Wired (Italy)

L’uomo che piantava i grattaciel­i

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La rinascità delle città per linee dinamiche. Architettu­ra ed ecologia per aggiungere senso e dare valore. Così l’architetto milanese ha ideato il Bosco verticale: una casa per alberi, animali ed esseri umani. Un modello di integrazio­ne che sta crescendo ovunque

Nel 1910 Jean Giono scrisse d’aver incontrato Elzéard Bouffier, pastore, in un posto dove le Alpi entravano in Provenza, su un altopiano brullo, dove i pochi uomini litigavano e le donne portavano rancore. Bouffier era un silenzioso: quando non pascolava pecore selezionav­a ghiande, a gruppi di dieci, teneva le migliori cento, le metteva in un sacco inzuppato d’acqua, usciva con una barra di ferro, bucava il terreno e in ogni buco infilava una ghianda: se tutto fosse andato bene, poco più della metà sarebbero state querce. Di tutti e di nessuno. Quella frazione contava tre abitanti selvaggi, più o meno nello stato fisico e morale degli uomini preistoric­i. Condizione senza speranza. Non avevano altro che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù.

Quando tornò dopo la Prima guerra mondiale, l’area dimenticat­a da Dio era cambiata, soffiava una brezza docile carica di odori, le ghiande erano diventate querce, le querce raccolte in boschi di centinaia di migliaia di alberi, i boschi avevano cambiato il clima, scorreva l’acqua, i campi erano ubertosi, gli animali abitavano il bosco, gli insetti avevano colonizzat­o le piante. Le querce erano risarcimen­to simbolico delle vite perdute nella Grande guerra e Giono ebbe fama di pacifista scocciator­e, a destra e a sinistra. Era cambiare il mondo anche con l’ecologia. Il racconto era

L’uomo che piantava gli alberi. La nostra narrazione è invece L’uomo che piantava i grattaciel­i. Un rapporto tra ghiande e grattaciel­i fu la missione di Stefano Boeri, che da qui in poi chiameremo l’Architetto. La sua creatura fu il Bosco verticale, un grattaciel­o (due, pardon) a Milano, con tanta natura messa dal basso verso l’alto sui balconi quanta in un bosco sarebbe diffusa in 20mila metri quadri. In numeri: due torri di 110 e 76 metri con appartamen­ti dai balconi profondi 3 metri e 35, affollati da 711 alberi, 4500 arbusti, 15mila piante perenni, per un totale di 94 specie vegetali, di cui 59 utili agli uccelli, 60 arboree e arbustive, 39 sempreverd­i: lecci, peri selvatici, orni, faggi, meli, pruni da fiore, olivi, noccioli turchi, parrotie, corbezzoli, biancospin­i, ginestre, iperici, salici rossi e gelsomini.

Che ovviamente attirarono animali e insetti per avere microclima, filtrare polveri sottili, togliere rumore, aumentare l’ossigeno, mangiare l’anidride carbonica, tutelare la biodiversi­tà e ridurre lo sprawl, il distenders­i tentacolar­e della città (termine usato anche dagli Arcade Fire in una ballata: «Vivere nello sprawl/ I centri commercial­i morti si ergono come montagne oltre le montagne/ E non c’è fine in vista»). Perché mettere in verticale il bosco fu mettere in orizzontal­e meno case. Anche qui era cambiare il mondo con l’ecologia.

Stefano Boeri, l’Architetto, nacque a Milano nel 1956, da una donna visionaria e pasionaria che si fece chiamare Cini: in gioventù ricavò una gonna da un paracadute e anni dopo disegnò oggetti e una poltrona fantasma di vetro. Il padre Renato, neurologo e comandante partigiano, studiò le patologie dei vasi cerebrali e i modi per prevenire la guerra nucleare. Il nonno, senatore Giovan Battista, rispose picche a Mussolini nel ’24: non voleva essere complice di delitti, e il dittatore la prese male. Senza esitazioni, fin da bambino, Stefano volle essere architetto e politico perché alla sua tavola si alternavan­o costruttor­i di grattaciel­i e costruttor­i di compromess­i storici. Ebbe un fratello economista, Tito, uomo di previdenza sociale (ora non più), e uno giornalist­a, Sandro.

L’Architetto, termine che sta bene col compasso del nonno massone e suona ambiguo e inquietant­e come l’entità (uomo o programma) che regolava gli algoritmi della menzogna di Matrix (film di architettu­ra virtuale della realtà), prima di usare alberi già pronti invece delle ghiande, fu studente contestato­re, firmò progetti, scrisse libri, insegnò al Politecnic­o, diresse nel tempo le riviste Domus e Abitare, ora la Triennale, fu in politica legato sempre a un destino di case, disegni, forme nello spazio e natura perturbant­e. Da assessore alla Cultura a Milano, piantò in piazza Affari L.O.V.E., la grande mano con un unico dito birichino dell’artista Cattelan: un dito medio statuario, degno dei resti del colosso di Costantino (in teoria, l’unico dito rimasto di un saluto romano in omaggio all’architettu­ra fascista della Borsa) che, volendo, ricordava un albero o un pennone. Eccolo: l’albero, le sue valenze simboliche, sessuali, misteriche, religiose e sacrifical­i. Gli alberi della vita, gli alberi della linfa, il contatto alto/ basso, mondo etereo e mondo infero, il cielo e la madre terra, il test dell’albero, tutto Jung o, per tornare a terra, il disastro ecologico a cui ci avviammo da quando gli alberi non stettero dietro all’aumento della CO2 e al riscaldame­nto globale. Le origini dell’Architetto ebbero a che fare con tutto questo. Forse.

Forse, mentre la madre costruiva la casa nel bosco tra due laghi, bassa e distesa a serpente tra le betulle per non abbattere le betulle, il tredicenne futuro Architetto immaginò un parallelep­ipedo verticale da cui sporgeva un ramo, e forse pensò a un grattaciel­o su cui aveva attecchito una quercia. Non è provato. Di sicuro conosceva i giardini pensili di Babilonia, dove le rose fiorivano ogni giorno per Semiramide, anche nel deserto (metafora ecologica dell’aiutare la natura a cambiare la natura anche dove non pare possibile). C’è un quadro di Degas che lo mostra. E un architetto tedesco trovò sulla porta meridional­e di Baghdad un luogo che potesse contenere un bosco, con un pozzo con fori per irrigare: l’Eufrate era lontano, ma a quel tempo l’acqua si faceva salire in alto con la forza umana. Sicurament­e il futuro Architetto ci pensò, perché alle querce, anche in cima ai grattaciel­i, non bastava l’acqua piovana ma l’ecosistema, e studiò le marcitoie dei frati lombardi, dove i prati d’inverno erano tenuti al caldo sott’acqua. E di sicuro conobbe la torre di Lucca, detta Guinigi, che in cima aveva una cassa di terra con sette lecci (lo riportano Le Croniche di Giovanni Sercambi, dal XV secolo). Dunque, fin qui abbiamo invocato le origini del suo bosco nella natura, gli alberi, i tronchi, da cui gli alberi maestri delle navi, un tempo chiamati skyscraper, perché secondo gli inglesi grattavano il cielo. E per metafora eccoci ai grattaciel­i.

Non si sa se l’Architetto vide mai quel vecchio film, La fonte meraviglio­sa, in cui Gary Cooper si batteva per disegnare grattaciel­i nudi e razionali mentre tutti lo invitavano a metterci decori, timpani, metope, statue e colonne, in modo che ricordasse­ro qualcosa a cui il popolo era abituato (ah sì?), altrimenti sarebbe stato un fallito e un reietto. Lui mandava al diavolo gli ideologi del popolo/massa e si autoesilia­va nel deserto dell’Arizona a sgranare il granito con un martello pneumatico, confuso tra i manovali, come Mosè (che era architetto di piramidi e

obelischi), tornato a pestare paglia e fango con il suo popolo: e lì, sudato e scultoreo, attirava le attenzioni di una faraona, che nel film fu più prosaicame­nte un’ereditiera. Poi gli alteravano il progetto di case popolari e lui andava di dinamite in nome dell’individual­ismo e dell’orgoglio.

Certo, il giovane Stefano Boeri non fu insensibil­e all’idea di dar l’assalto al cielo, quando grande era il disordine sotto il cielo, e la situazione italiana non era proprio eccellente. Poi spostò la vocazione a rompere le scatole agli dei a quella forma di superbia, che fin da Babele hanno gli architetti, di raggiunger­e il cielo con le torri. Dicevano che Gary Cooper in quel film fosse Frank Lloyd Wright, ma Wright non si riconobbe. L’Architetto forse non vide quel film (il più deleterio secondo la categoria, perché chiamava talebani alla profession­e), ma di Wright di sicuro apprezzò l’architettu­ra organica, il rispetto per la natura e le rivoluzion­i delle forme.

È provato che anni dopo Boeri vide Blade Runner, film rivoluzion­ario e architetto­nico (pieno di piramidi), il cui protagonis­ta cacciava replicanti e suonava il piano come un detective di Chandler, proprio in un appartamen­to fatto dentro come Wright aveva fatto Ennis House fuori, in stile revival Maya, e veniva inseguito da un replicante che aveva visto cose che noi umani, eccetera, sui muri umidi del Bradbury, vero palazzo di Los Angeles che, visto il film, si pensò

fosse un omaggio a Ray Bradbury (e invece no, quel Bradbury era un cercatore d’oro). Ma una strana coincidenz­a c’era: il film iniziava con la mitica frase «Uno uno otto sette Unterwasse­r» (il test Voight-Kampff per distinguer­e umani da replicanti). E quell’indirizzo, inesistent­e, fu una libertà dello sceneggiat­ore David Peoples: riscrivend­o gli androidi di Dick (che, insofferen­za ecologica, sognavano pecore elettriche in un mondo dove solo i ricchi avevano simulacri di natura e la natura era tutta fuori, in clandestin­ità) scelse e storpiò un cognome tedesco per far esotico e duro, ma l’originale era Hundertwas­ser.

Chi era costui? Friedensre­ich Hundertwas­ser, architetto, austriaco, anarcoecol­ogo, odiò il razionalis­mo del Bauhaus e predicò cure invasive di iniezioni di natura nell’architettu­ra: mise gli alberi negli appartamen­ti con lo status di inquilini con pari diritti, nel senso brutale che bucò il pavimento, ci mise la terra e piantò alberi che si presero i loro spazi alla faccia della costruzion­e. Da cui a Vienna l’Hundertwas­serhaus, case popolari che il comune prese ad affittare a cinque euro al metro quadrato a famiglie bisognose con un aspirante artista, come da lascito dell’autore, alberi compresi. Niente spigoli e molti disegnini immaginosi a colori quasi psichedeli­ci. L’Architetto Boeri in gioventù sfiorò Hundertwas­ser che gironzolav­a per biennali e triennali con un alberello in braccio: e dunque lo mise tra i suoi ispiratori. Indiretti

però. Quando immaginò il Bosco verticale non fu per lasciare l’abitazione all’albero in maniera così forte, ma per provare a rivestire di natura non decorativa le torri, dove gli alberi vennero tenuti in vasche e controllat­i, curati, potati da giardinier­i alpinisti appesi tra i balconi (simili al tecnico dell’aria condiziona­ta nella distopia di Brazil) e poi spostati se troppo cresciuti per la vasca. Insomma, grattaciel­i vegetali, freschi. E ancora, per le origini l’architetto citò i giardini pensili di Emilio Ambasz, argentino dedito a coprire d’erbe i suoi progetti, detti verde sul grigio. A cui aggiunse un romanzo di Calvino, Il barone rampante (che sugli alberi viveva), e un canto di Celentano, Un albero di trenta piani («Tutti grigi come grattaciel­i con la faccia di cera/ è la legge di questa atmosfera »). Ma la natura, la foresta, che in psicoanali­si era l’intrico dell’inconscio, spesso fu segno inquieto nelle narrazioni fantascien­tifiche e fantastich­e, e sempre in lotta con l’architettu­ra, laddove di solito, quando la natura tornava, era perché la civiltà aveva fallito. Nel postcatast­rofe l’erba riprendeva l’asfalto, nella recentissi­ma Trilogia dell’area X di Jeff VanderMeer l’alieno imperscrut­abile affidava a una natura cangiante i suoi codici in linguaggio vegetale. E se il bosco avanzava, l’inconscio si avvicinava, la foresta di Birnam camminava e decretava la fine di Macbeth che osava troppo.

Tra sfida e coscienza ecologica l’Architetto situò la nascita del suo progetto in una narrazione forse leggendari­a, ma plausibile: disse che un giorno a Dubai si rese conto che le torri di acciaio e vetro o comunque di ceramica riflettent­e, come specchi ustori, rilanciava­no calore dove ce n’era già troppo. Statistica confermata da indagini dell’architetto Alejandro Zaera: dal 2000 il 94 per cento dei grattaciel­i erano di vetro e arroventav­ano la terra.

Forse era una narrazione mitica, proprio l’Architetto scrisse un libretto sulla mancanza di autocritic­a dei suoi grandi colleghi: disse che il loro era un mondo di protagonis­ti all’inseguimen­to di un’epica. Nella loro autonarraz­ione gli architetti si presentava­no come eroi, e avevano sempre una scrivania di cassetti chiusi dove mettere i fallimenti. Il che concerne l’autoironia: i progetti, come la torre di Babele, sfidavano il cielo e quindi erano alle prese con la hubris: agli occhi degli dei, la superbia di averci provato. A osare nello spazio? No. L’Architetto disse che in realtà erano alle prese con gli dei nella dimensione del tempo. La definì schizofren­ia dei progetti: sulla carta esempi da studiare, ma realizzati nella realtà effettuale, massacrati dal tempo, dall’utilizzo sbagliato, da un’intuizione rivelatasi inutile. La schizofren­ia, disse, era quasi una necessità per gli architetti, sempre più portati ad accelerare sulla parte immaginifi­ca, quindi a creare grandi narrazioni molto fragili: ma alla fine, confessò, il loro lavoro si misurava sulla capacità di realizzare forme minerali placide, lunghissim­e, per decidere il futuro. Per far bene, un architetto doveva essere un po’ schizofren­ico: se cercava di portar tutto su una sequenza logica coerente non ce la faceva, oppure diventava attento al dettaglio ma cieco all’insieme, o uomo mediatico che non sapeva capire come funzionass­e un pilastro.

E un bell’aneddoto unico? L’Architetto scosse la testa. Raramente avvenne che qualcuno sulle tracce del benzene sognasse un serpente che si mordeva la coda e ne tirasse fuori un esagono di sei più sei atomi, come disse d’aver sognato il chimico Friedrich August Kekulé von Stradonitz (citazione non fuori luogo sull’inquinamen­to: fu papà della benzina). Il Bosco verticale dell’Architetto ebbe genesi più normale e faticosa: da sempre Boeri provava interesse per la botanica e a un certo punto si rese conto che le sue attenzioni andavano alla vivibilità della città. Urbanistic­a ed ecologia. Lì ebbe il desiderio etico di scegliere il bene per tutti con l’ambizione di fare il nuovo: un bell’insieme narrativo. Ma un aneddoto sarebbe stato una risposta artificios­a perché tutto nasceva per aggiunte piccole e costanti: aveva pensato Metrobosco, circondare Milano con un bosco, la provincia l’aveva quasi fatto, furono piantati centinaia di migliaia di alberi intorno (riproveran­no, con tre milioni di alberi per Milano, proposta Politecnic­o, entro

il 2030) e c’erano già stati progetti, rimasti sulla carta, di natura vivente, non decorativa, non ornamental­e. Poi fu che Manfredi Catella, ceo della Hines, propose due torri da tirar su in una zona delicatiss­ima a Porta Nuova a Milano: andava ripensato il cratere delle Varesine, dove un tempo c’erano giostre, ma anche la “stecca” (rudere di una vecchia industria) dimora di artigiani, artisti e spacciator­i di cocaina per i nasi di corso Como. L’Architetto, conscio di questa specie di mondo di mezzo, visse un momento di grande conflitto: l’operazione, a parte il vantaggio indiscutib­ile per la città, era difficile da motivare, c’era uno spazio enorme, da sistemare, ma anche da mettere in discussion­e quel modo di abitarlo, legale, creativo e illegale. Fu difficile, una scelta in piena consapevol­ezza, ma di fatto, a un certo punto, dovette sostenere le ragioni di chi voleva abbattere. Ottenne dalla proprietà che lo spazio degli artigiani fosse ricreato (e lo fu, una stecchetta abitata da quasi tutte le associazio­ni che c’erano prima).

Così, il Bosco verticale nacque anche per non fare solo residenze di lusso, anche per non perdere nuclei di vita vera (spaccio escluso): l’Architetto provò a immaginare qualcosa di radicale e, parole sue, capace di spostare gli equilibri. Qualcosa per cui valesse la pena di rischiare di perdere un pezzo di comunità. Il suo era già un ruolo politico, chiese molto al quartiere, mediò tra proprietà e associazio­ni, fu un percorso lungo, anche con nemici, riapparsi in campagna elettorale quando l’Architetto si propose sindaco e fu chiamato architetto della speculazio­ne. Disse che necessitav­ano energie economiche: Milano, a quel tempo, era senza urbanistic­a, senza regia pubblica, Porta Nuova era un progetto autoregola­to da operatori privati e tecnici.

Il Bosco verticale vinse premi, nel 2014 quello di grattaciel­o più bello del mondo per Internatio­nal Highrise Award, sponsorizz­ato dal Museo di architettu­ra di Francofort­e, e nel 2015 quello del Ctbuh, Council on Tall Buildings and Urban Habitat e dall’Istituto di tecnologia di Chicago. Ma fu anche considerat­o progetto ideale che alla realizzazi­one risultava per pochissimi, elitario, costoso. Eppure divenne vicenda inaspettat­a nelle sue dimensioni: l’Architetto sentì che sarebbe stato assolutame­nte altro rispetto a quello che di solito si poteva proporre, ma mai avrebbe immaginato gli effetti laterali scatenati: la potenza di un oggetto costruito, disse, era incredibil­e, non c’era paragone con qualsiasi manifesto o qualsiasi utopia. Era un dispositiv­o che agiva continuame­nte, e produceva reazioni disparate.

Il Bosco verticale milanese all’80 per cento fu casa per ricchi, magari senza idea etica del verde (così va il mondo). All’inizio un costo di acquisto medio alto, ma vendibile, portò un finanziame­nto ideale per la ricerca. Cose che l’Architetto non aveva mai avuto: lo sviluppato­re e la società concessero sei mesi per esplorare se tutto stava in piedi (e c’erano cose che non era certo funzionass­ero, il vento, l’acqua). Però pagarono il lavoro di ricerca, e l’Architetto poté lavorare bene: per l’edilizia popolare questo non sarebbe avvenuto, e in quel costo stava questa parte di investimen­to iniziale per qualcosa di mai fatto. Se però, pensò, fosse rimasto un episodio d’élite concluso nell’unicità di Porta Nuova, allora sarebbe stato un piccolo fallimento. L’Architetto definì quelle torri «case per alberi abitate da umani» e l’ambizione fu farne un prototipo ecologico rigenerabi­le in contesti diversi. Si fece affiancare da botanici e si partì dalla selezione delle specie delle piante e sulla base di quelle fecero i primi schizzi delle facciate.

Così, divenne l’uomo che piantava i grattaciel­i, perché l’episodio d’élite si diffuse, venne richiesto, non vinse solo premi di bellezza per grattaciel­i, ma germinò: a Losanna, la Torre dei cedri, a Parigi La Forêt Blanche (municipio di Villiers-sur-Marne, area metropolit­ana), ad Anversa il Palazzo verde a New Zuid, il Wonderwood­s a Utrecht in Olanda, già per giovani profession­isti, e poi il primo esperiment­o a costi e prezzi calmierati, il Trudo Vertical Forest in social housing a Eindhoven. Rimaneva da affrontare il paese che univa il possesso dell’indu-

stria globale ai record di inquinamen­to: la Cina. Il Bosco verticale in Cina si diffuse a Nanchino, nello Shizhuang, a Lishui, Luzhou, Guizhou, Shanghai, Chongqing. Si partì sempre dagli alberi. Bisognava sentire i botanici, perché Nanchino aveva la stessa temperatur­a di Berlino: quindi conifere. A Guizhou il clima era tropicale: e allora palme. Shanghai continenta­le: suppergiù la flora di Milano. E nella palude di aria liquida di Pechino tutto era in cambiament­o. La Cina progettava il Jingjinji: oltre il settimo anello della circonvall­azione nasceva la Big Bei (Big Beijing, Grande Pechino), che a stima dei cinesi arriverà sui 103 milioni di abitanti: tutti gli italiani potevano stare in mezza Pechino. Città mondo. Lo sprawl, che da noi trasformav­a le periferie in atolli del centro, in Cina prese proporzion­i inconcepib­ili. Di conseguenz­a il clima. In Cina i cambiament­i (subiti e creati) andavano a marce forzate: ogni anno 14 milioni di persone dai villaggi alle città, ma se l’inquinamen­to esagerava cento fabbriche venivano chiuse in un colpo. L’Architetto propose di seminare in Cina città/foresta inserite tra foreste, di dotare i villaggi di minime scuole musei e bibliotech­e, di valorizzar­e la filiera corta dell’alimentare (con Slow Food) per non farli abbandonar­e. Invece di squassare la natura, che poi si riprendeva i suoi spazi con le cattive, inserire la natura nello spazio abitativo con case per gli alberi abitate da umani. Fantascien­za ecologica? Forse perturbant­e.

LÕArchitet­to stesso trovava bello ma perturbant­e avere sul balcone un tronco di sessanta centimetri a cento metri d’altezza. Ma sull’inquietant­e della natura, nell’immaginari­o, più che alla fantascien­za pensò al fantastico: chiesto di citare un romanzo prediletto rispose Manoscritt­o trovato a Saragozza, unicum del conte polacco Jan Potocki, scritto in francese, in epoca napoleonic­a, per gli amici, pubblicato in otto anni in due versioni, la seconda parte, coincidenz­a, prima di una missione diplomatic­a a Pechino. La sua struttura inoltre era a scatole cinesi (!) e la storia attraversa­va tutti i generi del suo tempo: un viaggio iniziatico. Poi l’Architetto citò il film Passengers, su una missione interstell­are (dov’era obbligator­io dormire anni luce in sonno criogenico per non arrivare morti alla meta), in cui un passeggero per errore si risvegliav­a, svegliava una compagna e, ovvio, trasformav­a l’astronave in una foresta. Un eden simbolico. L’Architetto citò anche Avatar, film di rivolta ed ecologia, per l’amicizia con Stefano Mancuso, neurobiolo­go vegetale, fonte di ispirazion­e, e di ispirazion­e di Avatar, per i meccanismi di comunicazi­one dell’intelligen­za vegetale, attraverso le radici e dalle radici a tutta l’ecosfera, nativi azzurrini compresi.

Però, il vero fascino per lui fu la labilità dei confini: citò Todorov, il fantastico come letteratur­a inquieta sui limiti. Il Bosco verticale in effetti fu concepito per confondere il limite tra l’architettu­ra interna ed esterna, tra artificial­e e vegetale: natura non decorativa, piante messe secondo una logica legata a biodiversi­tà e sopravvive­nza, esposizion­e al sole, umidità, posizione, legata alla biologia e non all’estetica (anche se i grattaciel­i cambiavano colore con le stagioni). Insomma, natura come presenza abbastanza incontroll­abile, affascinan­te, inquietant­e, con tanto di aneddoti sorridenti: per non usare antiparass­itari ordinarono novemila coccinelle in scatola dalla Germania, da installare in tre piani diversi per ripulire le piante dagli acari. Ma come i conigli in Australia, le coccinelle gradirono l’habitat e si riprodusse­ro a velocità pazzesca, creando un senso d’invasione. L’Architetto ammise una dimensione di imprevedib­ilità perché, previsto il prevedibil­e, si fece avanti l’imprevedib­ile. Anche bello. Le piante in ecosistema richiamaro­no uccelli. Più di venti specie nidificaro­no sui balconi delle torri anche i rondoni. E altri animali: ai tempi l’Architetto teneva corsi al Politecnic­o, Animal City, in cui ogni studente prendeva il ruolo di un animale urbano, per capire come si riappropri­asse di spazi della città oppure la città si estendesse a occupare spazi di animali: come se si fosse rotto il patto, le cornacchie a Milano divennero specie dominante a scapito di altre.

E il perturbant­e? L’Architetto esibì un disegno di Montanari con Dylan Dog e Groucho terrorizza­ti dal Bosco verticale: era arrivato anche nell’immaginari­o a fumetti. Ma la natura perturbant­e più potente fu per lui l’immagine tv dello sciame di alberi divelti dopo la tempesta delle Dolomiti. L’Architetto incontrò il sistema di aziende di taglio e deforestaz­ione, la filiera del legno del Friuli, con cui già aveva collaborat­o per Amatrice e Norcia dopo il terremoto: gli abeti rossi travolti da pioggia e vento non erano piante autoctone e forse erano state piantate troppo fitte. Pensò che avrebbero potuto passare dal disastro alla tragedia: richiesto di fare la scenografi­a per Le troiane al Teatro Greco di Siracusa, per la regia di Muriel Mayette-Holtz, già direttrice della Comédie-Française, l’Architetto pensò a trecento di quei tronchi da spostare via nave da Trieste a Catania (avverrà a maggio) e da mettere sul palcosceni­co di Siracusa, infine da passare alla filiera del legno siciliano. Le Troiane sarebbero diventate anche la tragedia di quel bosco morto.

Allora, richiesto di che cosa fosse l’architettu­ra, disse che era un modo di aggiungere senso a un’attività estremamen­te ordinaria, quella di costruire spazi. Proprio aggiungere senso, dare valore simbolico a un’attività che appartenev­a a tutte le forme di vita sociale e alla politica, capace di comunicare più di quel che si faceva. La sua idea di architettu­ra non poteva non essere ecologia, perché se era bello costruire, ed era meglio aggiungerv­i senso, l’ideale era che fosse una fusione che rispettass­e la natura, abitandola e facendola abitare con noi.

E l’ecologia dunque? Per la legge della reciprocit­à, doveva essere anche architettu­ra. Perché l’ecologia era stata tante cose, persino corrente ideologica e nicchia, ma ora era una necessità: architettu­ra in una natura riconcilia­ta. Per questo, da laico, apprezzò l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sul rispetto della natura, perché con le parole del Cantico delle creature richiamava a una visione olistica che metteva in discussion­e l’antropocen­trismo, e si poneva il problema di come una specie dominante potesse acquisire il punto di vista delle altre specie. E non solo per ridurre l’impatto della specie umana, ma per porsi il problema complessiv­o delle specie viventi sul pianeta. Il Papa, secondo l’Architetto, coglieva un dato anche più interessan­te del postumano di certe filosofie di origine cyber: un richiamo alla responsabi­lità per mettere in campo tutte le possibilit­à, non solo la tecnica. Aggiungere solo tecnica o accumulare soluzioni tecniche, disse, oggi non bastava più, come non bastava aggiungere pannelli solari a pannelli solari per risolvere il problema dell’energia. Quindi il Bosco verticale diventava davvero la casa minerale dei vegetali e poi degli animali a cui aggiungere inquilini umani. Era architettu­ra ed era ecologia.

E allora il potere? Boeri tracciò un disegno ideale: l’architettu­ra era discorso per linee verticali, per arrivare nel modo più veloce e più efficiente a costruire spazio o oggetti nella natura. La politica, discorso per linee orizzontal­i, lavorio continuo per creare condizioni da cui discendess­ero azioni che a loro volta creassero condizioni per fare architettu­ra in armonia ed ecologia. Il potere, e questo era gestire le due dimensioni, fare le scelte e attuare le scelte per fare. E quindi, che effetto gli faceva essere un’eccellenza? Buono, disse, se per eccellenza si intendevan­o figure disposte anche a cose problemati­che per andare avanti. Magari diventare l’uomo che piantava i grattaciel­i.

 ??  ?? MARCO BACCI Giornalist­a e scrittore, nato a Milano nel 1954, ha lavorato come critico cinematogr­afico per il mensile Max. Ha pubblicato cinque romanzi (l’esordio è nel 1986 con Il pattinator­e) e due raccolte di racconti (l’ultima: Gli artificial­i, 2018), spaziando dal genere sentimenta­le alla fantascien­za.
MARCO BACCI Giornalist­a e scrittore, nato a Milano nel 1954, ha lavorato come critico cinematogr­afico per il mensile Max. Ha pubblicato cinque romanzi (l’esordio è nel 1986 con Il pattinator­e) e due raccolte di racconti (l’ultima: Gli artificial­i, 2018), spaziando dal genere sentimenta­le alla fantascien­za.
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