HOMO IMPERFECTUS
IMPERFECTUS
MENTRE PROGETTIAMO DI ANDARE SU MARTE, IL SISTEMA LIMBICO CHE DIRIGE IL NOSTRO UNIVERSO EMOZIONALE È ANCORA QUELLO DEI PRIMATI. NELLA STORIA NATURALE, PERÒ, NON ERA MAI SUCCESSO CHE UNA SPECIE COSÌ INCOMPIUTA AVESSE UN POTERE COSÌ GRANDE
Scrivere di futuro è sempre un esercizio spericolato, non tanto per il rischio di sbagliare previsioni, quello va dato per scontato, quanto per il fatto disorientante che l’atto stesso di scriverne, di immaginarlo e di anticiparne le mosse, lo perturba e contribuisce a crearlo. E non è questione di fantascienza che diventa realtà. Quando Giulio Natta e Karl Ziegler nel 1963 ritirarono il premio Nobel per la chimica non avrebbero mai immaginato che gli 8,3 miliardi di tonnellate di plastica prodotti nei 60 anni successivi e gli otto milioni di tonnellate di questi riversati ogni anno negli oceani sarebbero diventati un’emergenza ambientale planetaria denunciata dalle Nazioni Unite nel 2017. Sono i risvolti tragici del progresso usa e getta, sottaciuta eredità millenaria del secolo breve. Abbiamo inventato polimeri straordinari che in natura non esistono e dunque, poiché l’evoluzione non prevede il futuro, non esistono neppure i microrganismi che li degradano. Semplice, a posteriori. Alfred Nobel era convinto che la dinamite, così potente, sarebbe diventata un efficace deterrente contro tutte le guerre. Lo stesso pensava J.B.S. Haldane, uno dei padri della genetica di popolazione, a proposito dei gas tossici da impiegare sul campo di battaglia. Furono preconizzati come strumenti della pace in Terra anche la mitragliatrice da parte di Hiram Maxim, l’aeroplano da Orville Wright, il sottomarino da Jules Verne. Ma, una volta imparata la lezione specifica sulle plastiche indistruttibili, ci siamo messi a inventare bioplastiche interamente biodegradabili che si sciolgono nell’erba alla prima pioggia (sono ancora poco competitive economicamente, ma è solo questione di tempo e di mercato).
Essendo gli umani trasformatori seriali degli ambienti che li circondano, si realizza il paradosso secondo cui, quando l’ambiente corre più veloce di noi, ci ritroviamo evolutivamente sfasati, e dunque sempre un po’
Homo sapiens è una specie paradossale. In quanto continuazione dell’evoluzione umana con altri mezzi, tutte le tecnologie sono come tali “naturali”. Viceversa, è da almeno due milioni di anni che le specie del genere Homo costruiscono nicchie ecoculturali che prima in natura non c’erano, frutto di ingegno e artificio, in una parola “artificiali”, con effetti talvolta sublimi talaltra devastanti. Dunque, siamo sempre più naturali per via artificiale e sempre più artificiali per via naturale. Di paradosso in paradosso. Siamo attori che con le proprie scelte individuali e collettive costruiscono effettivamente la nicchia ecotecnologica del futuro, la quale poi ci trasformerà e dentro la quale saranno evolutivamente “nativi” i nostri discendenti. Anziché adattarci soltanto, noi umani facciamo in modo che siano gli ambienti ad accomodarsi a noi. Così siamo attraversati da molteplici linee di discendenza: trasmettiamo ai nostri posteri i geni, ma anche le invenzioni, le idee e le trasformazioni ecologiche che noi stessi abbiamo introdotto.
In quanto natura organizzata per finalità umane, ogni tecnologia è anche l’espressione di una nostra forma di pensiero. Per esempio, siamo certamente liberi di negare l’evidenza e di alzare la temperatura terrestre di altri quattro gradi nel ventunesimo secolo, ma non abbiamo alibi cognitivi perché non possiamo più far finta di non sapere quali saranno le conseguenze. In questo caso un forte investimento in cambiamento tecnologico dovrà servire per rallentare un processo ecologico globale in corso. Abbiamo quindi bisogno di inventare tecnologie che abbiano incorporato in sé un pensiero alternativo. Ma non sarà affatto facile, perché il riscaldamento climatico è un processo così vasto nello spazio e nel tempo che facciamo fatica a pensarlo. Implica un salto categoriale per le nostre menti. La sua complessità (percepibile nei modelli che lo rappresentano) travalica le nostre capacità di prendere un impegno etico nei confronti di chi non ci è prossimo nello spazio (un disastro naturale in un paese lontano) e nel tempo (le future generazioni). È un fenomeno multidimensionale, probabilistico e statistico che sfida le nostre possibilità di comprendere le relazioni di causalità, poiché i suoi effetti sono spesso indiretti, differenziati e invisibili. Inoltre non percepiamo appieno quale possa essere il ruolo di ognuno di noi come singolo nel combattere il riscaldamento climatico, rispetto alle scelte politiche di nazioni e organismi sovranazionali. Infine, ancorché reale e già in essere, è un processo lento che crea assuefazione cognitiva. Evoluti nel qui e ora, non siamo predisposti per una tale lungimiranza globale.
A dispetto delle fughe in avanti dei postumanisti, l’evoluzione ci insegna che ciò che verrà dopo l’umano sarà ancora qualcosa di umano. La natura umana (ammesso che ne esista una soltanto) non è al capolinea, è ai suoi primi incerti passi. La nostra nicchia ecoculturale ed ecotecnologica va popolandosi di intelligenze artificiali, macchine molecolari, organoidi, visori di realtà virtuale, biostampanti, interazioni uomo-macchina, batteri sintetici, organismi geneticamente editati, embrioni crisprizzati. I nostri cervelli si connettono dentro il web, il più grande esperimento mai realizzato di manifestazione collettiva, e in tempo reale, del meglio e del peggio dell’umanità. Eppure, con microchip impiantati nel cervello, sempre più sedentari e assuefatti a Google, affezionati ai nostri robot domestici, iperconnessi in cloud, saremo pur sempre una versione aggiornata del buon vecchio Homo sapiens africano. E qui sta il punto. Noi siamo una specie imperfetta, come tutto ciò che è
figlio dell’evoluzione darwiniana, della selezione naturale che si ciba di caso, degli intrecci fra trasformazioni funzionali e vincoli strutturali. Il nostro corpo è pieno di tratti vestigiali inutili o dannosi, che ha saputo tollerare solo al prezzo di fastidiosi rimaneggiamenti. Il nostro Dna pure è ridondante, zeppo di sequenze in sovrappiù che non ha mai smaltito. Anche il nostro sublime cervello è il risultato abborracciato di aggiustamenti, sovrapposizioni di parti antiche e parti recenti, instabili compromessi che ne fanno un autentico accrocco. Eppure funziona, anzi forse è così creativo proprio perché imperfetto. Il riutilizzo contingente di strutture già esistenti rende molto frequente in natura la presenza di strutture subottimali e riciclate. Noi non facciamo eccezione. Anzi, noi complichiamo il quadro: essendo gli umani trasformatori seriali degli ambienti che li circondano, si realizza il paradosso circolare secondo cui, quando l’ambiente corre più veloce di noi, ci ritroviamo evolutivamente sfasati, e dunque sempre un po’ inadatti, imperfetti. Cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Ma qualche volta cambiamo il mondo così velocemente che poi non ci riconosciamo più in esso, ci sentiamo in ritardo e antiquati per nostra stessa responsabilità. Che cos’è il riscaldamento climatico antropico, associato perversamente all’estinzione di massa della biodiversità e all’impoverimento degli ecosistemi, se non un rischioso esperimento globale di trasformazione di nicchia ecologica che potrebbe tramutarsi in una trappola evolutiva per i suoi stessi artefici? Insomma, siamo sempre dentro il paradosso di Giulio Natta e della plastica.
Il punto critico allora non è soltanto che l’evoluzione culturale e tecnologica corre troppo veloce rispetto a quella biologica. Mentre progettiamo di andare su Marte il sistema limbico che dirige il nostro universo emozionale è ancora quello dei primati. D’accordo, ma c’è dell’altro. Non era mai successo nella storia naturale che una specie tanto imperfetta avesse un così grande potere. L’intrinseca ambivalenza di ogni umano strumento (a partire dalla prima lama di coltello) oggi si eleva di potenza dinanzi al meglio e al peggio che possiamo fare, per esempio, con il gene editing. Tutto questo oggi è nelle mani di un mammifero di grossa taglia che deve la sua sopravvivenza e il successo evolutivo proprio all’imperfezione del suo cervello e all’irrazionalità istintuale di molti suoi comportamenti. Essere consapevoli della nostra imperfezione ci dà un vantaggio e uno svantaggio, ed è l’ultimo dei paradossi. Lo svantaggio è che imbonitori e capipopolo possono manipolare per i peggiori fini le debolezze della nostra mente e i suoi conformismi, invocando nemici inesistenti e promettendoci protezione e consolazione neotribali. Il vantaggio è che per noi la biologia, i geni e l’evoluzione culturale e tecnologica non sono alibi fatalistici, ma possibilità e potenzialità ancora in gran parte inespresse. La plasticità del nostro cervello ci permette di indirizzarle nella direzione della sostenibilità, della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della solidarietà, cioè lungo quella via stretta che sola potrà tirarci fuori dalla trappola evolutiva in cui pervicacemente ci siamo infilati da soli.
inadatti, imperfetti. Cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Ma qualche volta lo facciamo così velocemente che poi non ci riconosciamo più in esso, ci sentiamo in ritardo e antiquati per nostra stessa responsabilità.