Il papà delle macchine elastiche
Con i suoi personal supercomputer ha conquistato la Silicon Valley, dove è stato eletto miglior imprenditore emergente. Hardware che permetteranno all'A.I. di diventare realtà: la fantascienza non è mai stata così vicina
EMILIO BILLI
Perugino, 46enne, ingegnere, ha fondato insieme alla moglie l’azienda A3Cube, che produce supercomputer “scalabili” e ha sedi a Novara e San Jose. Con il boom dell’intelligenza artificiale, la richiesta di potenza di calcolo è aumentata negli ultimi anni e quello che sembrava un business morto è tornato in auge
DARIO TONANI
Milanese, laureato alla Bocconi in Economia politica, ha scelto di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Giornalista professionista, appassionato di science fiction, noir, horror e thriller, ha pubblicato diversi romanzi (tra cui, Infect@, Toxic@ e la saga Mondo9), oltre a un centinaio di racconti.
ÇIsupercomputer? Sono gli stupidi più veloci del mondo». Non ha esitazioni nel suo giudizio affettuosamente tranchant Emilio Billi, classe ’72, perugino di nascita ma novarese d’adozione, ingegnere nucleare, una dozzina di brevetti all’attivo, considerato uno dei migliori architetti di sistemi complessi oggi sul mercato. Tanto da essersi aggiudicato nel 2017, nella Silicon Valley, il titolo di «Miglior imprenditore emergente dell’anno», assegnatogli dalla rivista The Technology Headlines.
A tutti gli effetti, Billi è il papà di quelle che lui stesso definisce, con un suggestivo contrasto di opposti, «macchine elastiche»; per noi comuni mortali, «personal supercomputer». Meglio, mostri in scala ridotta, capaci di fare in modo più mirato e a costi accessibili quello che in origine svolgevano pachidermi come Cray, Blue Gene dell’Ibm o i datacenter di Google, appannaggio solo di un’élite di persone, come centri di ricerca e università, che necessitavano di enormi e velocissime capacità computazionali e di elaborazione dei dati. Per raccontarci le sue intuizioni e la sua avventura imprenditoriale, ci accoglie con la moglie, Antonella Rubicco, ceo della sua azienda, la A3Cube, nella sede da poco impiantata in Italia proprio all’interno della centrale idroelettrica Guido Davide Orlandi
di Galliate, centro di 15mila anime nel novarese, che ha dato i natali a un grande asso del volante degli anni ’30, Achille Varzi.
Il luogo è incantevole, le sponde del Naviglio Langosco scendono verso l’impianto ammantate di neve, l’acqua color ardesia scorre lenta, con il rumore della cascata che fa da unico sottofondo sonoro. «Energia a chilometro zero», ci spiega Billi con orgoglio,guidandoci lungo i corridoi della vecchia struttura, oggi suggestivo esempio di archeologia industriale ultracentenaria (è stata costruita nel 1903): gli uffici, minimalisti, sono al piano inferiore, a cavallo del fiume, e dalle loro finestre si può quasi toccare il pelo dell’acqua. All’inizio del corridoio che dà sulle postazioni di lavoro, vediamo un tavolo da ping-pong. Un indizio, il secondo dopo l’amaca nel bosco («per rilassarsi e pensare»), che riporta a quella googliness tanto in voga Oltreoceano tra chi lavora nel campo dell’informatica di frontiera.Su una scrivania, c’è persino un binocolo: «Abbiamo anche sei cigni; quattro da questa parte e due dall’altra», racconta Vittorio Rebecchi, con i Billi fin dal 1999, sviluppatore software che confessa di usarlo per guardare le loro evoluzioni e distrarre gli occhi dallo schermo del pc. Ma soprattutto c’è Walter, un simpaticissimo cocker blu roano sordo dalla nascita, che ci fa una gran festa saltando su e giù dalle sedie.
Èin questa calma bucolica, in pieno Parco del Ticino, che il genio dei supercomputer sta allestendo il suo eremo: una decina di scrivanie che conta di portare a 25 entro fine anno, tutte occupate da ingegneri e matematici puri, con qualche informatico e l’inseparabile moglie Antonella, una laurea in Scienze biologiche e una capacità comunicativa dirompente, che fa la spola tra qui e San Jose, cuore della Silicon Valley, in California dove si trovano gli headquarters (e il business che conta) dell’azienda. Si sono conosciuti, nel 1992, al liceo scientifico, lui al quinto anno, lei al quarto. Tutto, confessano, è cominciato però quattro anni dopo, nel 1996, in gelateria.
Era un mondo tecnologicamente lontano anni luce da quello di oggi: niente smartphone, niente tablet, niente wi-fi; internet col contagocce, lenta e costosa; sui computer più evoluti (memoria massima 4 Mb e scheda video da 512 kb) si affacciavano i primi processori Pentium, e Windows 95 stava lentamente soppiantando Windows 3.11. Di porte usb neanche a parlarne, al massimo i pc più smart avevano il lettore cd. Stop.
Emilio, studente d’ingegneria nucleare, era appena tornato da una delle sue lezioni di calcolo, in cui gli avevano parlato dei supercalcolatori, del più mastodontico e famoso di tutti, il Cray. Da qui l’idea, semplice e al contempo geniale, di costruire “qualcosa” che garantisse le stesse potenzialità e performance di quei mastodonti, senza averne i costi proibitivi (18-20 milioni di dollari di oggi), perché non realizzato con hardware proprietario, ma con componenti standard. E quindi potenzialmente in grado di rivolgersi a una platea più estesa di medio/piccole realtà imprenditoriali, come banche, ospedali, compagnie di assicurazione, marchi della grande distribuzione, stazioni meteo.
«In fondo», esordisce Billi, «qualsiasi computer è composto solo da due elementi: dati e operazioni logico-matematiche. Quello su cui noi possiamo agire per creare dispositivi più veloci o addirittura nuove macchine computazionali è come rendiamo disponibili i dati e come svolgiamo le operazioni su di essi, nulla più».
«In questa “riduzione in scala” dovevamo però risolvere una serie di problemi», s’inserisce la Rubicco. «Dal raffreddamento dei componenti, brevetto per il quale Emilio ha vinto anche un premio, al contenimento delle dimensioni dei sistemi facendo in modo di spingerli comunque al massimo delle performance. Il tutto adottando hardware standard, che non era stato pensato per questo tipo d’impiego, e quindi reinventandone la… destinazione d’uso».
Da Novara alla Silicon Valley
Èsabato, nella sede a cavallo del Langosco non c’è nessuno, la calma è totale. Consegno agli ospiti il mio piccolo cadeau: è la stampata del celebre racconto I nove miliardi di nomi di Dio, scritto da Arthur C. Clarke nel 1953 e vincitore del massimo premio della fantascienza, l’Hugo. In una manciata di pagine parla di un supercomputer consegnato a un monastero di monaci tibetani, impegnati da qualcosa come 300 anni a compilare una lista con tutti i possibili nomi di Dio: permutazioni di nove lettere di un alfabeto di loro invenzione. E, insomma, desiderosi, con la tecnologia disponibile in Occidente, di stringere i tempi. Non spoilero il finale, ma siamo decisamente in tema…
Torniamo agli “ingredienti” di cui è composto un computer (dati e operazioni logico-matematiche) e chiediamo qual è stata l’intuizione successiva, sulla quale si è poi innestata l’attività di A3Cube.
« A un certo punto dell’evoluzione informatica ci si è resi conto di avere a disposizione un’enorme quantità di dati e che da essi si potevano ricavare un numero incredibile d’informazioni utili per gli impieghi più disparati. Tutto il nostro sapere risiede unicamente nella
correlazione tra dati: lo è la storia stessa, intesa come disciplina di studio che ricostruisce gli eventi raccogliendo, analizzando e relazionando pazientemente milioni d’informazioni provenienti da fonti diverse; lo è la diagnosi medica, che è l’arte di mettere in correlazione i sintomi con il loro significato e quindi con i possibili rimedi. Ma lo stesso discorso vale se vogliamo capire se un titolo di borsa salirà o scenderà, oppure se un edificio sarà in grado di resistere a una scossa sismica. Le potenzialità di una macchina in grado di analizzare tutte le relazioni esistenti che stanno alla base di un evento ci aprono scenari straordinari: potremmo scoprire nuove cure, captare con anticipo l’insorgere di una crisi finanziaria, prevedere un crimine prima che avvenga…».
No, no, aspetti, questa è materia mia: e le confesso che l’ho già sentita, ma è un film di fantascienza di Steven Spielberg, Minority Report, tratto da un racconto di uno degli scrittori più geniali e visionari del genere, Philip K. Dick… «Non è fantascienza, mi creda », s’illumina Billi, con uno dei suoi rari sorrisi in grado di mostrare tutta la passione che anima il suo lavoro. «Oggi esistono software capaci di prevedere una rapina prima che questa avvenga, semplicemente incrociando tra loro una mole mostruosa di reperti, testimonianze e dati investigativi. Non ci crederà ma il più famoso si chiama KeyCrime ed è stato sviluppato da un italiano, Mario Venturi, assistente capo per quattordici anni alla Questura di Milano, e funziona proprio sulla base di una capacità di calcolo e di correlazione che solo un sistema in grado di autoaffinarsi e imparare può garantire...».
E qui veniamo alle eccellenze italiane, di cui Emilio Billi nel suo campo è esponente di primissima linea, arrivando a farsi conoscere e apprezzare là dove, in California, l’avanguardia della tecnologia è orizzonte del presente quotidiano. Non di solo design, moda, belle automobili e buon cibo vive il Belpaese: italiano, dell’Olivetti, fu nel 1957 il primo computer a transistor anziché a valvole, come pure il primo personal computer a lettore di schede magnetiche (sorta di floppy disk ante litteram), ma anche il primo linguaggio di programmazione per personal pc a portata di tutti. Eccellenze spesso dimenticate, attribuite ad altri o rimaste nell’ombra perché conosciute solo dagli addetti ai lavori.
A3Cube nasce nel 2012, ma affonda le radici in una sua storia che parte da molto più lontano, quando i Billi-Rubicco erano solo una giovane coppia di menti brillanti e di belle speranze. «Per finanziare le nostre ricerche, facevamo assistenza informatica, mettevamo fisicamente le mani nei pc, prendevamo confidenza con la loro architettura. Per un cliente di Vercelli, che peraltro non ci pagò mai, fummo i primi a far dialogare tra loro un pc e un Mac. Poi siamo passati alle consulenze sulle reti lavorando per aziende in Piemonte e Lombardia».
La prima vera svolta arriva nel 2005; dopo anni di studio e sperimentazione sul raffreddamento dei componenti, schede madri, cpu e sistemi d’interconnessione hardware e software, ecco materializzarsi SC-12, il primo personal supercomputer della coppia, il sogno che si trasforma in realtà. Ma soprattutto che potrebbe diventarlo per un mercato (e un business) che comincia a confrontarsi con i big data. Tutto, dall’intuizione originaria alle menti che ci hanno lavorato, dalla tecnologia alla produzione, è italiano, per cui l’obiettivo è cercare fondi per l’industrializzazione e la commercializzazione nel Belpaese. Ma l’esperienza non va a buon fine e i Billi decidono di sondare le potenzialità delle loro idee facendo la spola tra l’Italia e la California; Emilio Billi viene chiamato in qualità di consulente per diversi grandi marchi, si fa conoscere, fa crescere la sua reputazione dando il suo brillante