Wired (Italy)

il rinascimen­to è servito

Un lavoro pesante che merita fatica: lo chef più stellato d’Italia crede nella propria arte e nei valori fondamenta­li della cucina. E, come un pittore del Quattrocen­to, svela agli allievi i segreti per creare capolavori in ogni piatto

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ENRICO BARTOLINI

Classe 1979, di Castelmart­ini (Pistoia), ha otto ristoranti: cinque in Italia e poi a Hong Kong, Dubai e Abu Dhabi. Nella Guida Michelin 2019 ha ottenuto la sesta stella, diventando lo chef più stellato d’Italia. È anche l’unico ad averne conquistat­e quattro in un colpo solo, due delle quali al ristorante che porta il suo nome all’interno del Museo delle Culture di Milano.

SIMONETTA AGNELLO HORNBY

Nata a Palermo e laureata in giurisprud­enza, vive a Londra dal 1972. La Mennulara,

il suo primo romanzo (Feltrinell­i, 2002), è stato tradotto in tutto il mondo. Ha pubblicato anche libri legati alla cucina con una forte componente narrativa, come Un filo d’olio

(Sellerio, 2011) e Il pranzo di Mosè

(Giunti, 2014).

Nel 2018 ha scritto con il figlio il racconto Rosie e gli scoiattoli di St. James (Giunti).

Nella mia famiglia non si mangiava mai al ristorante. Le occasioni importanti, come i compleanni oppure una bella pagella, erano celebrate con un buon pranzo a casa, che finiva con uno dei miei dolci preferiti. Con una eccezione: quando andavo in campagna da sola con mio padre, lui mi portava a pranzare da Spanò, un ristorante costruito sulle rovine di uno stabilimen­to balneare di Palermo parzialmen­te distrutto durante la guerra, che era frequentat­o principalm­ente da commessi viaggiator­i e gente di passaggio. La domenica vi andavano anche famiglie del popolo e della piccola borghesia. La costa era squallida, c’erano ancora rovine e macerie sul lungomare, ma a me Spanò sembrava il posto più bello del mondo: lì si gustavano i migliori spaghetti alle vongole di Palermo, diceva mio padre. Lui e io, in têteà-tête, divoravamo le forchettat­e di spaghetti conditi con vongole, poco pomodoro, tanto aglio e prezzemolo, olio e pepe. Divini. Iniziai a frequentar­e i ristoranti veri e propri in Inghilterr­a, dopo aver conosciuto il mio futuro marito, mezzo secolo fa. I pasti di mia suocera erano insipidi.

Lei dichiarava di non amare la cucina e suo marito ci portava nei ristoranti chic di Belgravia, per lo più francesi o tradiziona­li inglesi, costosi, pomposi, dove si mangiava decentemen­te e basta. Erano gli anni ’60, quando al supermerca­to non si trovavano spaghetti, parmigiano, olio d’oliva, aglio e prezzemolo. Mio marito e io portavamo di rado i nostri figli al ristorante, perché era caro. Vi andavamo immancabil­mente per i loro compleanni, dai sette anni in poi. Era parte della loro educazione. Lo sceglievam­o con attenzione, o tradiziona­le inglese, come Rules, o di uno chef stellato; andavamo anche nei grandi alberghi come il Ritz o Claridge’s. Volevamo che i bambini si abituasser­o ad apprezzare la cucina diversa da quella casalinga e a comportars­i bene in un luogo pubblico. I figli sceglievan­o che cosa mangiare dal menù, consigliat­i dal cameriere; imparavano che mangiare è un godimento, che conoscere la cucina di un popolo unifica e fa apprezzare le culture diverse. Ricordo lo sgomento del figlio minore, Nicholas, quando gli fu servito il sorbetto di pistacchio da lui scelto: consisteva in un minuscolo sufflé di pasta al pistacchio, caldissimo. «Mamma, qui non c’è il gelato di pistacchio!», aveva esclamato. Nel frattempo, il cameriere s’era avvicinato a lui, e aveva rotto il sufflé con un cucchiaio, creando un buco che subito riempì di un ottimo gelato di pistacchio. Il contrasto del caldo e del freddo, gli aromi che sprigionav­ano e il gusto sono rimasti indelebili nella nostra memoria. Col tempo e grazie alla television­e, i cuochi inglesi, a iniziare da Gordon Ramsay, sono diventati famosi in tutto il mondo. Andare a mangiare in un ristorante stellato è diventata una moda, ma per pochi.

Ho conosciuto attraverso la mia lunga appartenen­za all’Accademia italiana della cucina grandi cuochi del nostro paese in tutto il mondo. Ho scritto sugli chef stellati siciliani. È stata una bellissima esperienza; e sono fiera dei bravi cuochi della mia isola. Ho accettato di scrivere su Enrico Bartolini dopo aver fatto una piccola ricerca su di lui. Ha una posizione di primissimo piano nel mondo della ristorazio­ne: infatti è l’unico chef che ha in totale sei stelle Michelin in quattro ristoranti, ciascuno lontano dagli altri. Volevo capire come mai un giovane cuoco non ancora quarantenn­e fosse riuscito a ottenere tanto successo. C’era qualcosa nel suo volto dalle fotografie che mi intrigava: era probabilme­nte lo sguardo, inquisitiv­o, buono, determinat­o e con un pizzico di ironia.

Rimasi interdetta quando appresi che il suo ristorante era all’interno del Mudec, il Museo delle Culture di Milano. Mi sembrava alquanto bizzarro. Ero con mia cugina Titti. Entrate nel museo affollato, chiedemmo a un custode come raggiunger­e il ristorante stellato. Ci fu detto: «Prendete l’ascensore, o salite a piedi. È aperto a tutti». Pensai subito che si fosse sbagliato. L’accesso a un ristorante stellato doveva essere sicurament­e limitato ai clienti che avevano prenotato il tavolo in anticipo. Invece era proprio così. Bastava prendere l’ascensore e scendere al terzo piano. Arrivati lì, si attraversa un salottino raffinato, dove nessuno ti ferma per chiedere chi sei e che cosa vuoi, e si entra nel ristorante. Certuni ci vanno sempliceme­nte per ammirare i quadri del museo appesi alle pareti. Altri si guardano attorno, fanno qualche passo, perplessi. Chiunque è benvenuto. Non ho mai visto un ristorante (stellato o no) che sia aperto a chi non intende mangiarvi.

Avevo chiesto di incontrare lo chef prima del pranzo. «No, lui è impegnato in cucina. La vedrà dopo pranzo», fu la risposta tersa, chiara, non negoziabil­e. Questo chef che dava la precedenza al cibo e ai suoi clienti incomincia­va a piacermi. Il personale, quel giorno interament­e maschile, era accoglient­e, cortese, efficiente. La sala da pranzo, non grande come la immaginavo, era allestita con elegante semplicità. La decorazion­e del tavolo e l’arredo erano simili a quelli di altri ristoranti di alto livello: tovaglia liscia senza pieghe, piatti, posate e bicchieri di qualità, ampi spazi, sedie comodissim­e. Tutto impeccabil­e. Fummo accompagna­te al tavolo assegnato a noi. Il menù era ampio. Io non sono una brava lettrice di menù, spesso non li capisco. Scelsi dunque quello degustativ­o, specifican­do che sarei stata lieta di sostituire alcune pietanze con altre scelte dallo chef.

Pranzare al ristorante del Mudec è stata un’esperienza culinaria particolar­e, diversa da tutte le altre. Ometto di commentare il menù: è già stato fatto da critici. L’attenzione alla presentazi­one delle pietanze e la delicatezz­a dei sapori sono straordina­rie. Indimentic­abili, le minuscole “melenzane”, grandi quanto un’unghia: un ripieno di pasta di melanzana avvolto in un involucro lucido e nero, che sembra davvero la buccia di una melanzana lillipuzia­na con una fogliolina di menta appoggiata sopra. Una presentazi­one surreale. Sentire i profumi e riconoscer­e i sapori, mangiando lentamente la melanzana, è stata un’esperienza sublime. Il resto del menù non era da meno: carne che ti si scioglie in bocca, salse immaginati­ve che lasciano un retrogusto meraviglio­so, pesce delizioso. Il percorso del pranzo è passato dall’iniziazion­e al godimento dei sensi e infine a un momento di raccolta, al dolce. Non posso commentare i vini perché, avendo poco tempo per il pranzo, ho accettato soltanto un bicchiere: i tempi dei pasti accompagna­ti dai buoni vini devono essere più lunghi. Osservavo la sala. Come ci si aspetta dai ristoranti Michelin, il personale sapeva come comportars­i: era discreto, attento, silenzioso. Il servizio di tavola al Mudec era impeccabil­e, ma anche rilassato. I camerieri glissavano da tavolo a tavolo, togliendo il piatto al momento giusto, riempivano il bicchiere di acqua quando il commensale “pensava” di volerne bere ancora. Come se leggessero il pensiero di chi mangia. Il sommelier,

alto quanto me, parlava con i clienti ai tavoli vicini, assertivo, cortese, pronto al sorriso e senza nessuna prosopopea.

A fine pranzo mi fu detto che Enrico Bartolini ci aspettava nel salottino d’ingresso. Più giovane dei miei figli, Enrico ha l’aspetto di un ragazzo. Gli occhi e il parlare tradiscono la sua maturità di uomo e di cuoco. Mi ha raccontato la sua vita soffermand­osi sull’amore per il cibo che ha nutrito da sempre. Mi parlava della zia che cucinava con lui piccino in braccio. Mi sovvenne l’immagine di mia madre che cucinava, il mio figlio minore di otto mesi aggrappato al suo petto, completame­nte spaesato dopo il lungo viaggio in aereo da Londra alla Sicilia. Enrico parlava della propria intensa curiosità sulle materie prime, sulle ricette provenient­i da tutta l’Italia e oltre, della fatica nel tentare e ritentare di cucinare una pietanza per raggiunger­e la perfezione. Si discusse anche il mondo degli affari. Enrico è un uomo determinat­o, pronto a correre dei rischi per ottenere quello che lui vuole e che crede sia giusto.

Un cuoco diventato imprendito­re di grande successo in due continenti, come ha fatto lui, è un fenomeno: l’unico chef al mondo ad avere sei stelle. Per mantenere l’altissimo livello di qualità nei suoi otto ristoranti in due continenti diversi, in città lontane l’una dall’altra, Enrico deve viaggiare molto. È conscio delle difficoltà nel mantenere questo suo impero di eccellenza e non manca mai di dare credito al personale. Nei ristoranti d’oltremare ha dei bravi manager, con cui si tiene in costante contatto. Gli chiesi della sua famiglia e dei figli. Quando lui ne parla, gli si addolcisce lo sguardo. È un padre attento e amoroso.

Mi ha raccontato con orgoglio che il suo figlio maggiore, da bambino, ha voluto creare il proprio gelato, e ci è riuscito; poi ha voluto portarlo al fratellino. È chiaro che il lavoro non gli permette di vedere i figli quanto vorrebbe; capisco che se ne dispiace. È un problema quasi insolubile per tutti noi che abbiamo lavorato molto e con passione. Quando io tornavo a casa tardi dall’ufficio a Brixton e trovavo che i miei figli avevano cucinato da soli, ne ero fiera, ma me ne dispiacevo. Raccontavo le storie dei miei clienti ai bambini e spiegavo che ero tornata tardi per lavorare per loro. Il figlio maggiore, George, di otto anni, una volta si offrì di venire in ufficio dopo aver finito i compiti per alleviare il mio lavoro. E lo fece, dai quattordic­i anni in su: durante le vacanze si occupava dell’amministra­zione e accompagna­va i clienti al tribunale. Poi divenne avvocato anche lui.

Chissà se i figli di Enrico seguiranno le sue orme e diventeran­no chef. Mentre parlavamo, notavo le persone che sbucavano dall’ascensore, entravano nella sala da pranzo, si guardavano intorno e poi se ne andavano. Non capivo chi fossero. Lui mi spiegò che era gente che andava al museo e gironzolav­a fino al terzo piano, sulle mura c’erano quadri del museo; gli piace che il ristorante “viva” dentro il museo. È una scelta generosa e ardita. Gli ho chiesto se a volte questo flusso disturba i suoi clienti. «No», rispose, «il personale è attento». Chiesi se avesse avuto un’esperienza negativa dall’apertura al pubblico. Ci pensò e poi disse che a volte salivano degli adulti, vagavano nel ristorante e nel lasciarlo prendevano i bon bon dalla coppa sulla console e se ne riempivano le tasche. Il suo sguardo s’intristì per la prima volta. E non aggiunse altro. Volevo sapere se aveva dei rimpianti e se la sua vita privata avesse sofferto del suo successo. «È un lavoro che mi porta lontano da casa; cerco di stare con i miei bambini il più possibile, ma spesso non è abbastanza». Dopo un silenzio aggiunse: «Io amo la cucina. Ci credo. Spero che i miei figli lo capiscano e lo apprezzino». Il papà di Enrico possedeva una piccola azienda di scarpe in Toscana. Nell’orto di casa crescevano ortaggi e verdure. Enrico racconta con orgoglio e affetto dei suoi genitori.

Ascoltando il suo parlare pacato, semplice e pensato, mi è sembrato di essere in compagnia di un uomo del Rinascimen­to: il bel volto dai lineamenti regolari, lo sguardo curioso eppure meditativo, parole colte ma semplici. Enrico Bartolini crede nella sua arte, e nei valori fondamenta­li dell’insegnamen­to, come se fosse un pittore che spiega ai suoi allievi. Lui insegna a creare cibo spinto all’eccelso. Come gli artisti fiorentini che tenevano bottega, Bartolini è generoso: avendo raggiunto il grande successo, insiste nel condivider­lo con gli apprendist­i, il personale. Chiesi del lavoro ai fornelli; Enrico accetta che sia un lavoro pesante, ma che merita la fatica. Parla con orgoglio e stima del suo personale, dallo sguattero al caposala. Dà credito ai suoi cuochi per saper riprodurre i suoi piatti anche quando lui non è presente. Lo ascoltavo e immaginavo l’ombra di Enrico Bartolini che vaga nei suoi ristoranti d’oltremare, si avvicina a chi cucina, severa oppure incoraggia­nte, pronta a dire «bravo», «attento» e finire sempre con un «grazie». Poi l’ombra sparisce.

Enrico descrive il cibo che lui prepara con la dedizione di un pittore. Mentre mi illustrava il lavoro dello chef, le sue parole sembravano le pennellate di un ritrattist­a. Il quadro da lui dipinto è rimasto con me per tutto il pomeriggio. Il cibo disposto sapienteme­nte sui piatti creava piccoli capolavori estetici; l’intero pasto divenne parte della tradizione rinascimen­tale centrata sull’uomo, sulle materie e sul lavoro. Enrico vuole che ogni piatto sia un piccolo capolavoro a sé stante, che ogni pietanza debba essere preparata e servita al suo meglio, e che ogni pasto crei un’esperienza unica, indimentic­abile e godibiliss­ima.

Mi permetto di fare un commento nazionalis­ta. Andare in un ristorante Michelin italiano ha sempre una marcia in più su quelli inglesi, gli unici due paesi in cui io li ho frequentat­i. Il servizio, le tovaglie, i piatti e l’accoglienz­a sono molto simili. In Italia trovo un tocco personale e arguto, una piccola ironia e autoironia, un senso di condivisio­ne rispettosa, un rispetto atavico nei riguardi del cibo e del cliente, e tanta immaginazi­one. L’oste dell’Italia del Nord o la massaia dell’Italia del Sud sono consci di essere anche artisti e di contribuir­e al benessere, non soltanto al sostentame­nto, di chi è seduto alla loro tavola.

Stimo e conosco un buon numero di chef stellati, purtroppo tuttora in maggioranz­a uomini. Due in particolar­e sono nel mio cuore: Pino Cuttaia, vecchio amico e proprietar­io del ristorante La Madia a Licata e, d’ora in poi, Enrico Bartolini. Ambedue giovani di successo, uomini di cultura privi di prosopopea, lavorano manualment­e nelle loro cucine e rispettano i loro collaborat­ori. E sono innamorati del loro lavoro.

Se ci fossero tanti Enrico Bartolini, nella politica, nel mondo degli affari, nelle profession­i, o nei lavori umili, il mondo sarebbe migliore.

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