HOLLYWOOD
Come la provocazione, anche il denaro da mezzo tende a trasformarsi in fine. Papa Bergoglio, citando San Basilio, lo chiama «lo sterco del diavolo» e per Freud, l’inventore della psicoanalisi, i soldi sono l’equivalente simbolico della cacca: la loro centralità nella vita degli individui e delle società è dovuta alla permanenza della fase anale, al piacere e al dolore del trattenere e dell’espellere, al potere di possedere e rifiutare. Anche nell’opera di Cattelan scorre un fiume di cacca: in America, il cesso d’oro del Guggenheim, nella mostra Shit and Die (2014), nel nome stesso del magazine Toilet Paper. Ma il denaro rappresenta anche un miracolo: l’inanimato che riacquista vita e potenza. Quando questa resurrezione accade, disgusto e attrazione coincidono, e lo schifo si trasforma in stupore. È quello che succede alla vista degli escrementi. Se l’inanimato resuscita, risata e paura si confondono. L’attrazione per le deiezioni assomiglia a quella per i cadaveri. Consente di esplorare il confine tra comico e tragico, di resuscitare ridendo gli scheletri. L’arte di Cattelan è allegra, però usa la morte, statue di cera, ossa e animali impagliati: i cavalli appesi al soffitto ( The Ballad of Trotsky, 1996) o infilati dentro un muro ( Untitled, 2007), lo scoiattolo suicida ( Bidibibodibiboo, 1996), i piccioni impagliati alla Biennale (duecento nel 1997, 2mila nel 2011), lo struzzo con la testa nel pavimento (1997), la mucca bianca con due manubri di bicicletta al posto delle corna ( Cow, 1997), i labrador con pulcino (2007), gli innumerevoli asini morti (1998, 2002, 2004, 2007, 2011) e quello vivo alla galleria Freeze di New York (2016). Perfino il suo vessato gallerista Massimo De Carlo appiccicato a un muro con chilometri di nastro adesivo fino a farlo svenire ( A Perfect Day, 1999). Ogni opera è un simbolo, non si sa di che cosa. Ma la morte permane ridendo. Il quarto foglio parla di questo. Hai detto: « La missione di ogni artista è scoprire simboli. Solo con quelli possiamo trascendere le mode, il gusto e il benpensare e ingaggiare una battaglia con la storia e dialogare con le nostre paure più oscure». Quando dici «scoprire» vuoi dire che i simboli ci sono già e che bisogna solo acchiapparli? «Non importa quanto possiamo essere evoluti tecnologicamente, la vita è comandata sempre dalle stesse leggi: nascita, morte, sesso e violenza ecc. I temi simbolici, universali, sono sempre gli stessi, cambiano i segni in cui questi simboli si traducono, segni che l’artista individua ed espone al pubblico. In questo senso, l’arte può avere l’arduo compito di mostrare quello che tutti hanno paura di esprimere».
Hai utilizzato animali imbalsamati e riprodotto cadaveri. La morte è al centro di quello che fai. Ma insieme alla morte c’è sempre anche un senso di comico.
« La comicità è una tipica esperienza umana. Ho il sospetto che sia collegato al fatto che siamo gli unici animali che sanno di dover morire. Gli altri animali non lo sanno prima, lo capiscono solo lì per lì, nel momento in cui muoiono. Non sono in grado di articolare qualcosa come l’affermazione: tutti gli uomini sono mortali. Noi invece siamo in grado di farlo, e questo è probabilmente il motivo per cui ci sono religioni e rituali. Penso che la comicità sia la quintessenza della reazione umana alla paura della morte».
L’amore invece non c’è.
«Non c’è nei lavori forse, se non nei titoli. Ma è ovvio, come tutti gli esseri umani, che c’è stato e c’è nella mia vita, altrimenti mi sarei già ammazzato: è l’unico vero motore dell’essere umano, insieme a suoi surrogati, come speranza e desiderio. Se guardi alla storia dell’arte, viene più facile pensare a rappresentazioni della tragedia che della felicità. Forse perché la felicità sta a monte, nell’atto creativo».
«La morte, invece, mi preoccupa nei termini di quello che lascio: è veramente questo quello che voglio rimanga dietro di me? Ha senso quello che faccio? La verità è che, più di tutto, mi piacerebbe lasciare un orfanotrofio». Ti tormenta la domanda? Ti sei dato una risposta?
« È un punto controverso: ho passato tutta la mia vita a dare vita a orfani, le mie opere, che una volta fatte vorrei non vedere mai più, dimenticare per sempre. Per contrappasso sento che, quando non c i sarò più, dare la possibilità d i avere una famiglia a dei bimbi orfani sarebbe importante: vorrei che la mia eredità fosse un posto che si possa chiamare casa. Forse così anche le mie opere troveranno pace».
Nel nostro quartiere da un anno non c’è più Gillo Dorfles che è morto il 2 marzo 2018, e il prossimo 12 aprile avrebbe compiuto centonove anni. Fino all’ultimo lo si incrociava per strada, era sempre elegantissimo. Vi siete mai incontrati? Vi siete parlati?
« Forse l’ho incontrato una volta in gelateria, ma non ricordo cosa avesse ordinato. Ora lo rimpiango, perché magari era proprio l’ingrediente segreto della sua lunga vita. Sono sempre rimasto sbalordito dalla sua lucidità: vorrei arrivare a due terzi dei suoi anni ed essere ancora capace di usare la testa come lui. Pare che le sue ultime parole siano state: “Non escludo il ritorno”. E, nel suo caso, neanche io mi sento di escluderlo». attelan e le sue opere appaiono. Come Gillo Dorfles, il giorno in cui passeggiava dietro Cattelan, proiettando l’immagine della sua vecchiaia in cammino. L’arte cerca sempre di fare apparire le cose che esistono, anche quelle che abbiamo davanti agli occhi, ma non riusciamo a vedere. Le cose, le persone, noi stessi. Un tempo, per riuscirci, gli artisti usavano i codici e la messa in scena della religione, di cui l’arte è parente. La Monna Lisa di Leonardo, la Ragazza col turbante di Vermeer, Le bagnanti di Picasso sono pronipoti delle Madonne del Medioevo e, prima ancora, degli idoli femminili della preistoria. Oggi l’arte deve utilizzare la pubblicità perché l’immaginario e il dibattito politico sono diventati, a tutti gli effetti, pubblicitari. Deve usare la violenza, la risata, la provocazione. E deve accettare di essere effimera. Le foto dell’account Instagram di Cattelan compaiono e scompaiono dopo un giorno, come farfalle. Se ogni cosa scompare, perché l’arte dovrebbe essere diversa? L’origine, però, è rimasta immutata: esprimere attraverso le immagini e i simboli lo stupore di essere. La meraviglia che esista qualcosa, invece del nulla. L’impressione è che lo stupore, per Cattelan, riguardi prima di tutto se stesso.
La verità è immaginazione? O c’è qualcosa di vero?
«Ci sono tante verità quante sono le persone che ci credono. Più sono i credenti, e più diventa una verità universale. Come esseri umani dipendiamo dal creare e credere nella finzione. Chiamala religione, mito, teorie cospiratrici, fake news o pubblicità, l’umanità ha sempre basato la propria sopravvivenza sulla capacità di immaginare cose che non sono vere e, in alcuni casi, convincere intere popolazioni a crederci. È il motore che ci ha portato sulla Luna, ma anche a sterminare sei milioni di persone nei campi di concentramento, purtroppo».
Mi lasci una prova concreta della tua esistenza, una minima opera d’arte, alla balera di via Cadamosto? (O al sushi di via Lambro, alla piscina Cozzi, al consorzio Stoppani, alla Casa Capitano, alla Film Color, il negozio di sviluppo e stampa, dall’artigiano che realizza gli specchi per Toilet Paper).
« Quando la troverai fammelo sapere, ogni tanto vorrei avere una prova della mia esistenza anche io».