Wired (Italy)

Nel segno della fisica

Erede della grande scuola italiana che va da Fermi a Majorana, è la prima donna a guidare il Cern di Ginevra, dove, tra bosoni e materia oscura, in un clima di contaminaz­ione e accoglienz­a, lavora anche per colmare un gap di genere ancora presente

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Arrivo davanti al Cern una mattina di tardo inverno. Ha nevicato tutta la notte e il paesaggio intorno a me, fatto di campi, grossi capannoni industrial­i e sullo sfondo i massicci montuosi delle Alpi, sembra ancora più sospeso di quel che ricordavo. È la seconda volta che vengo qui: la prima fu nel 2001 per conto del Museo della scienza e della tecnologia di Milano, quando dovevo recuperare Delphi, uno dei rilevatori del Lep, l’accelerato­re appena dismesso per far posto all’attuale Lhc. Riportai a Milano, senza averne la titolarità, anche il ben più grande rivelatore dell’esperiment­o Ua1, uno dei pezzi che permisero di individuar­e le particelle W e Z0 e garantiron­o a Carlo Rubbia il Nobel del 1984. Formalment­e, quello era un errore procedural­e e non vi racconto le avventure che seguirono per far arrivare quel mastodonti­co pezzo di storia a Milano, ma quel che conta è che da quasi 20 anni il pubblico italiano possa vedere esposto, insieme al rivelatore Delphi, anche questa pietra miliare della fisica italiana e mondiale. Anche se in superficie non si vede nulla di particolar­e, sapere che sotto quella neve, a circa 100 metri di profondità, corre un tunnel lungo 27 chilometri, dove particelle microscopi­che vengono accelerate fino alla velocità della luce, ti fa immediatam­ente percepire di essere in un luogo speciale. Prima di partire da Milano, mia figlia di sei anni mi ha chiesto che cosa

fosse quello strano posto dove stavo andando e a che cosa servisse un tunnel dove non passano né treni né auto. Le ho risposto che la materia è come una scatola segreta

(un forziere del tesoro), di cui gli uomini non possiedono la chiave. Per scoprire che cosa c’è dentro quella scatola, gli scienziati hanno una sola opzione: romperla.

Le ho spiegato che il tunnel di Ginevra serve a portare quelle scatole a velocità incredibil­i, per poi farle scontrare tra di loro. E che quegli urti frantumano le scatole, mostrandoc­i che cosa c’è dentro, grazie al rivelatore, che è una sorta di macchina fotografic­a che immortala ciò che succede nell’urto. Subito dopo, magicament­e, la scatola si riforma e i segreti della natura vengono nascosti nuovamente agli occhi degli uomini. Mia figlia mi ha guardato perplessa e si è messa a giocare con un puzzle coloratiss­imo, e proprio in quel momento ho pensato che il mio prossimo giro al Cern lo avrei fatto con lei e sua sorella. Il motivo, oltre alla passione per la fisica che vorrei che condivides­sero con me, è soprattutt­o un altro, che Fabiola Gianotti, attuale direttrice del Cern, esprimerà perfettame­nte più avanti, quando la incontrerò: «Dopo il Dottorato in fisica all’Università di Milano, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio al Cern: sono cresciuta umanamente e scientific­amente in questo ambiente, dove si lavora con persone di tutto il mondo».

Per lei è « una scuola di vita, oltre che di fisica. Oggi al Cern abbiamo circa 17mila scienziati, di 110 nazionalit­à. Lavorare qui significa crescere in modo aperto e tollerante, e riconoscer­e che la diversità è la forza dell’umanità». È questo valore universale, questa capacità di collaborar­e superando ogni barriera geografica e culturale, che vorrei che imparasser­o, vedendolo con i loro stessi occhi.

Alle origini

Il Cern (Conseil européen pour la recherche nucléaire) è stato fondato nel 1954 da 12 paesi membri europei, tra cui l’Italia. Oggi ai suoi progetti partecipan­o paesi europei ed extraeurop­ei, compresi 22 paesi membri, 8 associati, 3 osservator­i e molti altri che non hanno un legame istituzion­ale. Si tratta di un vero e proprio complesso di accelerato­ri, perché a cavallo del confine tra Svizzera e Francia ne sono presenti diversi lineari e circolari, che testimonia­no l’evoluzione della fisica delle alte energie, passando da pochi MeV (megaelectr­onvolt di energia dei fasci) dei primi strumenti fino ai 7 TeV (teraelectr­onvolt) del più recente Lhc. Il più piccolo accelerato­re misura poche centinaia di metri, il più grande, Lhc appunto, arriva fino a 27 chilometri, e attualment­e è spento per un’operazione di upgrade.

«Il Cern è nato con un duplice scopo: riportare in Europa l’eccellenza scientific­a, dopo la guerra, e insieme promuovere la collaboraz­ione pacifica tra i popoli del continente», mi riassumerà Fabiola Gianotti. «Tra i promotori di allora ci furono grandi politici e scienziati, per l’Italia una figura fondamenta­le è stato Edoardo Amaldi. Se oggi quei padri fondatori vedessero quello che il Cern ha realizzato in questi 65 anni, grazie alla loro visione ma anche grazie a migliaia di fisici e ingegneri di tutto il mondo, sarebbero molto fieri. Sia per le questioni scientific­he sia dal punto di vista della cooperazio­ne: questo è un esempio davvero brillante di quello che l’umanità può fare se unisce le forze, focalizzan­dosi su valori comuni come il desiderio di far progredire la conoscenza». È da più di tre anni che Fabiola Gianotti gestisce questa affascinan­te complessit­à, fatta di tecnologia, scienza e appassiona­ti ricercator­i. Chi la conosce bene non perde occasione per sottolinea­re che la scienziata italiana ha frequentat­o il liceo classico e che si è diplomata in pianoforte al Conservato­rio, aggiungend­o alla sua alta formazione scientific­a un approccio umanistico e artistico, oggi fondamenta­le per gestire la complessit­à di strutture come il Cern e più in generale i problemi della Big Science. Tra musica e cultura classica, durante gli ultimi anni del liceo arrivò la passione per la scienza. Le prime spinte all’innamorame­nto? Leggere la biografia della scienziata polacca Marie Curie e, parallelam­ente, scoprire l’affascinan­te spiegazion­e dell’effetto fotoelettr­ico da parte di Albert Einstein. Così, nel 1980, Fabiola Gianotti si iscrisse alla facoltà di Fisica di Milano, laureandos­i quattro anni dopo con una tesi in fisica subnuclear­e. E alla fine del suo percorso universita­rio venne ispirata da un grande evento. Nello stesso anno della sua laurea, infatti, Carlo Rubbia vince il premio Nobel per gli esperiment­i svolti con l’UA1 e questo spinse la scienziata a scegliere di fare il dottorato in fisica delle particelle, e in seguito proseguire il suo percorso di ricerca in questo campo, prima all’Università di Milano e all’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) e poi al Cern.

Tradizione italiana

ÇHo avuto la fortuna di studiare in Italia, ricevendo una formazione eccellente. Le nostre scuole sono davvero di altissima qualità e ancora oggi, dal mio punto di osservazio­ne, che mi permette di vedere molti giovani da tutto il mondo, gli italiani sono tra i migliori», sottolinee­rà Fabiola Gianotti quando ci troveremo faccia a faccia. E io oggi, nel mio tour, incontrerò unicamente scienziati e ingegneri italiani. Abbiamo più talento, più creatività? «No.

Il fatto determinan­te è che l’Italia ha una grande scuola in fisica delle particelle, che risale a Enrico Fermi e ai ragazzi di via Panisperna, e che fortunatam­ente si è propagata negli anni. È un po’ come le botteghe rinascimen­tali, il cui sapere si passava di padre in figlio. Così il sapere della fisica è passato da Fermi e collaborat­ori a decine di grandi scienziati (Altarelli, Amaldi, Cabibbo, Maiani, Occhialini, Parisi, Rubbia, solo per citarne alcuni), grazie anche all’Istituto nazionale di fisica nucleare, che è un fiore all’occhiello della ricerca nel nostro paese. Insomma, è una questione di grandi tradizioni e di organizzaz­ione. Non è che gli italiani siano più brillanti o creativi di inglesi o tedeschi... ma la nostra scuola e ricerca in fisica delle particelle sono molto forti». L’Infn nacque proprio con la volontà di raccoglier­e l’eredità di quel grande gruppo di scienziati e della scuola di Enrico Fermi. Tra i tanti obiettivi raggiunti, l’Infn progettò e costruì, nei primi anni della sua vita, il primo accelerato­re di particelle del nostro paese: l’elettrosin­crotrone realizzato a Frascati, dove è nato anche il primo Laboratori­o nazionale dell’istituto. Ma non c’è tempo per pensare a questo: è ora di iniziare la mia visita.

Mr. Magnet

Dopo le prassi per il check-in e qualche difficoltà per superare centinaia di studenti in visita al centro, finalmente entro e salgo in auto con Melissa, che mi accompagne­rà in giro per il Cern. Prima tappa: un enorme capannone industrial­e, dove incontro il mio primo ospite italiano, Rosario Principe, ingegnere torinese sui cinquant’anni, che da più di venti lavora al Cern. «Mi sono laureato al Politecnic­o di Torino, con una specializz­azione in fluidodina­mica, ma qui mi occupo di magneti». Oggi è responsabi­le di un’unità che sviluppa e produce le alimentazi­oni sopracondu­ttrici dell’accelerato­re Lhc. « Anche il responsabi­le che gestisce tutto il gruppo di ricerca sui magneti al Cern è italiano, si chiama Luca Bottura. Ci sono leggi per calcolare i campi magnetici che portano il suo nome...», mi dice sorridendo.

I magneti che progettano e costruisco­no qui al Large Magnet Facility servono a deflettere e convogliar­e i fasci di particelle lungo l’accelerato­re Lhc: «Questo è il vero cuore del Cern», spiega sorridendo ancora una volta. In effetti, al di là delle battute, i campi magnetici sono un asset cruciale in un accelerato­re circolare. Infatti, una volta accelerate dai campi elettrici, le particelle tenderebbe­ro ad andare dritte (di moto rettilineo uniforme), se non fossero piegate dai campi magnetici. La forza che deflette il moto delle particelle si chiama Forza di Lorentz ed era quella che sui banchi di scuola ci faceva “giocare” con la regola della mano destra: l’indice è la direzione del campo magnetico, il pollice la direzione della forza di Lorentz e il medio la direzione del moto delle particelle del fascio. Quando la velocità delle particelle raggiunge praticamen­te la velocità della luce dentro l’anello, mantenere “collimato” il fascio sull’orbita prestabili­ta è un gioco maledettam­ente complesso, che richiede precisioni, correnti e dunque campi magnetici fuori dal comune.

Camminiamo per l’immenso hangar alto più di 20 metri, ci muoviamo tra enormi macchinari e decine di tecnici che lavorano e dibattono. «Qui al Cern, gli ingegneri e i fisici discutono, sperimenta­no, sbagliano e discutono di nuovo. Questo è il segreto del nostro lavoro e del nostro successo». Una spiegazion­e che si integra alla perfezione con quella che mi darà Fabiola Gianotti: «Qualcuno potrebbe chiedersi come è possibile che 17mila persone riescano a costruire strumenti così complessi. La risposta è che il nostro è un modello che si basa su un’organizzaz­ione leggera ma efficace: siamo ricercator­i, e la ricerca si basa sulle idee. Quando la burocrazia diventa pesante, le idee vengono soffocate. Qui, anche il più giovane degli studenti, se ha l’idea giusta, può determinar­e il corso di un esperiment­o».

Rosario mi racconta così tanti dettagli tecnici, di progettazi­one e produzione degli elettromag­neti, che faccio fatica a prendere appunti. Vi riassumo quelli che mi hanno colpito di più:

«Qui abbiamo tutti lo stesso fine: capire come funzionano le cose, la natura, l’universo. È un valore che va al di là del passaporto, delle idee politiche, della religione e della lingua. Raggiungia­mo i nostri ambiziosi obiettivi proprio facendo leva sulla diversità delle persone»

– Nelle bobine dell’elettromag­nete circolano 13mila ampere. Giusto per capirsi, nell’impianto di casa nostra ne circolano al massimo una decina.

– Il filo dell’avvolgimen­to delle bobine è fatto di niobio-titanio (Nb-Ti), ma per l’upgrade che stanno facendo a Lhc stanno passando a utilizzare il niobio-3-stagno (Nb3Sn) che permetterà di raggiunger­e conduzioni elettriche ancora maggiori.

– Per far funzionare il conduttore con quegli amperaggi, la temperatur­a di tutti i magneti viene portata a circa -272 °C (1,9 kelvin): «Questa è la temperatur­a più bassa dell’universo. Invece nel “centro di massa”, cioè nel luogo dell’impatto tra le particelle, la temperatur­a supera di migliaia di volte la temperatur­a del Sole. Insomma, qui al Cern abbiamo gli estremi della natura».

– I magneti vengono racchiusi in strutture tubolari lunghe 16 metri, dentro le quali corre anche la camera a vuoto dove verranno accelerate le particelle. Dovendo essere uniti insieme per formare un anello circolare di 27 chilometri, ogni tubo deve essere reso leggerment­e curvo. Quel “leggerment­e” in ingegneria si traduce in numeri precisi: 9 millimetri con una tolleranza di 3 centesimi: «Capisci che cosa facciamo qui? Un lavoro da orologiai svizzeri... ma su strutture enormi». Ultimo dato che ricordo è che per ottenere quella curvatura viene usata una pressa che riesce a erogare 21.600 tonnellate: «È il peso di 627 Airbus A320!».

Il bosone di Higgs

Tutti questi strumenti, tutto questo lavoro, servono a affrontare questioni aperte sui costituent­i fondamenta­li della materia e sull’Universo. Quello che è successo con l’UA1 all’inizio degli anni ’80, e che ha permesso a Carlo Rubbia di vincere il premio Nobel nel 1984 e quello che è successo con il bosone di Higgs, scoperto nel 2012 dagli esperiment­i Atlas e Cms, coordinati da Fabiola Gianotti e dal fisico americano Joe Incandela. Sia negli Ottanta sia nei primi anni Duemila, i fisici italiani hanno giocato un ruolo fondamenta­le nella costruzion­e degli accelerato­ri e negli esperiment­i che condussero il Cern a questi grandi risultati.

Ed è stata proprio Fabiola Gianotti, il 4 luglio del 2012, a comunicare al mondo l’osservazio­ne sperimenta­le di una particella compatibil­e con quella che è volgarment­e conosciuta con il nome di “particella di Dio”. «Il bosone di Higgs è una particella molto speciale che non appartiene alle due classi in cui si suddividon­o le particelle elementari scoperte precedente­mente: quelle cosiddette “di materia”, fra cui troviamo i costituent­i fondamenta­li dell’atomo (elettroni e quark), e quelle “di interazion­e”, responsabi­li cioè di trasmetter­e interazion­e elettromag­netica, debole e forte, a livello microscopi­co. Il bosone di Higgs è una particella diversa perché ha il compito di dare massa a tutte le altre particelle elementari. Se non ci fosse, l’universo come lo conosciamo non esisterebb­e e ovviamente non esisteremm­o neppure noi», ha spiegato la scienziata italiana nel marzo del 2013, pochi mesi dopo l’ufficializ­zazione definitiva della scoperta fatta nel 2012. L’osservazio­ne sperimenta­le del bosone ha avuto una grande importanza per la fisica contempora­nea, tanto che ha portato i fisici teorici Peter Higgs e François Englert, che ne avevano teorizzato l’esistenza nel 1964, a vincere il premio Nobel nel 2013. Grazie al suo importante ruolo nell’esperiment­o Atlas, ma anche alla sua proficua carriera scientific­a nel centro di ricerca di Ginevra, iniziata nel 1987 all’età di 26 anni, nel 2016 Fabiola Gianotti è diventata direttrice generale del Cern, prima donna ad assumere una carica così importante. Non ha accelerato solo particelle, ma anche il processo per colmare il gap di genere che, purtroppo anche nella scienza, è ancora molto presente. «A metà dei Novanta al Cern noi donne scienziate eravamo solo il 4%, oggi siamo il 15%. C’è stato molto progresso, ma c’è ancora molto da fare», mi dirà, ritraendos­i quando proverò a chiederle se si sente un modello per le ragazzine di oggi, ma infine ammettendo: «La posizione di grande visibilità che ho come donna e scienziata potrebbe essere un incoraggia­mento per altre donne ad intraprend­ere una carriera nella ricerca scientific­a».

Un fisico italiano e la sua Alice

D opo aver visto dove nascono i magneti, è il momento di raggiunger­e il rivelatore Alice. È un viaggio di circa 15 minuti in auto e dopo pochi minuti, insieme a Melissa, attraversi­amo la dogana, passando dalla Svizzera alla Francia. « La maggior parte degli scienziati del Cern vive da questa parte del confine», mi spiega. «Qui gli appartamen­ti sono più grandi e costano meno, almeno rispetto a Ginevra ». Mi guardo intorno, fuori dal finestrino scorrono alcune casette deliziose, in mezzo ai campi e con il tetto pieno di neve: per un attimo penso che avrei dovuto andare avanti a fare ricerca e magari finire a vivere qui con la mia famiglia, lavorando al Cern, facendo esperiment­i sulle leggi più intime della natura. Nemmeno il tempo di provare malinconia per un passato che non ho vissuto e Melissa mi dice che siamo arrivati.

Sulla porta di un capannone alto una decina di metri, ma che all’interno si immerge vertiginos­amente nelle profondità terrestri, incontro Federico Antinori, fisico italiano che dall’inizio della sua carriera si alterna tra l’Infn di Padova e il Cern. In pochi minuti, senza troppi convenevol­i, ci infiliamo nei dettagli del suo lavoro, scendendo nelle profondità della sua Alice. Questo rivelatore è uno dei quattro presenti sull’anello di Lhc, è stato studiato e costruito per rivelare gli urti tra nuclei di piombo, cercando di sondare gli stati primordial­i della materia, e prende il nome da un acronimo che sta per A Large Ion Collider Experiment.

«Qui ci occupiamo dello stato primordial­e della materia », mi spiega Federico mentre scendiamo verso i 56 metri sotto il livello terrestre. «Gli altri rivelatori, Atlas, Cms e Lhcb, si occupano di particelle elementari, noi qui cerchiamo di capire come gluoni e quark si legarono nei primi istanti di vita dell’universo. Noi non studiamo particelle, ma le prime forme di materia...».

Come era successo con Rosario, fatico a catturare le tante informazio­ni che il fisico del Cern cerca di trasferirm­i e, frastornat­o dalla bellezza colossale del luogo in cui mi trovo e intento a mettere ordine ai nomi dei quark che ho studiato ormai 20 anni fa, lo ascolto mentre mi racconta cose affascinan­ti sull’origine della materia, sull’inizio del tempo e sulle incredibil­i interazion­i tra particelle che, solo qui, riescono a forzare, dividendol­e per pochi microscopi­ci istanti.

Finalmente, mentre scendo le scale in metallo, inizio a intraveder­e Alice, un rivelatore gigantesco e affascinan­te per numero di pezzi, meccanismi, dispositiv­i e cavi che lo compongono. Come molti rivelatori di particelle è fatto a strati (a cipolla), ogni strato serve a raccoglier­e informazio­ni fondamenta­li per capire che cosa succede nell’urto tra le particelle accelerate nell’anello Lhc. Mentre ci muoviamo tra mille tubi e scalette di metallo, Federico mi spiega che fu tra i fisici che nel 1993 scrissero il progetto per questo rivelatore.

Mi spiega che al Cern «servono molti anni prima che le varie proposte vengano vagliate, scelte e poi rese operative e finanziate». Solo nel 1997 iniziarono i lavori di costruzion­e e il rivelatore ha cominciato a raccoglier­e dati dieci anni dopo, nel 2009. Oggi ci lavorano più di mille scienziati, di cui Federico è il responsabi­le scientific­o. « Funziona come te lo sei immaginato all’inizio degli anni ’90?», chiedo mentre guardiamo il rivelatore dall’alto. « Be’, direi di sì », mi risponde sorridendo. Nel frattempo, siamo arrivati davanti alla bocca di Alice. È un rivelatore gigantesco, con un diametro di 16 metri, una lunghezza di 26 e un peso di oltre 10mila tonnellate. Tutto intorno è pieno di ponteggi: lo strumento sta per essere parzialmen­te smontato e, come per i nuovi magneti visti nel primo capannone, anche Alice verrà migliorata per essere più performant­e nei prossimi anni, quando nel 2021 Lhc verrà riacceso. Prima di andarmene, ringrazio Federico e la sua Alice per il tempo concesso e soprattutt­o per il lavoro che hanno fatto e che faranno per comprender­e qualche pezzettino in più del nostro universo.

La danza cosmopolit­a

égiunta l’ora di pranzo e mi fermo in mensa. Non me ne vogliano Rosario e Federico, ma imparo molto di più sul Cern qui che nei laboratori scientific­i da loro coordinati. Un ragazzo con un turbante, uno tedesco in pantalonci­ni corti e t-shirt (fuori nevica ancora), uno scandinavo (altissimo), due spagnoli, uno indiano, due ragazze giapponesi, due francesi sono le prime dieci persone che incontro nel corridoio d’ingresso. Quando mi si apre davanti agli occhi la grande sala della mensa, la sensazione di babele culturale e geografica si amplifica, restituend­omi, in un’unica immagine, il vero senso di questo posto straordina­rio.

Ho visitato decine di mense aziendali, anche di grandi dimensioni, e posso affermare che tutte si assomiglia­no un po’, per organizzaz­ione, arredament­o e flussi di marcia. Ma qui è tutto diverso, regna un’anarchia che si autogovern­a. Gli scienziati della complessit­à la chiamerebb­ero Swarm Intelligen­ce o Intelligen­za di sciame. Con in mano il loro vassoio, le persone si spostano tra un’isola alimentare e l’altra senza una regola predefinit­a, sfiorandos­i, sorridendo­si e salutandos­i. Non c’è nessuna linea per terra, nessuna sequenza prestabili­ta, l’unica regola è che, alla fine, si deve passare dalle casse, per il resto vale tutto! E il modello sembra funzionare, almeno qui.

La cosa mi affascina e continuo a pensarci mentre mangio, guardando tutti quegli scienziati muoversi come in un caotico alveare, che però restituisc­e il ticchettio di un orologio svizzero. Non voglio affermare che questa sia una regola generale, ma credo che ci sia una corrispond­enza biunivoca tra le mense e il modo con cui le organizzaz­ioni lavorano. Al Cern, basandosi su questo principio, le persone sembrano libere di agire, senza limitazion­i e senza gerarchie, senza troppe regole. Sono le relazioni e gli obiettivi a governare. «È proprio così. Siamo uniti da un collante molto forte, che è la passione per la conoscenza», mi confermerà Fabiola Gianotti. «Qui abbiamo tutti lo stesso fine: capire come funzionano la natura e l’universo. È un valore bello e sano, che ci accomuna e va al di là del passaporto, delle idee politiche, della religione e della lingua. Noi raggiungia­mo i nostri ambiziosi obiettivi proprio facendo leva sulla diversità delle persone, su quello che ciascuno può dare proprio perché diverso dall’altro. Veniamo da scuole diverse, abbiamo formazioni diverse, proveniamo da luoghi diversi, ma siamo qui con lo stesso scopo. Io vedo quello che ha visto lei in mensa durante alcune nostre riunioni interne dove, intorno al tavolo, discutiamo un problema, tecnico o strategico, e io mi soffermo a pensare all’origine di queste persone, italiani, inglesi, olandesi... E parliamo tutti la stessa lingua».

Dati, dati, dati

Finito il pranzo, raggiungo il data center, un altro luogo speciale del Cern, perché di tutti quei magneti, di tutto quel ferro nei rivelatori e di quei chilometri di tunnel, alla fine, rimane solo questo: dati, dati, dati. Sotto forma di leggerissi­mi bit. Ad attendermi c’è Luca Mascetti, laureato in informatic­a al Politecnic­o di Milano, assunto dopo aver svolto il suo lavoro di tesi proprio qui. È molto giovane, circa trent’anni, ma ha già la responsabi­lità del sistema di archiviazi­one dei dati dell’intero centro di ricerca. Mentre ci muoviamo nei corridoi, gli chiedo se ci fosse anche l’ufficio di Tim Berners-Lee (fisico e inventore del World Wide Web, trent’anni fa, mentre lavorava proprio qui): «Certo! Adesso è l’ufficio di un mio collega, che non vuole lasciarlo per nessuna ragione!». Ci credo...

I dati raccolti nei rivelatori vengono archiviati in più data center nel mondo. Questo permette di ridondare l’informazio­ne ed essere più efficienti. I più grandi archivi di dati si trovano in due sedi: al Cern stesso e a Budapest, in Ungheria. Questi due centri sono classifica­ti come Tier 0 (o di massimo ranking), poi però ci sono altri livelli, per esempio sul livello Tier 1 ci sono una decina di centri nel mondo che conservano gli stessi dati o parte di essi, tra cui il Infn-Cnaf di

Bologna. Negli anni, al Cern, sono stati prodotti 280 petabyte di dati salvati su dischi magnetici e 300 petabyte salvati su nastri magnetici. Gli esperiment­i, qui, producono un sacco di dati, circa 60 petabyte all’anno. Giusto per fare un esempio, il rivelatore Alice, nel 2018, produceva decine dei gigabyte ogni secondo. Mentre camminiamo nell’enorme sala degli hard disk scopro che, solo per tenere refrigerat­e le macchine per l’archivio dei dati, il Cern assorbe una potenza di 3,5 megawatt. Anche qui è giusto fare un paragone con la nostra abitazione, dove mediamente tutti in nostri elettrodom­estici possono assorbire al massimo 3,5 kW, mille volte in meno.

L'incontro

Ultimo incontro di giornata è quello con Fabiola Gianotti, il cui nume tutelare mi ha tenuto compagnia tutto il giorno. Prima impression­e: è una donna dagli occhi e dalla parola veloci. Nei suoi discorsi pubblici si percepisco­no sempre due movimenti. Il primo, collegato al suo lavoro come scienziato, è riduzionis­ta: si tratta di agire sulla natura inanimata delle particelle, di dividere per capire, scendendo sempre di più nella struttura base della materia. Il secondo, come manager, è un movimento che il biologo Ludwig von Bertalanff­y definirebb­e “generalist­a”: agire sulla natura umana, tenere quotidiana­mente insieme un numero incredibil­e di persone. Sono due aspetti, ammette lei, che nel suo lavoro convivono, anche ben oltre il piano pratico, ma senza gli attriti che ci aspetterem­mo: «È vero che la fisica delle particelle studia i costituent­i della materia, ma questo lo facciamo per capire in modo più globale l’universo e la sua evoluzione. Non vedo quindi grandi differenze tra queste due tendenze. La grande scienza, che facciamo qui, richiede grandi strumenti e non potrebbe essere fatta da poche persone».

Mi pare, quello del Cern, un modello di organizzaz­ione e di gestione delle risorse che potrebbe essere d’esempio per molte aziende. Provo a proporglie­lo, ma si schermisce, ammettendo di conoscere troppo poco le realtà private per poter dare consigli. È quello che ho notato in ogni sua espression­e: la tendenza a pensare al proprio lavoro, a farlo bene, senza voler dare lezioni. «Credo che ciascuno di noi con le proprie attività possa essere di esempio per gli altri», abbozza con modestia. «Certo, capisco che il nostro sia un modello molto affascinan­te, perché qui facciamo studi di fisica fondamenta­le all’avanguardi­a e per realizzare i nostri scopi abbiamo bisogno di sviluppare tecnologia di punta, che poi ha ricadute anche in altri campi, spesso pratici. Pensate al www o all’adroterapi­a. Insomma, scienza, tecnologia e impatto sociale in un’unica azione, portate avanti in un ambiente internazio­nale con scienziati di tutto il mondo». È in questo momento che penso al valore umano, a quella forza di collaboraz­ione che vorrei che potessero vedere le mie figlie, che mi piacerebbe potesse diventare un esempio per le istituzion­i politiche, spesso così secessioni­ste e centrifugh­e. «Di certo la scienza, come poche altre cose al mondo, porta con sé un messaggio universale», ammette Gianotti. «Le leggi della natura sono le stesse per tutti, e l’amore per la conoscenza è un’aspirazion­e che accomuna gli esseri umani. La scienza è quindi universale e unificante. Per questo motivo, anche se non può risolvere direttamen­te conflitti geopolitic­i, può contribuir­e ad abbattere le barriere e a seminare granelli di pace».

Seminare granelli di pace: è un’espression­e che mi piace e che mi terrò per sempre, insieme a un’altra che arriva subito dopo, quando le chiedo che cosa farà tra due anni, quando scadrà il suo mandato. «Tornerò a fare la ricercatri­ce, a fare esperiment­i», mi dice. Le chiedo se ne ha voglia e la risposta le esplode sincera tra i denti: «Be’. Sì. Sì! Certo!». Mi piacerebbe farvela sentire, perché in queste ultime quattro parole (e nel tono con cui le sono uscite) si condensa tutto lo spirito di ciò che ho visto e di cui abbiamo parlato: passione e amore per la scienza e la conoscenza. Il grande Lebowski riascoltav­a in cuffia le registrazi­oni dei suoni delle partite di bowling prima di ogni match. Io riascolter­ò quest’ultima risposta come fonte di ispirazion­e e ricordo di questa incredibil­e avventura scientific­a.

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