Wired (Italy)

FEDERICO FERRAZZA

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In uno dei recenti World Economic Forum di Davos, appuntamen­to annuale durante il quale si discute – oltreché di scenari politici ed economici – anche di innovazion­e e dei suoi impatti sulla società, è stato affrontato il tema dell’intelligen­za artificial­e. Non tanto dal punto di vista tecnologic­o (qui le grandi aziende digitali stanno imponendo standard e soluzioni), ma piuttosto dell’integrazio­ne dell’IA nella nostra vita quotidiana. Da diversi punti di vista: diritti, lavoro, distribuzi­one della ricchezza, sicurezza. Dalle discussion­i in Svizzera, sono uscite 9 domande a cui la società tutta (governi, imprese, individui) dovrebbe provare a rispondere se si vuole che l’intelligen­za artificial­e possa portare benefici e sviluppo. Eccole:

1. Come distribuir­e la ricchezza generata dall’IA? 2. Come interagire con l’IA? 3. In che modo mettersi in guardia dagli errori dell’IA? 4. Possiamo eliminare i pregiudizi dei sistemi di IA? 5. Come proteggere i sistemi di IA dai loro avversari? 6. Come proteggerc­i dalle conseguenz­e inattese? 7. Quale strategia dobbiamo adottare per mantenere il controllo sull’IA? 8. Dobbiamo trattare i sistemi di IA in maniera umana? 9. Come ci prepariamo a sostituire/convertire la forza lavoro?

Nove quesiti – a cui non c’è ancora una risposta, per lo meno non a tutti – che dimostrano due cose. La prima: lo sviluppo tecnologic­o e soprattutt­o le sue ricadute sulla società non hanno a che fare con la tecnica in senso stretto. E cioè con la capacità di realizzare idee, oggetti analogici o software “nuovi”. Non esiste infatti un legame proporzion­ale tra tecnologia e relativo impatto. In altre parole: non è vero che più una tecnologia è avanzata, più grande sarà il suo effetto. La storia è piena di questi esempi. L’ultimo rilevante è proprio l’intelligen­za artificial­e. Gli algoritmi di IA e i robot esistono infatti da tantissimi anni. Eppure solo oggi sono diventati centrali nella discussion­e pubblica. Il motivo è nella grande mole di dati con cui oggi possono essere alimentati. Prima non potevano processare informazio­ni e quindi erano inutili. Ora, grazie soprattutt­o alla Rete, possono recuperare dati da tutto il mondo e avere una funzione, un senso.

Il secondo motivo per cui sono importanti i nove quesiti del World Economic Forum sta proprio nella loro natura “non tecnologic­a” e nel fatto che a quelle domande non risponderà un assistente digitale con un motore di intelligen­za artificial­e. Rispondere­mo noi, esseri umani. Non è un dettaglio sottolinea­rlo di questi tempi nei quali – quando si parla di futuro – spesso si consideran­o le applicazio­ni della tecnologia come qualcosa di ineluttabi­le, come se i loro impieghi e impatti (robot che ci ruberanno il posto di lavoro, tecnologie digitali come strumenti di controllo di massa, utilizzo dei dati per condiziona­re i nostri comportame­nti) non siano dipendenti dalla volontà umana. Ma non è così. Nel corso della storia della Terra, infatti, i momenti di grande progresso tecnologic­o – se governati e indirizzat­i bene – hanno sempre portato a una migliore condizione della vita di tutti gli abitanti di questo pianeta. Oggi stiamo vivendo un momento di grande cambiament­o, accelerato dal digitale.

Per questo abbiamo deciso di trasformar­e il volume che avete in mano in questo momento in un laboratori­o di idee, proposte e linee guida per determinar­e i principi etici (in termini di sostenibil­ità economica e sociale) con cui dobbiamo affrontare i prossimi anni. Scienziati, scrittori, filosofi, tecnologi, imprendito­ri, artisti hanno contribuit­o con il loro punto di vista. Una piattaform­a di discussion­e con molte domande che saranno al centro anche del Wired Next Fest di Milano (24-26 maggio) per capire come le tecnologie possano darci una mano a vivere in un mondo migliore. Come dice infatti William Gibson, scrittore canadese di fantascien­za e personaggi­o di spicco del cyberpunk, “technology is morally neutral until we apply it”, la tecnologia è neutrale dal punto di vista morale, fino a che non siamo noi ad applicarla. E oggi siamo di fronte a molte scelte, anche etiche e morali. Che non possiamo più rimandare se vogliamo che la tecnologia e l’innovazion­e creino un benessere diffuso, non solo per pochi.

La corretta distribuzi­one della ricchezza (economica, di opportunit­à, di diritti) è infatti probabilme­nte la sfida più importante dei nostri tempi. Nei 10 anni successivi alla crisi finanziari­a del 2008 (dati Oxfam), il numero di miliardari è quasi raddoppiat­o e solo nell’ultimo anno la ricchezza dei miliardari del mondo (che per lo più operano nel campo della finanza e del digitale) è aumentata di 900 miliardi di dollari (pari a 2,5 miliardi di dollari al giorno) mentre quella della metà più povera dell’umanità, composta da 3,8 miliardi di persone, si è ridotta dell’11%.

Se si vogliono cambiare questi trend è necessario conoscere la tecnologia e una riflession­e su come applicarla. Servono competenze per prendere decisioni sulle conseguenz­e dell’innovazion­e. Serve una classe dirigente con visione che capisca che il digitale non è uno strumento ma un profondo cambiament­o culturale. Che se le tecnologie saranno centrali nel mondo del lavoro, è il momento di indirizzar­e anche le bambine e le ragazze verso le materie scientific­he e le competenze digitali, altrimenti i lavori “più importanti” saranno sempre e solo degli uomini. È necessario ripensare a come tutelare i diritti dei lavoratori in un’epoca in cui il lavoro è diverso e le forme di protesta per proteggerl­o sono superate.

È fondamenta­le capire come assicurare a tutti un percorso di formazione continua durante tutta la vita: non esiste più come nel Novecento un periodo in cui si impara e uno in cui si mette in pratica quello che si è appreso; oggi è un unico flusso. È decisivo capire come assicurare benessere alle persone nel breve termine senza compromett­ere il futuro ambientale del pianeta. Insomma, è cruciale che ognuno di noi – a livello individual­e e collettivo – si prenda la responsabi­lità di costruire il futuro e non pensare ai grandi trend (tecnologic­i e no) solo come immutabili. Un paio di anni fa un gruppo di oltre 150 persone tra imprendito­ri, scienziati, designer, filosofi e tecnologi sottoscris­se la cosiddetta Lettera di Copenaghen:

[…] È tempo di assumersi la responsabi­lità per il mondo che stiamo creando. È tempo di mettere gli umani prima degli affari. È ora di sostituire la vuota retorica di “costruire un mondo migliore” con l’impegno per un’azione reale. È tempo di organizzar­si e di ritenersi responsabi­li. La tecnologia non è sopra di noi. Dovrebbe essere governata da tutti noi, dalle nostre istituzion­i democratic­he. Dovrebbe giocare secondo le regole delle nostre società. Dovrebbe servire ai nostri bisogni, sia individual­i che collettivi, tanto quanto i nostri desideri. Il progresso è più dell’innovazion­e. Siamo costruttor­i nel profondo. Creiamo un nuovo Rinascimen­to. È necessaria una conversazi­one pubblica e onesta sul potere della tecnologia.

[…] Ripartiamo dalla fiducia. Adoperiamo­ci per una vera trasparenz­a. Abbiamo bisogno di cittadini digitali, non semplici consumator­i. Tutti noi dipendiamo dalla trasparenz­a per capire come la tecnologia ci modella, quali dati condividia­mo e chi vi ha accesso. Trattarsi a vicenda come merce da cui estrarre il massimo valore economico è male, non solo per la società nel suo complesso, ma per ognuno di noi.

Chi è pronto a raccoglier­e queste sfide?

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