L’uomo che piantava i grattacieli
La rinascità delle città per linee dinamiche. Architettura ed ecologia per aggiungere senso e dare valore. Così l’architetto milanese ha ideato il Bosco verticale: una casa per alberi, animali ed esseri umani. Un modello di integrazione che sta crescendo ovunque
Nel 1910 Jean Giono scrisse d’aver incontrato Elzéard Bouffier, pastore, in un posto dove le Alpi entravano in Provenza, su un altopiano brullo, dove i pochi uomini litigavano e le donne portavano rancore. Bouffier era un silenzioso: quando non pascolava pecore selezionava ghiande, a gruppi di dieci, teneva le migliori cento, le metteva in un sacco inzuppato d’acqua, usciva con una barra di ferro, bucava il terreno e in ogni buco infilava una ghianda: se tutto fosse andato bene, poco più della metà sarebbero state querce. Di tutti e di nessuno. Quella frazione contava tre abitanti selvaggi, più o meno nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Condizione senza speranza. Non avevano altro che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù.
Quando tornò dopo la Prima guerra mondiale, l’area dimenticata da Dio era cambiata, soffiava una brezza docile carica di odori, le ghiande erano diventate querce, le querce raccolte in boschi di centinaia di migliaia di alberi, i boschi avevano cambiato il clima, scorreva l’acqua, i campi erano ubertosi, gli animali abitavano il bosco, gli insetti avevano colonizzato le piante. Le querce erano risarcimento simbolico delle vite perdute nella Grande guerra e Giono ebbe fama di pacifista scocciatore, a destra e a sinistra. Era cambiare il mondo anche con l’ecologia. Il racconto era
L’uomo che piantava gli alberi. La nostra narrazione è invece L’uomo che piantava i grattacieli. Un rapporto tra ghiande e grattacieli fu la missione di Stefano Boeri, che da qui in poi chiameremo l’Architetto. La sua creatura fu il Bosco verticale, un grattacielo (due, pardon) a Milano, con tanta natura messa dal basso verso l’alto sui balconi quanta in un bosco sarebbe diffusa in 20mila metri quadri. In numeri: due torri di 110 e 76 metri con appartamenti dai balconi profondi 3 metri e 35, affollati da 711 alberi, 4500 arbusti, 15mila piante perenni, per un totale di 94 specie vegetali, di cui 59 utili agli uccelli, 60 arboree e arbustive, 39 sempreverdi: lecci, peri selvatici, orni, faggi, meli, pruni da fiore, olivi, noccioli turchi, parrotie, corbezzoli, biancospini, ginestre, iperici, salici rossi e gelsomini.
Che ovviamente attirarono animali e insetti per avere microclima, filtrare polveri sottili, togliere rumore, aumentare l’ossigeno, mangiare l’anidride carbonica, tutelare la biodiversità e ridurre lo sprawl, il distendersi tentacolare della città (termine usato anche dagli Arcade Fire in una ballata: «Vivere nello sprawl/ I centri commerciali morti si ergono come montagne oltre le montagne/ E non c’è fine in vista»). Perché mettere in verticale il bosco fu mettere in orizzontale meno case. Anche qui era cambiare il mondo con l’ecologia.
Stefano Boeri, l’Architetto, nacque a Milano nel 1956, da una donna visionaria e pasionaria che si fece chiamare Cini: in gioventù ricavò una gonna da un paracadute e anni dopo disegnò oggetti e una poltrona fantasma di vetro. Il padre Renato, neurologo e comandante partigiano, studiò le patologie dei vasi cerebrali e i modi per prevenire la guerra nucleare. Il nonno, senatore Giovan Battista, rispose picche a Mussolini nel ’24: non voleva essere complice di delitti, e il dittatore la prese male. Senza esitazioni, fin da bambino, Stefano volle essere architetto e politico perché alla sua tavola si alternavano costruttori di grattacieli e costruttori di compromessi storici. Ebbe un fratello economista, Tito, uomo di previdenza sociale (ora non più), e uno giornalista, Sandro.
L’Architetto, termine che sta bene col compasso del nonno massone e suona ambiguo e inquietante come l’entità (uomo o programma) che regolava gli algoritmi della menzogna di Matrix (film di architettura virtuale della realtà), prima di usare alberi già pronti invece delle ghiande, fu studente contestatore, firmò progetti, scrisse libri, insegnò al Politecnico, diresse nel tempo le riviste Domus e Abitare, ora la Triennale, fu in politica legato sempre a un destino di case, disegni, forme nello spazio e natura perturbante. Da assessore alla Cultura a Milano, piantò in piazza Affari L.O.V.E., la grande mano con un unico dito birichino dell’artista Cattelan: un dito medio statuario, degno dei resti del colosso di Costantino (in teoria, l’unico dito rimasto di un saluto romano in omaggio all’architettura fascista della Borsa) che, volendo, ricordava un albero o un pennone. Eccolo: l’albero, le sue valenze simboliche, sessuali, misteriche, religiose e sacrificali. Gli alberi della vita, gli alberi della linfa, il contatto alto/ basso, mondo etereo e mondo infero, il cielo e la madre terra, il test dell’albero, tutto Jung o, per tornare a terra, il disastro ecologico a cui ci avviammo da quando gli alberi non stettero dietro all’aumento della CO2 e al riscaldamento globale. Le origini dell’Architetto ebbero a che fare con tutto questo. Forse.
Forse, mentre la madre costruiva la casa nel bosco tra due laghi, bassa e distesa a serpente tra le betulle per non abbattere le betulle, il tredicenne futuro Architetto immaginò un parallelepipedo verticale da cui sporgeva un ramo, e forse pensò a un grattacielo su cui aveva attecchito una quercia. Non è provato. Di sicuro conosceva i giardini pensili di Babilonia, dove le rose fiorivano ogni giorno per Semiramide, anche nel deserto (metafora ecologica dell’aiutare la natura a cambiare la natura anche dove non pare possibile). C’è un quadro di Degas che lo mostra. E un architetto tedesco trovò sulla porta meridionale di Baghdad un luogo che potesse contenere un bosco, con un pozzo con fori per irrigare: l’Eufrate era lontano, ma a quel tempo l’acqua si faceva salire in alto con la forza umana. Sicuramente il futuro Architetto ci pensò, perché alle querce, anche in cima ai grattacieli, non bastava l’acqua piovana ma l’ecosistema, e studiò le marcitoie dei frati lombardi, dove i prati d’inverno erano tenuti al caldo sott’acqua. E di sicuro conobbe la torre di Lucca, detta Guinigi, che in cima aveva una cassa di terra con sette lecci (lo riportano Le Croniche di Giovanni Sercambi, dal XV secolo). Dunque, fin qui abbiamo invocato le origini del suo bosco nella natura, gli alberi, i tronchi, da cui gli alberi maestri delle navi, un tempo chiamati skyscraper, perché secondo gli inglesi grattavano il cielo. E per metafora eccoci ai grattacieli.
Non si sa se l’Architetto vide mai quel vecchio film, La fonte meravigliosa, in cui Gary Cooper si batteva per disegnare grattacieli nudi e razionali mentre tutti lo invitavano a metterci decori, timpani, metope, statue e colonne, in modo che ricordassero qualcosa a cui il popolo era abituato (ah sì?), altrimenti sarebbe stato un fallito e un reietto. Lui mandava al diavolo gli ideologi del popolo/massa e si autoesiliava nel deserto dell’Arizona a sgranare il granito con un martello pneumatico, confuso tra i manovali, come Mosè (che era architetto di piramidi e
obelischi), tornato a pestare paglia e fango con il suo popolo: e lì, sudato e scultoreo, attirava le attenzioni di una faraona, che nel film fu più prosaicamente un’ereditiera. Poi gli alteravano il progetto di case popolari e lui andava di dinamite in nome dell’individualismo e dell’orgoglio.
Certo, il giovane Stefano Boeri non fu insensibile all’idea di dar l’assalto al cielo, quando grande era il disordine sotto il cielo, e la situazione italiana non era proprio eccellente. Poi spostò la vocazione a rompere le scatole agli dei a quella forma di superbia, che fin da Babele hanno gli architetti, di raggiungere il cielo con le torri. Dicevano che Gary Cooper in quel film fosse Frank Lloyd Wright, ma Wright non si riconobbe. L’Architetto forse non vide quel film (il più deleterio secondo la categoria, perché chiamava talebani alla professione), ma di Wright di sicuro apprezzò l’architettura organica, il rispetto per la natura e le rivoluzioni delle forme.
È provato che anni dopo Boeri vide Blade Runner, film rivoluzionario e architettonico (pieno di piramidi), il cui protagonista cacciava replicanti e suonava il piano come un detective di Chandler, proprio in un appartamento fatto dentro come Wright aveva fatto Ennis House fuori, in stile revival Maya, e veniva inseguito da un replicante che aveva visto cose che noi umani, eccetera, sui muri umidi del Bradbury, vero palazzo di Los Angeles che, visto il film, si pensò
fosse un omaggio a Ray Bradbury (e invece no, quel Bradbury era un cercatore d’oro). Ma una strana coincidenza c’era: il film iniziava con la mitica frase «Uno uno otto sette Unterwasser» (il test Voight-Kampff per distinguere umani da replicanti). E quell’indirizzo, inesistente, fu una libertà dello sceneggiatore David Peoples: riscrivendo gli androidi di Dick (che, insofferenza ecologica, sognavano pecore elettriche in un mondo dove solo i ricchi avevano simulacri di natura e la natura era tutta fuori, in clandestinità) scelse e storpiò un cognome tedesco per far esotico e duro, ma l’originale era Hundertwasser.
Chi era costui? Friedensreich Hundertwasser, architetto, austriaco, anarcoecologo, odiò il razionalismo del Bauhaus e predicò cure invasive di iniezioni di natura nell’architettura: mise gli alberi negli appartamenti con lo status di inquilini con pari diritti, nel senso brutale che bucò il pavimento, ci mise la terra e piantò alberi che si presero i loro spazi alla faccia della costruzione. Da cui a Vienna l’Hundertwasserhaus, case popolari che il comune prese ad affittare a cinque euro al metro quadrato a famiglie bisognose con un aspirante artista, come da lascito dell’autore, alberi compresi. Niente spigoli e molti disegnini immaginosi a colori quasi psichedelici. L’Architetto Boeri in gioventù sfiorò Hundertwasser che gironzolava per biennali e triennali con un alberello in braccio: e dunque lo mise tra i suoi ispiratori. Indiretti
però. Quando immaginò il Bosco verticale non fu per lasciare l’abitazione all’albero in maniera così forte, ma per provare a rivestire di natura non decorativa le torri, dove gli alberi vennero tenuti in vasche e controllati, curati, potati da giardinieri alpinisti appesi tra i balconi (simili al tecnico dell’aria condizionata nella distopia di Brazil) e poi spostati se troppo cresciuti per la vasca. Insomma, grattacieli vegetali, freschi. E ancora, per le origini l’architetto citò i giardini pensili di Emilio Ambasz, argentino dedito a coprire d’erbe i suoi progetti, detti verde sul grigio. A cui aggiunse un romanzo di Calvino, Il barone rampante (che sugli alberi viveva), e un canto di Celentano, Un albero di trenta piani («Tutti grigi come grattacieli con la faccia di cera/ è la legge di questa atmosfera »). Ma la natura, la foresta, che in psicoanalisi era l’intrico dell’inconscio, spesso fu segno inquieto nelle narrazioni fantascientifiche e fantastiche, e sempre in lotta con l’architettura, laddove di solito, quando la natura tornava, era perché la civiltà aveva fallito. Nel postcatastrofe l’erba riprendeva l’asfalto, nella recentissima Trilogia dell’area X di Jeff VanderMeer l’alieno imperscrutabile affidava a una natura cangiante i suoi codici in linguaggio vegetale. E se il bosco avanzava, l’inconscio si avvicinava, la foresta di Birnam camminava e decretava la fine di Macbeth che osava troppo.
Tra sfida e coscienza ecologica l’Architetto situò la nascita del suo progetto in una narrazione forse leggendaria, ma plausibile: disse che un giorno a Dubai si rese conto che le torri di acciaio e vetro o comunque di ceramica riflettente, come specchi ustori, rilanciavano calore dove ce n’era già troppo. Statistica confermata da indagini dell’architetto Alejandro Zaera: dal 2000 il 94 per cento dei grattacieli erano di vetro e arroventavano la terra.
Forse era una narrazione mitica, proprio l’Architetto scrisse un libretto sulla mancanza di autocritica dei suoi grandi colleghi: disse che il loro era un mondo di protagonisti all’inseguimento di un’epica. Nella loro autonarrazione gli architetti si presentavano come eroi, e avevano sempre una scrivania di cassetti chiusi dove mettere i fallimenti. Il che concerne l’autoironia: i progetti, come la torre di Babele, sfidavano il cielo e quindi erano alle prese con la hubris: agli occhi degli dei, la superbia di averci provato. A osare nello spazio? No. L’Architetto disse che in realtà erano alle prese con gli dei nella dimensione del tempo. La definì schizofrenia dei progetti: sulla carta esempi da studiare, ma realizzati nella realtà effettuale, massacrati dal tempo, dall’utilizzo sbagliato, da un’intuizione rivelatasi inutile. La schizofrenia, disse, era quasi una necessità per gli architetti, sempre più portati ad accelerare sulla parte immaginifica, quindi a creare grandi narrazioni molto fragili: ma alla fine, confessò, il loro lavoro si misurava sulla capacità di realizzare forme minerali placide, lunghissime, per decidere il futuro. Per far bene, un architetto doveva essere un po’ schizofrenico: se cercava di portar tutto su una sequenza logica coerente non ce la faceva, oppure diventava attento al dettaglio ma cieco all’insieme, o uomo mediatico che non sapeva capire come funzionasse un pilastro.
E un bell’aneddoto unico? L’Architetto scosse la testa. Raramente avvenne che qualcuno sulle tracce del benzene sognasse un serpente che si mordeva la coda e ne tirasse fuori un esagono di sei più sei atomi, come disse d’aver sognato il chimico Friedrich August Kekulé von Stradonitz (citazione non fuori luogo sull’inquinamento: fu papà della benzina). Il Bosco verticale dell’Architetto ebbe genesi più normale e faticosa: da sempre Boeri provava interesse per la botanica e a un certo punto si rese conto che le sue attenzioni andavano alla vivibilità della città. Urbanistica ed ecologia. Lì ebbe il desiderio etico di scegliere il bene per tutti con l’ambizione di fare il nuovo: un bell’insieme narrativo. Ma un aneddoto sarebbe stato una risposta artificiosa perché tutto nasceva per aggiunte piccole e costanti: aveva pensato Metrobosco, circondare Milano con un bosco, la provincia l’aveva quasi fatto, furono piantati centinaia di migliaia di alberi intorno (riproveranno, con tre milioni di alberi per Milano, proposta Politecnico, entro
il 2030) e c’erano già stati progetti, rimasti sulla carta, di natura vivente, non decorativa, non ornamentale. Poi fu che Manfredi Catella, ceo della Hines, propose due torri da tirar su in una zona delicatissima a Porta Nuova a Milano: andava ripensato il cratere delle Varesine, dove un tempo c’erano giostre, ma anche la “stecca” (rudere di una vecchia industria) dimora di artigiani, artisti e spacciatori di cocaina per i nasi di corso Como. L’Architetto, conscio di questa specie di mondo di mezzo, visse un momento di grande conflitto: l’operazione, a parte il vantaggio indiscutibile per la città, era difficile da motivare, c’era uno spazio enorme, da sistemare, ma anche da mettere in discussione quel modo di abitarlo, legale, creativo e illegale. Fu difficile, una scelta in piena consapevolezza, ma di fatto, a un certo punto, dovette sostenere le ragioni di chi voleva abbattere. Ottenne dalla proprietà che lo spazio degli artigiani fosse ricreato (e lo fu, una stecchetta abitata da quasi tutte le associazioni che c’erano prima).
Così, il Bosco verticale nacque anche per non fare solo residenze di lusso, anche per non perdere nuclei di vita vera (spaccio escluso): l’Architetto provò a immaginare qualcosa di radicale e, parole sue, capace di spostare gli equilibri. Qualcosa per cui valesse la pena di rischiare di perdere un pezzo di comunità. Il suo era già un ruolo politico, chiese molto al quartiere, mediò tra proprietà e associazioni, fu un percorso lungo, anche con nemici, riapparsi in campagna elettorale quando l’Architetto si propose sindaco e fu chiamato architetto della speculazione. Disse che necessitavano energie economiche: Milano, a quel tempo, era senza urbanistica, senza regia pubblica, Porta Nuova era un progetto autoregolato da operatori privati e tecnici.
Il Bosco verticale vinse premi, nel 2014 quello di grattacielo più bello del mondo per International Highrise Award, sponsorizzato dal Museo di architettura di Francoforte, e nel 2015 quello del Ctbuh, Council on Tall Buildings and Urban Habitat e dall’Istituto di tecnologia di Chicago. Ma fu anche considerato progetto ideale che alla realizzazione risultava per pochissimi, elitario, costoso. Eppure divenne vicenda inaspettata nelle sue dimensioni: l’Architetto sentì che sarebbe stato assolutamente altro rispetto a quello che di solito si poteva proporre, ma mai avrebbe immaginato gli effetti laterali scatenati: la potenza di un oggetto costruito, disse, era incredibile, non c’era paragone con qualsiasi manifesto o qualsiasi utopia. Era un dispositivo che agiva continuamente, e produceva reazioni disparate.
Il Bosco verticale milanese all’80 per cento fu casa per ricchi, magari senza idea etica del verde (così va il mondo). All’inizio un costo di acquisto medio alto, ma vendibile, portò un finanziamento ideale per la ricerca. Cose che l’Architetto non aveva mai avuto: lo sviluppatore e la società concessero sei mesi per esplorare se tutto stava in piedi (e c’erano cose che non era certo funzionassero, il vento, l’acqua). Però pagarono il lavoro di ricerca, e l’Architetto poté lavorare bene: per l’edilizia popolare questo non sarebbe avvenuto, e in quel costo stava questa parte di investimento iniziale per qualcosa di mai fatto. Se però, pensò, fosse rimasto un episodio d’élite concluso nell’unicità di Porta Nuova, allora sarebbe stato un piccolo fallimento. L’Architetto definì quelle torri «case per alberi abitate da umani» e l’ambizione fu farne un prototipo ecologico rigenerabile in contesti diversi. Si fece affiancare da botanici e si partì dalla selezione delle specie delle piante e sulla base di quelle fecero i primi schizzi delle facciate.
Così, divenne l’uomo che piantava i grattacieli, perché l’episodio d’élite si diffuse, venne richiesto, non vinse solo premi di bellezza per grattacieli, ma germinò: a Losanna, la Torre dei cedri, a Parigi La Forêt Blanche (municipio di Villiers-sur-Marne, area metropolitana), ad Anversa il Palazzo verde a New Zuid, il Wonderwoods a Utrecht in Olanda, già per giovani professionisti, e poi il primo esperimento a costi e prezzi calmierati, il Trudo Vertical Forest in social housing a Eindhoven. Rimaneva da affrontare il paese che univa il possesso dell’indu-
stria globale ai record di inquinamento: la Cina. Il Bosco verticale in Cina si diffuse a Nanchino, nello Shizhuang, a Lishui, Luzhou, Guizhou, Shanghai, Chongqing. Si partì sempre dagli alberi. Bisognava sentire i botanici, perché Nanchino aveva la stessa temperatura di Berlino: quindi conifere. A Guizhou il clima era tropicale: e allora palme. Shanghai continentale: suppergiù la flora di Milano. E nella palude di aria liquida di Pechino tutto era in cambiamento. La Cina progettava il Jingjinji: oltre il settimo anello della circonvallazione nasceva la Big Bei (Big Beijing, Grande Pechino), che a stima dei cinesi arriverà sui 103 milioni di abitanti: tutti gli italiani potevano stare in mezza Pechino. Città mondo. Lo sprawl, che da noi trasformava le periferie in atolli del centro, in Cina prese proporzioni inconcepibili. Di conseguenza il clima. In Cina i cambiamenti (subiti e creati) andavano a marce forzate: ogni anno 14 milioni di persone dai villaggi alle città, ma se l’inquinamento esagerava cento fabbriche venivano chiuse in un colpo. L’Architetto propose di seminare in Cina città/foresta inserite tra foreste, di dotare i villaggi di minime scuole musei e biblioteche, di valorizzare la filiera corta dell’alimentare (con Slow Food) per non farli abbandonare. Invece di squassare la natura, che poi si riprendeva i suoi spazi con le cattive, inserire la natura nello spazio abitativo con case per gli alberi abitate da umani. Fantascienza ecologica? Forse perturbante.
LÕArchitetto stesso trovava bello ma perturbante avere sul balcone un tronco di sessanta centimetri a cento metri d’altezza. Ma sull’inquietante della natura, nell’immaginario, più che alla fantascienza pensò al fantastico: chiesto di citare un romanzo prediletto rispose Manoscritto trovato a Saragozza, unicum del conte polacco Jan Potocki, scritto in francese, in epoca napoleonica, per gli amici, pubblicato in otto anni in due versioni, la seconda parte, coincidenza, prima di una missione diplomatica a Pechino. La sua struttura inoltre era a scatole cinesi (!) e la storia attraversava tutti i generi del suo tempo: un viaggio iniziatico. Poi l’Architetto citò il film Passengers, su una missione interstellare (dov’era obbligatorio dormire anni luce in sonno criogenico per non arrivare morti alla meta), in cui un passeggero per errore si risvegliava, svegliava una compagna e, ovvio, trasformava l’astronave in una foresta. Un eden simbolico. L’Architetto citò anche Avatar, film di rivolta ed ecologia, per l’amicizia con Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, fonte di ispirazione, e di ispirazione di Avatar, per i meccanismi di comunicazione dell’intelligenza vegetale, attraverso le radici e dalle radici a tutta l’ecosfera, nativi azzurrini compresi.
Però, il vero fascino per lui fu la labilità dei confini: citò Todorov, il fantastico come letteratura inquieta sui limiti. Il Bosco verticale in effetti fu concepito per confondere il limite tra l’architettura interna ed esterna, tra artificiale e vegetale: natura non decorativa, piante messe secondo una logica legata a biodiversità e sopravvivenza, esposizione al sole, umidità, posizione, legata alla biologia e non all’estetica (anche se i grattacieli cambiavano colore con le stagioni). Insomma, natura come presenza abbastanza incontrollabile, affascinante, inquietante, con tanto di aneddoti sorridenti: per non usare antiparassitari ordinarono novemila coccinelle in scatola dalla Germania, da installare in tre piani diversi per ripulire le piante dagli acari. Ma come i conigli in Australia, le coccinelle gradirono l’habitat e si riprodussero a velocità pazzesca, creando un senso d’invasione. L’Architetto ammise una dimensione di imprevedibilità perché, previsto il prevedibile, si fece avanti l’imprevedibile. Anche bello. Le piante in ecosistema richiamarono uccelli. Più di venti specie nidificarono sui balconi delle torri anche i rondoni. E altri animali: ai tempi l’Architetto teneva corsi al Politecnico, Animal City, in cui ogni studente prendeva il ruolo di un animale urbano, per capire come si riappropriasse di spazi della città oppure la città si estendesse a occupare spazi di animali: come se si fosse rotto il patto, le cornacchie a Milano divennero specie dominante a scapito di altre.
E il perturbante? L’Architetto esibì un disegno di Montanari con Dylan Dog e Groucho terrorizzati dal Bosco verticale: era arrivato anche nell’immaginario a fumetti. Ma la natura perturbante più potente fu per lui l’immagine tv dello sciame di alberi divelti dopo la tempesta delle Dolomiti. L’Architetto incontrò il sistema di aziende di taglio e deforestazione, la filiera del legno del Friuli, con cui già aveva collaborato per Amatrice e Norcia dopo il terremoto: gli abeti rossi travolti da pioggia e vento non erano piante autoctone e forse erano state piantate troppo fitte. Pensò che avrebbero potuto passare dal disastro alla tragedia: richiesto di fare la scenografia per Le troiane al Teatro Greco di Siracusa, per la regia di Muriel Mayette-Holtz, già direttrice della Comédie-Française, l’Architetto pensò a trecento di quei tronchi da spostare via nave da Trieste a Catania (avverrà a maggio) e da mettere sul palcoscenico di Siracusa, infine da passare alla filiera del legno siciliano. Le Troiane sarebbero diventate anche la tragedia di quel bosco morto.
Allora, richiesto di che cosa fosse l’architettura, disse che era un modo di aggiungere senso a un’attività estremamente ordinaria, quella di costruire spazi. Proprio aggiungere senso, dare valore simbolico a un’attività che apparteneva a tutte le forme di vita sociale e alla politica, capace di comunicare più di quel che si faceva. La sua idea di architettura non poteva non essere ecologia, perché se era bello costruire, ed era meglio aggiungervi senso, l’ideale era che fosse una fusione che rispettasse la natura, abitandola e facendola abitare con noi.
E l’ecologia dunque? Per la legge della reciprocità, doveva essere anche architettura. Perché l’ecologia era stata tante cose, persino corrente ideologica e nicchia, ma ora era una necessità: architettura in una natura riconciliata. Per questo, da laico, apprezzò l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sul rispetto della natura, perché con le parole del Cantico delle creature richiamava a una visione olistica che metteva in discussione l’antropocentrismo, e si poneva il problema di come una specie dominante potesse acquisire il punto di vista delle altre specie. E non solo per ridurre l’impatto della specie umana, ma per porsi il problema complessivo delle specie viventi sul pianeta. Il Papa, secondo l’Architetto, coglieva un dato anche più interessante del postumano di certe filosofie di origine cyber: un richiamo alla responsabilità per mettere in campo tutte le possibilità, non solo la tecnica. Aggiungere solo tecnica o accumulare soluzioni tecniche, disse, oggi non bastava più, come non bastava aggiungere pannelli solari a pannelli solari per risolvere il problema dell’energia. Quindi il Bosco verticale diventava davvero la casa minerale dei vegetali e poi degli animali a cui aggiungere inquilini umani. Era architettura ed era ecologia.
E allora il potere? Boeri tracciò un disegno ideale: l’architettura era discorso per linee verticali, per arrivare nel modo più veloce e più efficiente a costruire spazio o oggetti nella natura. La politica, discorso per linee orizzontali, lavorio continuo per creare condizioni da cui discendessero azioni che a loro volta creassero condizioni per fare architettura in armonia ed ecologia. Il potere, e questo era gestire le due dimensioni, fare le scelte e attuare le scelte per fare. E quindi, che effetto gli faceva essere un’eccellenza? Buono, disse, se per eccellenza si intendevano figure disposte anche a cose problematiche per andare avanti. Magari diventare l’uomo che piantava i grattacieli.