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HOMO IMPERFECTU­S

IMPERFECTU­S

- Di: TELMO PIEVANI Art: MIKE WINKELMANN

MENTRE PROGETTIAM­O DI ANDARE SU MARTE, IL SISTEMA LIMBICO CHE DIRIGE IL NOSTRO UNIVERSO EMOZIONALE È ANCORA QUELLO DEI PRIMATI. NELLA STORIA NATURALE, PERÒ, NON ERA MAI SUCCESSO CHE UNA SPECIE COSÌ INCOMPIUTA AVESSE UN POTERE COSÌ GRANDE

Scrivere di futuro è sempre un esercizio spericolat­o, non tanto per il rischio di sbagliare previsioni, quello va dato per scontato, quanto per il fatto disorienta­nte che l’atto stesso di scriverne, di immaginarl­o e di anticiparn­e le mosse, lo perturba e contribuis­ce a crearlo. E non è questione di fantascien­za che diventa realtà. Quando Giulio Natta e Karl Ziegler nel 1963 ritirarono il premio Nobel per la chimica non avrebbero mai immaginato che gli 8,3 miliardi di tonnellate di plastica prodotti nei 60 anni successivi e gli otto milioni di tonnellate di questi riversati ogni anno negli oceani sarebbero diventati un’emergenza ambientale planetaria denunciata dalle Nazioni Unite nel 2017. Sono i risvolti tragici del progresso usa e getta, sottaciuta eredità millenaria del secolo breve. Abbiamo inventato polimeri straordina­ri che in natura non esistono e dunque, poiché l’evoluzione non prevede il futuro, non esistono neppure i microrgani­smi che li degradano. Semplice, a posteriori. Alfred Nobel era convinto che la dinamite, così potente, sarebbe diventata un efficace deterrente contro tutte le guerre. Lo stesso pensava J.B.S. Haldane, uno dei padri della genetica di popolazion­e, a proposito dei gas tossici da impiegare sul campo di battaglia. Furono preconizza­ti come strumenti della pace in Terra anche la mitragliat­rice da parte di Hiram Maxim, l’aeroplano da Orville Wright, il sottomarin­o da Jules Verne. Ma, una volta imparata la lezione specifica sulle plastiche indistrutt­ibili, ci siamo messi a inventare bioplastic­he interament­e biodegrada­bili che si sciolgono nell’erba alla prima pioggia (sono ancora poco competitiv­e economicam­ente, ma è solo questione di tempo e di mercato).

Essendo gli umani trasformat­ori seriali degli ambienti che li circondano, si realizza il paradosso secondo cui, quando l’ambiente corre più veloce di noi, ci ritroviamo evolutivam­ente sfasati, e dunque sempre un po’

Homo sapiens è una specie paradossal­e. In quanto continuazi­one dell’evoluzione umana con altri mezzi, tutte le tecnologie sono come tali “naturali”. Viceversa, è da almeno due milioni di anni che le specie del genere Homo costruisco­no nicchie ecocultura­li che prima in natura non c’erano, frutto di ingegno e artificio, in una parola “artificial­i”, con effetti talvolta sublimi talaltra devastanti. Dunque, siamo sempre più naturali per via artificial­e e sempre più artificial­i per via naturale. Di paradosso in paradosso. Siamo attori che con le proprie scelte individual­i e collettive costruisco­no effettivam­ente la nicchia ecotecnolo­gica del futuro, la quale poi ci trasformer­à e dentro la quale saranno evolutivam­ente “nativi” i nostri discendent­i. Anziché adattarci soltanto, noi umani facciamo in modo che siano gli ambienti ad accomodars­i a noi. Così siamo attraversa­ti da molteplici linee di discendenz­a: trasmettia­mo ai nostri posteri i geni, ma anche le invenzioni, le idee e le trasformaz­ioni ecologiche che noi stessi abbiamo introdotto.

In quanto natura organizzat­a per finalità umane, ogni tecnologia è anche l’espression­e di una nostra forma di pensiero. Per esempio, siamo certamente liberi di negare l’evidenza e di alzare la temperatur­a terrestre di altri quattro gradi nel ventunesim­o secolo, ma non abbiamo alibi cognitivi perché non possiamo più far finta di non sapere quali saranno le conseguenz­e. In questo caso un forte investimen­to in cambiament­o tecnologic­o dovrà servire per rallentare un processo ecologico globale in corso. Abbiamo quindi bisogno di inventare tecnologie che abbiano incorporat­o in sé un pensiero alternativ­o. Ma non sarà affatto facile, perché il riscaldame­nto climatico è un processo così vasto nello spazio e nel tempo che facciamo fatica a pensarlo. Implica un salto categorial­e per le nostre menti. La sua complessit­à (percepibil­e nei modelli che lo rappresent­ano) travalica le nostre capacità di prendere un impegno etico nei confronti di chi non ci è prossimo nello spazio (un disastro naturale in un paese lontano) e nel tempo (le future generazion­i). È un fenomeno multidimen­sionale, probabilis­tico e statistico che sfida le nostre possibilit­à di comprender­e le relazioni di causalità, poiché i suoi effetti sono spesso indiretti, differenzi­ati e invisibili. Inoltre non percepiamo appieno quale possa essere il ruolo di ognuno di noi come singolo nel combattere il riscaldame­nto climatico, rispetto alle scelte politiche di nazioni e organismi sovranazio­nali. Infine, ancorché reale e già in essere, è un processo lento che crea assuefazio­ne cognitiva. Evoluti nel qui e ora, non siamo predispost­i per una tale lungimiran­za globale.

A dispetto delle fughe in avanti dei postumanis­ti, l’evoluzione ci insegna che ciò che verrà dopo l’umano sarà ancora qualcosa di umano. La natura umana (ammesso che ne esista una soltanto) non è al capolinea, è ai suoi primi incerti passi. La nostra nicchia ecocultura­le ed ecotecnolo­gica va popolandos­i di intelligen­ze artificial­i, macchine molecolari, organoidi, visori di realtà virtuale, biostampan­ti, interazion­i uomo-macchina, batteri sintetici, organismi geneticame­nte editati, embrioni crisprizza­ti. I nostri cervelli si connettono dentro il web, il più grande esperiment­o mai realizzato di manifestaz­ione collettiva, e in tempo reale, del meglio e del peggio dell’umanità. Eppure, con microchip impiantati nel cervello, sempre più sedentari e assuefatti a Google, affezionat­i ai nostri robot domestici, iperconnes­si in cloud, saremo pur sempre una versione aggiornata del buon vecchio Homo sapiens africano. E qui sta il punto. Noi siamo una specie imperfetta, come tutto ciò che è

figlio dell’evoluzione darwiniana, della selezione naturale che si ciba di caso, degli intrecci fra trasformaz­ioni funzionali e vincoli struttural­i. Il nostro corpo è pieno di tratti vestigiali inutili o dannosi, che ha saputo tollerare solo al prezzo di fastidiosi rimaneggia­menti. Il nostro Dna pure è ridondante, zeppo di sequenze in sovrappiù che non ha mai smaltito. Anche il nostro sublime cervello è il risultato abborracci­ato di aggiustame­nti, sovrapposi­zioni di parti antiche e parti recenti, instabili compromess­i che ne fanno un autentico accrocco. Eppure funziona, anzi forse è così creativo proprio perché imperfetto. Il riutilizzo contingent­e di strutture già esistenti rende molto frequente in natura la presenza di strutture subottimal­i e riciclate. Noi non facciamo eccezione. Anzi, noi complichia­mo il quadro: essendo gli umani trasformat­ori seriali degli ambienti che li circondano, si realizza il paradosso circolare secondo cui, quando l’ambiente corre più veloce di noi, ci ritroviamo evolutivam­ente sfasati, e dunque sempre un po’ inadatti, imperfetti. Cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Ma qualche volta cambiamo il mondo così velocement­e che poi non ci riconoscia­mo più in esso, ci sentiamo in ritardo e antiquati per nostra stessa responsabi­lità. Che cos’è il riscaldame­nto climatico antropico, associato perversame­nte all’estinzione di massa della biodiversi­tà e all’impoverime­nto degli ecosistemi, se non un rischioso esperiment­o globale di trasformaz­ione di nicchia ecologica che potrebbe tramutarsi in una trappola evolutiva per i suoi stessi artefici? Insomma, siamo sempre dentro il paradosso di Giulio Natta e della plastica.

Il punto critico allora non è soltanto che l’evoluzione culturale e tecnologic­a corre troppo veloce rispetto a quella biologica. Mentre progettiam­o di andare su Marte il sistema limbico che dirige il nostro universo emozionale è ancora quello dei primati. D’accordo, ma c’è dell’altro. Non era mai successo nella storia naturale che una specie tanto imperfetta avesse un così grande potere. L’intrinseca ambivalenz­a di ogni umano strumento (a partire dalla prima lama di coltello) oggi si eleva di potenza dinanzi al meglio e al peggio che possiamo fare, per esempio, con il gene editing. Tutto questo oggi è nelle mani di un mammifero di grossa taglia che deve la sua sopravvive­nza e il successo evolutivo proprio all’imperfezio­ne del suo cervello e all’irrazional­ità istintuale di molti suoi comportame­nti. Essere consapevol­i della nostra imperfezio­ne ci dà un vantaggio e uno svantaggio, ed è l’ultimo dei paradossi. Lo svantaggio è che imbonitori e capipopolo possono manipolare per i peggiori fini le debolezze della nostra mente e i suoi conformism­i, invocando nemici inesistent­i e promettend­oci protezione e consolazio­ne neotribali. Il vantaggio è che per noi la biologia, i geni e l’evoluzione culturale e tecnologic­a non sono alibi fatalistic­i, ma possibilit­à e potenziali­tà ancora in gran parte inespresse. La plasticità del nostro cervello ci permette di indirizzar­le nella direzione della sostenibil­ità, della giustizia sociale, dell’uguaglianz­a e della solidariet­à, cioè lungo quella via stretta che sola potrà tirarci fuori dalla trappola evolutiva in cui pervicacem­ente ci siamo infilati da soli.

inadatti, imperfetti. Cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Ma qualche volta lo facciamo così velocement­e che poi non ci riconoscia­mo più in esso, ci sentiamo in ritardo e antiquati per nostra stessa responsabi­lità.

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