ha assalita è andata proprio così: mentre le note che sapevo alla perfezione e i tempi che avevo studiato fino a farli totalmente miei mi facevano sentire al riparo, dai precordi e dal silenzio apparente degli organi interni ha cominciato a spandersi un’energia inattesa, sfrangiata e frizzante. Il movimento, forte degli automatismi acquisiti, non ha cambiato mai la sua armonia cinetica, ma il mio stato d’animo era in completo subbuglio. C’erano passaggi in cui volevo piangere e altri in cui il sorriso voleva salire ebete al viso rompendo la tensione della concentrazione. Per non fare l’una né l’altra cosa dovetti appellarmi a tutto il mio autocontrollo e quando l’ultima nota sospesa si spense nel teatro io avevo in cuore un tamburo frenetico e il fiato corto di una corsa segreta.
Credo capiti qualcosa di simile quando il destino ti fa lo scherzo di farti innamorare di un amico, smontando in poche mosse tutta la retorica hollywoodiana del colpo di fulmine. Chi lo ha provato conosce bene lo straniamento generato dal guardare la persona che conosci da anni come se la vedessi per la prima volta. Ci hai mangiato e bevuto, magari eravate compagni di liceo o vicini di casa, complici di mille segreti irrivelabili. Può essere qualcuno di cui hai visto scorrere gli amori e ne hai accolto gli alti e bassi in confidenza. Qualcuno a cui hai prestato la spalla per piangere e qualche volta hai pianto tu sulla sua. Quando credi di sapere tutto di lui e di non dover più temere guizzi, accade l’imponderabile: un gesto minimo compiuto distrattamente squarcia il velo della quotidianità e ti mostra qualcuno che, credendo di conoscere, avevi in realtà solo supposto. Di solito non sono eventi eclatanti a generare questa epifania, al contrario. È il modo in cui una palpebra si chiude per un riverbero, una vena mai vista prima pulsa silenziosa su una tempia, o magari il gesto di una mano che a tavola spezza un grissino e frantuma insieme la sua crosta croccante e tutte le tue sicurezze acquisite. Tanto si è armati davanti all’attrazione per un estraneo, tanto si è nudi davanti all’emozione che sorge inattesa per una persona creduta familiare, quando le armi sono state deposte e la sorpresa ha lasciato da tempo il posto alla fiducia. Così accade con le partiture note, amiche intime di tecnica, ma inattesi colpi di fulmine di emozione che possono rivelarsi detonanti quando meno te lo aspetti. Quando è successo ho avuto paura, non mi vergogno a dirlo, perché il mio lavoro è fatto soprattutto di controllo e lasciarsi sovrastare dall’emozione improvvisa può fare brutti scherzi. Ma alla fine di tutto, una volta sola nel camerino, mi sono guardata allo specchio e ho capito che il turbinio segreto che mi era capitato era un privilegio. Ho compreso in un attimo perché certe direzioni d’orchestra non mi erano piaciute anche se non gli si poteva fare un solo appunto tecnico. Avevo assistito a esecuzioni immacolate senza sentire alcun bisogno di lodarle e credevo dipendesse da una mia deformazione professionale, dalla perdita della verginità dell’ascolto che rende cinico davanti alla musica chiunque la faccia per mestiere. Non era così, evidentemente. Solo lì realizzavo che esistevano due tipi di direttori d’orchestra: quelli per cui la disciplina e il controllo erano la stessa cosa e gli altri,
gli uomini e le donne per cui la disciplina valeva ancora nel suo senso etimologico: riportarti alla condizione del discepolato, quella in cui continui a imparare anche se tutti ti chiamano già “maestro”. Non c’era immaturità o caos nelle emozioni che mi si erano scatenate dentro proprio nel momento in cui credevo di avere raggiunto il massimo dell’autocontrollo tecnico possibile. C’era invece qualcosa da imparare e anche se non saprei dare il nome a quel qualcosa, so che senza averlo imparato la Sesta di Tchaikovsky non la si esegue, al massimo la si riproduce. Così so già che il terzo e quarto movimento mi arriveranno come onde d’impeto, uno con la nevrosi del suo allegro molto vivace, senza più la grazia che lo arginava nel secondo, e l’altro con la sua tristezza lugubre di fagotti e flauti congiunti, finalmente espressa senza più filtri. Nessuno strumento ha emesso già suono e la mia bacchetta è ancora una molla tesa che aspetta il rilascio, ma tutto quel potenziale è già lì, la regola e l’emozione, la matematica e la poesia, quel che conosco e quello che è ancora misterioso.
Per onorare l’intenzione di requiem che Tchaikovsky ha messo in questa partitura ho indossato un vestito rosso, il più antico tra i colori del lutto, quello con cui ancora si celebrano i funerali di un papa. Glamour, diranno gli ammiratori. Esibizionista, diranno i detrattori. Fuori luogo sul podio in ogni caso lo penseranno forse tutti, perché se quello che indossi si nota più di quel che fai vuol dire che hai sbagliato a indossarlo. Invece nulla è fuori luogo di questa prima volta. Io qui sono al posto giusto tanto quanto lo è il rosso su di me e la bacchetta nella mia destra, perché c’è una prima volta per un silenzio in un finale, per un 5/4 in una sinfonia e anche per una donna giovane in rosso che sa governare musica. Non tutti capiranno, ma non importa. Non è pensata per tutti l’armonia complessa creata da un infrattore di regole, uno che sa comporre gli accordi melodiosi che può amare chiunque e conserva le dissonanze per i pochi che sanno farsi scompigliare le aspettative. Dietro di me in questo teatro ci sono gli uni e gli altri e a ciascuno di loro io devo il meglio che posso.
Ora tacciono. Ora è il momento di iniziare.